Il
destino avverso e implacabile è l'ingrediente costitutivo del noir:
il mondo come macchina spietata fatta per travolgere il protagonista
- estrema evoluzione, rimpicciolita e involgarita, dell'ira
deorum
del mondo classico. Questo destino può prendere l'aspetto
impersonale della coincidenza (che è appunto il nome moderno che
diamo al Fato), e di questo l'esempio cinematografico più estremo e
delirante è il capolavoro Detour
di Edgar G. Ulmer. Oppure può prendere l'aspetto di una
macchinazione invincibile in cui una mente superiore – mastermind
– procede freddamente a tessere la ragnatela che avviluppa la
vittima. Guarda caso, proprio il gioco da tavolo Mastermind
(sfida fra un codificatore e un decodificatore) appare sottobraccio
a Nick (Ben Affleck) quando si presenta al bar di sua sorella Margo
(Carrie Coon) all'inizio de L'amore
bugiardo – Gone Girl
di David Fincher, per lamentarsi con lei di sua moglie Amy (Rosamund
Pike). E' un piccolo tocco metanarrativo, e ve ne sono altri nel
film; per esempio, è difficile non pensare che quando i due coniugi
si dicono “Quanto siamo belli: da prenderci a pugni in faccia”
non vi sia un'allusione a Fight
Club.
I film di David Fincher sono in generale metafore dell'angoscia
sottesa ai rapporti sociali (o alla condizione esistenziale: Seven),
e anche qui la condizione di Fight
Club,
la follia (auto)distruttiva per rispondere a un'oscura carenza che si
avverte sotto la patina del successo, si ricrea nella “coppia
perfetta” di Nick e Amy. Si
potrebbe anche dire che il loro
è
un
fight club di
fantasmi – nel senso che sono due finzioni entro un gioco di
finzioni. Amy è (invenzione geniale di Gillian Flynn, sceneggiatore
dal proprio romanzo) il modello di un'Amy ”vera” che è falsa: la
Amazing
Amy
sulla quale i suoi genitori hanno pubblicato una serie di libri
illustrati per ragazzi, dove tutto quello in cui l'Amy reale non
riusciva a eccellere (il violoncello, la pallavolo) si sublimava nel
successo dell'Amy immaginaria. Onde l'Amazing
Amy
della realtà si rispecchia nell'Amazing
Amy
della pagina scritta, fictional
fin dall'allitterazione; e vive con rabbia coperta lo iato fra la sua
concretezza e la
sua immagine trasposta. Quanto a Nick... Nick è un burino del
Missouri (ci vuole coraggio a Hollywood per disegnare un protagonista
scopertamente mediocre e apertamente antipatico) che Amy per farsi
amare ha trasformato in una figura altrettanto immaginaria, e il
poveruomo è rimasto incastrato dentro la finzione, e ci si contorce
come un verme sull'amo.
Questa
sorta di anti-mélo non è l'argomento patente bensì lo sfondo del
thriller: in cui (lo sappiamo, vero, che di questo film non si può
parlare senza spoiler?) Amy riesce a mostrarsi veramente amazing
sul solo terreno sul quale il suo doppio di carta non poteva
avventurarsi, quello del crimine. Il tutto con un contorno di
notazioni passabilmente sarcastiche sulla civiltà mediatica.
Sul
piano del racconto, L'amore
bugiardo – Gone Girl
(quando il titolo inglese è complicato i geniali distributori
italiani lo mantengono; quando è icastico e facile, lo cambiano) si
appoggia su un elegante, efficace gioco sulla focalizzazione e sullo
statuto dell'immagine. Ancora una volta, seguendo la lezione di
Hitchcock in Paura
in palcoscenico,
David
Fincher ci mena per il naso sfruttando l'antica superstizione della
realtà delle immagini – e ricorda alquanto quel che aveva fatto
Bryan Singer ne I
soliti sospetti.
Il film si articola nella prima parte, prevalente in lunghezza, su
due piani: il “racconto
primo”,
con Nick che si trova di fronte alla scomparsa della moglie (proprio
nel giorno dell'anniversario, in cui era tradizione che lei gli
preparasse una “caccia al tesoro” con indizi in rima), e la
visualizzazione del diario di Amy, che ci racconta l'antefatto –
tutt'altro che edificante circa il personaggio del marito – della
loro vita matrimoniale. Ora, noi spettatori siamo talmente attaccati
al concetto che quanto vediamo sullo schermo sia “ciò che accade”
che le sequenze in flashback del diario di Amy ci arrivano con una
perentorietà fattuale pressoché uguale alla narrazione al presente
focalizzata su Nick. Si crea un gioco psicologico per cui noi
sospettiamo con facilità (come Fincher e Flynn vogliono) di Amy in
relazione alla sua scomparsa - ovvero in relazione al racconto
primo
- ma ci beviamo come acqua fresca la visualizzazione del diario. C'è
qualcosa in questo, per l'appunto, connessi a una superstizione
dell'immagine; ben difficilmente cadremmo in questa ingenuità se
leggessimo degli excerpta
di diario in un libro.
Va
aggiunto che l'alternarsi delle due linee narrative è gestito dal
film con estrema eleganza (onore al montaggio di Kirk Baxter), coi
flashback che dialogano col racconto primo in una logica di risposta
e opposizione creando una vera tensione drammatica. Non per la prima
volta si può osservare che l'eccellenza estetica si traduce in
veridicità narrativa. Nella seconda parte, il racconto si biforca in
due linee indipendenti relative alla (ex) coppia, con l'effetto di
una moltiplicazione del gioco di specchi deformanti che costituisce
l'essenza del film.
Ma
quel che dà al film il suo carattere più profondo e angoscioso, e
lo eleva all'altezza di grande noir,
è la conclusione. Che non occorrerà qui descrivere (dopo aver
spoilerato tutto il film, lasciamo almeno questo brandello alla fame
dello spettatore che non l'abbia ancora visto); basterà dire che la
domanda finale di Nick sul futuro ci lascia con un'impressione molto
disturbante (del tutto fincheriana): che la continuazione ideale del
film, quella parte di vita dei protagonisti che non conosceremo mai -
a meno dell'ambigua e insoddisfacente soluzione del sequel - sia non
meno impressionante e tragica del film stesso.
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