venerdì 26 settembre 2014

Vita di O-Haru, donna galante

Mizoguchi Kenji
Leone d’argento alla Mostra di Venezia del 1952, il film è tratto dal romanzo del 1686 Kokoshu Ichidai Onna (“Vita di una donna amorosa”) dello scrittore giapponese classico Saikaku Ihara. Distanziandosi dallo sguardo ironico di Saikaku, Mizoguchi dipinge O-Haru in un’ottica tragica, mostrando il suo carattere di vittima di una società gerarchica, maschilista e patriarcale. Gradualmente assistiamo al suo disfacimento e alla sua rovina, da oggetto di bellezza e ammirazione a ripugnante esempio di corruzione per lo sguardo moraleggiante del prossimo. Le “stazioni” della progressiva decadenza di O-Haru realizzano anche un affresco d’epoca e delle varie forme sociali della condizione della donna nel XVII secolo. 
Dal punto di vista formale è straordinario il modo in cui Mizoguchi crea una dialettica tra esterno e interno per mostrare il conflitto tra dovere e sentimento, come nella scena della dichiaraione d’amore di Katsunosuke. A esprimere la dialettica di emozioni tra i personaggi sono quasi sempre i gesti, i movimenti del corpo, le posture degli attori in scena. La donna diviene personaggio principale e narratore delle vicende del film, cosicché l’oggetto dello sguardo e il soggetto della narrazione diventano tutt’uno.
Vita di O-Haru pone un’opposizione tra lo sguardo della protagonista e lo sguardo degli uomini (e donne di rango superiore) su di lei. Questo è uno sguardo libero, diretto, aperto (anche quando viola spazi chiusi: lo sguardo del messo del signore Matsudaira che coglie O-Haru mentre si esercita alla danza dietro dei paraventi bianchi). Viceversa, lo sguardo di O-Haru è uno sguardo negato, deviato: ora proibito, ora costretto in un sistema di regole che lo determinano rigidamente. Perfino in veste di prostituta deve recitare la commedia di un pudore da giovincella, cosicché lo sguardo, di sotto la manica del kimono che le fa da copricapo, invece di essere provocante è deviato con falsa timidezza. Oppure vedi tutto il gioco degli sguardi quando O-Haru viene presentata al nobile Matsudaira, in presenza della moglie di questi, durante uno spettacolo di burattini che realizza una ironica mise en abyme della situazione. Contestualmente, in tutto il film O-Haru non è agente ma agita, non è determinante ma determinata. Non si può non osservare che questo vale anche per la dichiarazione d’amore del samurai. Ciò non significa che sia una persona remissiva: il film mette in luce più volte il suo carattere ribelle, dalla difesa del suo amore perduto di fronte ai genitori fino all’ultima ribellione contro l’uomo che l’ha presa in affitto come prostituta solo per esibirla ai pellegrini a scopo di moralità. 
La penultima scena, che mostra in campo lungo i cortigiani che cercano O-Haru fuggita nei giardini del nuovo signore Matsudaira, rappresenta un uso particolarmente geniale del framing mizoguchiano: la costruzione dell’immagine, tutta barriere visive, riduce questa scena effettiva a uno spicchio rettangolare di schermo. Nel che possiamo vedere un’anticipazione di quell’allontanamento dal mondo – quella comprensione della sua inessenzialità - che subito si traduce nella sequenza finale, con O-Haru monaca che chiede la carità di porta in porta e vedendo di lontano una pagoda si inchina a mani giunte.
 
(Mizoguchi Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)

 

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