Mizoguchi Kenji
I
racconti della luna pallida d’agosto – Leone d’argento alla
Mostra di Venezia 1953 - rappresenta uno dei vertici dell’attività
registica di Mizoguchi, che si misura con il difficile compito di
trasporre due diversi racconti del grande scrittore giapponese del
diciottesimo secolo Ueda Akinari incrociandoli con una novella di Guy
de Maupassant. Accanto a Tanaka Kinuyo (Miyagi), appare nella parte
della spettrale Lady Wakasa un’altre delle grandi attrici
mizoguchiane: Kyo Machiko, che nel 1950 aveva interpretato Rashomon
di Kurosawa Akira, e tornerà a recitare per Mizoguchi ne
L’imperatrice Yang Kwei-fei, Shin Heike Monogatari e La strada
della vergogna.
La
straordinaria fusione operata da Mizoguchi tra realismo poetico e
misticismo surreale crea un’atmosfera rarefatta, bellissima e
austera. Il film è anche una metafora sul dolore e le aberrazioni
causate dalla guerra. In tutto il film vediamo la guerra e i soldati
sotto la luce più antieroica possibile. Memorabile e terribile è la
comparsa dei due diversi gruppi di soldati che stuprano Ohama e
uccidono Miyagi: entrata in campo con la più assoluta semplicità:
la guerra è appena fuori dal bordo dell’inquadratura.
Narrativamente
l’opera è strutturata attraverso un articolato e complesso gioco
di parallelismi e rimandi (Tobei e Ohama sono il doppio
basso-mimetico, caricato di sobri effetti umoristici, della coppia
protagonista); entrambi i due mariti si buttano volontariamente in
braccio alle loro illusioni, abbandonando le due mogli che oppongono
loro la voce inascoltata della ragione; inoltre, la vicenda di
Genjuro si sdoppia fra una moglie reale, che abbandona (e riapparirà
come fantasma), e una moglie spettrale che invece desidera, finché
non dovrà rendersi conto della sua vera natura.
Ne
I racconti della luna pallida d’agosto il mondo dei vivi e quello
dei morti si intersecano e s’incrociano, comunicano tra loro, quasi
si fondono. Così il mondo “reale” e la fortuna terrena diventano
qualcosa di impalpabile e mutevole, in continua trasformazione,
qualcosa che mai si riesce a stringere e possedere – e il concetto
è connesso nel film al magnifico uso degli spazi da parte della
regia di Mizoguchi. Tutte le scene dell’incontro tra Genjuro e
Wakasa, attraverso l’alternanza tra esterno ed interno sono un
esempio perfetto della dicotomia visiva tra realtà fisica e ombre
eteree.
In
tutto il suo cinema Mizoguchi riflette sulla figura dell’artista;
il film che più chiaramente realizza il suo discorso è,
naturalmente, Utamaro o Meguru Gonin no Onna. Nel presente film,
Genjuro è un abile vasaio, che però inizialmente non persegue la
bellezza in sé (come per Utamaro, l’arte trova in se stessa il
proprio scopo) ma a scopo di guadagno e di promozione sociale.
Infatti nella spettrale Lady Wakasa Genjuro non è attratto solo dal
sogno di un amore aristocratico ma anche dal riconoscimento, per
bocca della nobildonna, dell’eccellenza dei suoi lavori. La
conclusione lo vede non solo contento di rimanere nel proprio
villaggio, come Tobei, ma purificato dai sogni di gloria da ottenere
mediante il suo lavoro. Sua moglie Miyagi devota fino all’estremo, la
cui voce fantasma accompagnerà Genjuro nella sua esistenza a venire,
è l’emblema di questi valori, dell’amore e della serenità
familiare.
(Mizoguchi
Kenji. Un'implacabile perfezione, a cura di Cecilia Collaoni e
Giorgio Placereani, Udine-Pordenone 2007)
Nessun commento:
Posta un commento