Orson Welles
Siamo
nell’ufficio di Thatcher, furioso per una “bufala”
giornalistica inventata dal giovane Kane. In questa scena la
curiosità a lungo protratta dello spettatore è finalmente esaudita,
con l’apparizione di Welles “al naturale”, giovane e
sorridente, dopo che lo abbiamo visto truccato da vecchio morente
nell’apertura e poi sotto varie forme di trucco nel cinegiornale
(la varietà illusionistica e teatrale dei volti di Kane a varie età
nel film replica il fervore dimostrativo della magia dello spettacolo
che indirizza l’opera di Welles. La parte di Kane è una vera orgia
del trucco).
E’
un momento fortemente enunciativo. Citizen Kane (Quarto
potere) il pubblico deve vederlo in quanto film di Welles, il
genio del teatro e della radio approdato a Hollywood, quello che dopo
War of the Worlds i giornali hanno a lungo chiamato “il
marziano”.
E
Kane dice: “Non capisco niente di giornali, signor Thatcher, quindi
provo quello che mi viene in testa”. Basta mettere “cinema” al
posto di “giornali”, e l’identificazione è completa; è
lampante il riferimento autoironico alla sua avventura hollywoodiana
appena iniziata. Del resto, potremmo osservare, se Orson Welles è il
golden boy della RKO, l’appellativo si attaglia
perfettamente anche a Kane - la cui ricchezza viene, in origine, da
una miniera d’oro.
S’intende
che l’episodio del telegramma all’inviato a Cuba ci riporta
immediatamente a Hearst. Kane è una figura doppia. Non si tratta
certo di cancellare idealmente il nome Hearst da Citizen Kane
per scrivere al suo posto Welles; il riferimento a Hearst, e quello
(crudelmente ingiusto) a Marion Davies nel film sono scontati,
attizzati dall’odio del co-sceneggiatore Herman Mankiewicz. Ma
Citizen Kane, che all’inizio doveva chiamarsi American,
è molto di più; è una gigantesca autobiografia americana
(come lo sarà il film col quale forma un dittico, L’orgoglio
degli Amberson) e in questa anche Welles ha la sua parte.
Ripensiamo a come in tutta la sua carriera Welles abbia costruito i
propri personaggi quali doppi che esprimono una parte di sé.
Tanto
Welles è elegantemente evasivo quando si esprime nelle interviste,
quanto è chirurgicamente lucido quando si esamina nella proiezione
dei suoi personaggi. “In fondo oggi ha rifatto la prima pagina solo
4 volte”: una battuta che, a sentirla oggi, non possiamo non vedere
come puro autoritratto, se pensiamo che per tutta la vita la
caratteristica profonda di Welles - e la rovina dei suoi rapporti coi
produttori - sarà l’ossessione di rifare continuamente il
film (dice Leland/Joseph Cotten più tardi: “Non ha mai finito
niente in vita sua - salvo il mio articolo”; altra battuta che
mette i brividi). Quando Leland ubriaco, dopo la sconfitta
elettorale, critica il paternalismo di Kane e gli preconizza un
triste futuro, questo non fa pensare solo al magnate della
sceneggiatura.
Perché
la massima grandezza del venticinquenne Welles in Citizen Kane
è proprio di amplificare i suoi tratti autobiografici in una
proiezione futura; si può dire che sotto la maschera (doppia, anzi,
multipla) di Kane Welles mette allusivamente in scena non solo
il proprio presente ma anche i suoi timori, un futuro possibile, una
propria parte negativa che il film è un mezzo per isolare,
esaminare, esorcizzare nella creazione artistica.
Il
tema del fallimento esistenziale, e dell’auto-esilio in un
artificiale “regno della delusione” (qui l’eternamente
incompiuta Xanadu, macchina celibe architettonica), è
talmente insistente in Welles fin dal primo film che non si può non
pensare a un terrore continuamente presente - anche in questo inizio
pieno di speranza - sotto il sorriso un po’ sfacciato del golden
boy.
(Citizen
Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)
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