Può
sembrarci strano Big
Eyes
di Tim Burton, abituati come siamo a pensarlo come un regista del
fantastico puro. Tuttavia si inserisce in modo logico nella sua
filmografia.
Il
film parte dell'immagine-base burtoniana: due file di casette
unifamiliari disposte a specchio, ciascuna col loro prato e vialetto,
lungo un viale assolato. E' il “mondo congelato” di Burbank dove
Burton ragazzino ha vissuto un'infanzia di malinconici sogni; ed è
l'immagine da cui partono i suoi film, nei quali si esce da quel
viale di villette borghesi alla ricerca di un altro mondo: in senso
spirituale (Frankenweenie)
o materiale (Edward
mani di forbice -
che
insegna che, se quell'altro mondo vuoi portartelo a casa, finisce
male). Orbene, l'andarsene da quel vialetto è la prima cosa che
vediamo
fare a Margaret in fuga da un marito “soffocante” che in Big
Eyes non
vediamo mai.
Certo,
l'uscita dal “mondo congelato” burtoniano di solito apre a
un'avventura fantastica. E qui? Beh: anche qui. Perché la storia
(vera, come i quadri) dei coniugi Keane è una di quelle in cui la
réalité dépasse la fiction.
Lei va a San Francisco e conosce l'affascinante Walter Keane, pittore
alla Pissarro e gran venditore (di case, di quadri, di se stesso). I
dipinti di Margaret – bambine dai grandi occhi – hanno molto più
successo di quelli di lui. Walter, che in realtà non ha mai dipinto
nulla, si appropria dei quadri di Margaret (firmati semplicemente
Keane) con un misto di bugie, di pressione psicologica pavloviana e
anche di minacce. Questo dura anni; con la crescita del successo
diminuisce inversamente l'autonomia della pittrice, ridotta a
ghost-painter
del
marito. A un certo punto lei in un supermercato comincia a vedere
tutte le donne coi grandi occhi dei suoi quadri (è l'immagine più
tipicamente burtoniana del film).
Non
è una boutade ispirata dal titolo se dico che Big
Eyes
ricorda Big
Fish. Quest'ultimo
rappresentava il potere assoluto dell'affabulazione; Big
Eyes
presenta al proprio interno un esempio di affabulazione leggendaria
altrettanto riuscita e nel personaggio di Walter (un ottimo Christoph
Waltz, con la sua dentatura da predatore e una capacità alla Barry
Lyndon di autoconvincersi delle proprie illusioni) una creatura
assurda non meno fantastica – benché non mitica – di quelle che
popolavano Big
Fish.
Qui,
ahimè, casca l'asino. Sul piano psicologico la sceneggiatura di
Scott Alexander e Larry Karaszewski non è all'altezza dell'assurdità
della vicenda. Se Waltz delinea con la sua solita impressionante
sicurezza un ritratto perfetto di parassita, il personaggio della pur
brava Amy Adams non si lascia sentire “a pelle”. Come si può
essere così stupidi (arrendevoli, se preferite) per lunghi anni? Il
film nella sua parte centrale non risponde in modo convincente,
benché a un certo punto ci provi con una voce narrante esterna (un
giornalista) usata in modo alquanto goffo. E' vero che nel cinema di
Burton i suoi personaggi-bambini sono incapaci di difendersi dal
mondo, ma prima Margaret ci aveva fatto l'impressione opposta. Rimane
nel
tessuto del film una
“zona
bianca”; né Big
Eyes
ha il minimo intento di creare una figura dostoevskiana per cui
questa stessa domanda irrisolta diventi il punto focale. In ogni
modo, tutto è bene quel che finisce bene: c'è un processo
(delizioso James Saito nel ruolo del giudice) e la verità e i
diritti vengono ripristinati.
Big
Eyes
è peraltro molto interessante anche per un aspetto che va al di là
di questa vampirizzazione artistica. Intanto, diciamolo subito fuori
dai denti: quando un critico (Terence Stamp), un gallerista e
un'intenditrice concordano nell'esprimere un giudizio assolutamente
negativo sui dipinti “dai grandi occhi” firmati Keane, hanno
perfettamente ragione.
Questi
quadri sono poco più su dei terribili clown che sono la progenie
maledetta dei pittori della domenica. La verità è che Margaret
Keane ha inventato un modulo estrinseco e l'ha applicato a stampo (a
un livello indubbiamente più alto, è lo stesso problema dei
ciccioni di Botero). Come dice Terence Stamp nel film, è grafica,
non pittura. E che Margaret non raggiunga mai un livello pittorico
alto lo mostra il fatto che quando, in segno di protesta e
indipendenza, cambia stile, produce dipinti mediamente migliori ma
dipende fortemente da Modigliani. Osservazione personale: senza
esigere Francis Bacon o Lucian Freud, quanto è più bello
l'accademismo muscoloso e pompier
di Frank Frazetta o Boris Vallejo!
La
parola “grafica”
ci aiuta a capire il senso profondo del film. La perversa genialità
di Walter non mira a fondare un impero sulla vendita dell'originale
bensì della riproduzione.
Direbbe Benjamin che in questo caso la riproducibilità è tanto più
facile in quanto l'aura di questi quadri di basso valore artistico è
trascurabile. Quanto Burton sia consapevole di questo nodo centrale
lo mostrano in modo indubitabile i titoli di testa (il film poi mette
in epigrafe una colossale sciocchezza di Andy Warhol).
Anche
se il parere di Burton sull'artista è positivo, e in passato le ha
commissionato un ritratto della compagna Lisa Marie (peraltro una
delle sue opere migliori), Big
Eyes è
anche una riflessione pacatamente ironica non sull'arte ma sulla sua
riproduzione a livello di massa; non la riproduzione come copia del
dipinto ma il dipinto come base per la sua riproduzione; e allora
abbiamo il gioco di specchi di una menzogna che viene riprodotta in
milioni di esemplari – ovvero la menzogna che possedere un poster
di Keane significhi possedere un Keane. L'inganno nell'epoca della
sua riproducibilità tecnica.
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