John Landis
Quando
gli executive della Universal lessero la sceneggiatura di National
Lampoon’s Animal House,
scritta da Doug Kenney, Christopher Miller e Harold Ramis, ispirata
in teoria alle esperienze di college degli ultimi due, gli vennero i
capelli dritti. Persino John Landis, futuro regista del film, fu
spaventato dalla foga iper-anarchica dei tre. Comunque, con qualche
spruzzata d’acqua sulle gag più distruttive da un lato, con
qualche accorgimento per convincere la riluttante Universal a mandare
avanti il progetto dall’altro, Animal
House vide
la luce - e nacque il capolavoro assoluto della commedia demenziale
americana.
Risposta
paradossale e ghignante ad American
Graffiti,
Animal
House trasforma
la nostalgia in irrisione, e la poesia in rivolta. E’ l’epopea
della malfamata confraternita universitaria dei Delta in guerra con
gli Omega (i figli conformisti della upper
class)
e contro il preside del college, nel 1962: una guerra contro le
regole del gioco e contro l’universo ipocrita che li circonda,
combattuta a base di musica, birra, oscena fisicità, fornicazione e
toga party. Una guerra che culmina nello sconvolgimento della gran
cerimonia laica dei buoni sentimenti americani, la parata cittadina:
dove i Delta attaccano imparzialmente tanto i simboli dell’America
guerriera degli anni ’50 (il plotone di studenti in formazione
militare) quanto la retorica kennediana dei ’60 (il carro con due
mani che si stringono, una bianca e una nera - e vengono separate e
vanno ognuna per la sua strada). Easy
Rider?
Il
laureato?
Fluffa. La vera rivolta sullo schermo è Animal
House.
Ma
cosa sarebbe Animal
House
senza John Belushi? E’ questo comico del Saturday
Night Live,
di famiglia albanese, che regala la sua corposità esagerata
all’indimenticabile Bluto, l’animal
più animal
della house,
e che incarna il vero paradigma comico degli anni ’70. La sua
comicità è basata sull’iperbole. Sarebbe piaciuto ad André
Bréton l’ignobile, dolce, grasso, sudato, sconvolto e immenso John
Belushi - che fa schifezze inenarrabili in mensa riempiendosi le
guance come un criceto, che lancia un indimenticabile sguardo
complice al pubblico mentre spia le ragazze che si spogliano, che per
distruggere il corteo cittadino riesuma senza saperlo l’eroismo
esotico del nostro Sandokan.
O
che in Blues
Brothers si
toglie - per una sola e unica volta - gli occhiali neri ed esibisce
romantico gli straordinari occhioni umidi, mentendo a quattro
palmenti, per imbrogliare Carrie Fisher, fidanzata delusa che gli
sbarra la strada; salvo farla cadere a terra e scappar via non appena
lei si è commossa e ha abbassato l’arma.
Solo
sette anni dopo Animal
House,
John Belushi, che era stato a lungo dipendente dalla cocaina, moriva
a 33 anni per un’iniezione di speedball
(eroina più cocaina in vena). Il tempo ha talmente fuso la sua
immagine con quella del film che oggi Animal
House
- con tutte le sue gustose interpretazioni, Tim Matheson e Donald
Sutherland, Tom Hulce e Karen Allen, senza scordare l’eccezionale
Verna Bloom (la moglie alcolizzata del preside) - lo ricordiamo quasi
come un lungo a
solo
di John Belushi. Ma forse è giusto così.
(Il
Nichelino)
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