Orson Welles
Dopo
il titolo, la voce nostalgica di Orson Welles entra su un lungo
“nero” che poi sulla spinta di quella voce si apre al visivo con
l’inquadratura della casa degli Amberson, in una descrizione
incantata del tempo passato. L’istanza narrante si materializza
nella voce. L’orgoglio degli Amberson è il film di Welles
in cui più forte e dichiarato appare il suo legame con la radio: la
voce narrante è generatrice della visione. Si permette anche
a un certo punto di accennare un duetto verbale con un personaggio
(la saggia signora pettegola), realizzando nella narrazione
affascinanti spostamenti dello statuto di realtà. Più tardi,
introduce - come per enunciarne la solennità - la potente
riflessione del Maggiore Amberson sull’universo e la morte; vicino
al finale, introduce e commenta, lenta e triste, la preghiera di
pentimento di George. Inoltre, quale concretizzazione dell’istanza
narrante, è responsabile della rivoluzionaria freschezza e densità
del linguaggio visivo. Per questo alla fine, nei famosi credits
visivi che sostituiscono i cartelli, al momento di nominare il
regista vediamo nell’inquadratura la voce di Welles provenire da un
microfono... “My name is Orson Welles”... che poi si
allontana e sparisce nella dissolvenza, e ciò segna la fine del
film.
Dice
il luogo comune che Welles a differenza di tutti gli altri suoi film
non è interprete negli Amberson. Ma la verità è che Welles
interpreta gli Amberson due volte. E’ la voce narrante,
nella sua materialità generatrice; ma è presente anche in un
secondo modo, proiettandosi fisicamente nella narrazione attraverso
l’interpretazione di Tim Holt, che in tutto il film sembra il suo
doppio, una sovrimpressione spettrale. Welles trasforma Tim Holt in
un particolarissimo stand-in di Welles stesso nel ruolo di
George Amberson Minafer (già interpretato da Welles stesso
nell’adattamento radio dell’ottobre 1939). E qui va ricordato che
Welles affermava - ma la veridicità è dubbia - che Booth
Tarkington, autore del romanzo, frequentasse la sua famiglia e
l’avesse conosciuto nella prima giovinezza: lasciando intendere che
il personaggio di George fosse stato modellato proprio su di lui.
Così
Welles ne L’orgoglio degli Amberson trasforma la sua
consueta tecnica proiettiva - di mettere in scena un personaggio che
è una parte di se stesso, di una sfaccettatura della propria
personalità polimorfa - in un gioco di specchi raffinato: dove
Welles proietta se stesso nel corpo fisico dell’interprete per
inscenare per interposta persona la proiezione di se stesso nel
personaggio di George.
Una
doppia presenza, non fisica ma materiale e fondante. Ora
pensiamo alla grande scena della preghiera di George, la notte prima
di lasciare per sempre casa Amberson, che chiede perdono alla madre
morta (forse la scena più alta e libera, aperta e commossa, senza
mediazioni, che Welles abbia mai girato; forse dovremo aspettare il
Falstaff per vedere qualcosa di altrettanto diretto).
La
voce narrante la introduce, la sorregge, implicitamente la giudica.
Si realizza così un corto circuito fra le due presenze di Welles nel
film: il Welles voce/istanza narrante, dal suo punto di vista
assoluto, non focalizzato, onnisciente, guarda dall’alto e giudica
il giovane Welles/personaggio, figura smarrita che è arrivato alla
comprensione, nel corpo di Tim Holt.
(Citizen
Welles, a cura di Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2005)
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