lunedì 29 settembre 2014

Animal House

John Landis
Quando gli executive della Universal lessero la sceneggiatura di National Lampoon’s Animal House, scritta da Doug Kenney, Christopher Miller e Harold Ramis, ispirata in teoria alle esperienze di college degli ultimi due, gli vennero i capelli dritti. Persino John Landis, futuro regista del film, fu spaventato dalla foga iper-anarchica dei tre. Comunque, con qualche spruzzata d’acqua sulle gag più distruttive da un lato, con qualche accorgimento per convincere la riluttante Universal a mandare avanti il progetto dall’altro, Animal House vide la luce - e nacque il capolavoro assoluto della commedia demenziale americana.
Risposta paradossale e ghignante ad American Graffiti, Animal House trasforma la nostalgia in irrisione, e la poesia in rivolta. E’ l’epopea della malfamata confraternita universitaria dei Delta in guerra con gli Omega (i figli conformisti della upper class) e contro il preside del college, nel 1962: una guerra contro le regole del gioco e contro l’universo ipocrita che li circonda, combattuta a base di musica, birra, oscena fisicità, fornicazione e toga party. Una guerra che culmina nello sconvolgimento della gran cerimonia laica dei buoni sentimenti americani, la parata cittadina: dove i Delta attaccano imparzialmente tanto i simboli dell’America guerriera degli anni ’50 (il plotone di studenti in formazione militare) quanto la retorica kennediana dei ’60 (il carro con due mani che si stringono, una bianca e una nera - e vengono separate e vanno ognuna per la sua strada). Easy Rider? Il laureato? Fluffa. La vera rivolta sullo schermo è Animal House.
Ma cosa sarebbe Animal House senza John Belushi? E’ questo comico del Saturday Night Live, di famiglia albanese, che regala la sua corposità esagerata all’indimenticabile Bluto, l’animal più animal della house, e che incarna il vero paradigma comico degli anni ’70. La sua comicità è basata sull’iperbole. Sarebbe piaciuto ad André Bréton l’ignobile, dolce, grasso, sudato, sconvolto e immenso John Belushi - che fa schifezze inenarrabili in mensa riempiendosi le guance come un criceto, che lancia un indimenticabile sguardo complice al pubblico mentre spia le ragazze che si spogliano, che per distruggere il corteo cittadino riesuma senza saperlo l’eroismo esotico del nostro Sandokan.
O che in Blues Brothers si toglie - per una sola e unica volta - gli occhiali neri ed esibisce romantico gli straordinari occhioni umidi, mentendo a quattro palmenti, per imbrogliare Carrie Fisher, fidanzata delusa che gli sbarra la strada; salvo farla cadere a terra e scappar via non appena lei si è commossa e ha abbassato l’arma.
Solo sette anni dopo Animal House, John Belushi, che era stato a lungo dipendente dalla cocaina, moriva a 33 anni per un’iniezione di speedball (eroina più cocaina in vena). Il tempo ha talmente fuso la sua immagine con quella del film che oggi Animal House - con tutte le sue gustose interpretazioni, Tim Matheson e Donald Sutherland, Tom Hulce e Karen Allen, senza scordare l’eccezionale Verna Bloom (la moglie alcolizzata del preside) - lo ricordiamo quasi come un lungo a solo di John Belushi. Ma forse è giusto così.

(Il Nichelino)

Nessun commento: