sabato 8 marzo 2025

L'orto americano

Pupi Avati

Siamo nell’Emilia del 1946, con i carri armati degli alleati in filmati di repertorio che si mescolano con una narrazione cui prestano un’aria di neorealismo, nella fotografia in b/n di Cesare Bastelli). Un’ausiliaria americana entra in una bottega di barbiere per chiedere la direzione. Un giovane (il sorrentiniano Filippo Scotti) che è lì s’innamora ictu oculi di questa ragazza vista per pochi secondi. Il bellissimo inizio de L’orto americano di Pupi Avati pare ingannevole: pare volerci portare in uno dei suoi racconti teneramente sentimentali, storie di ragazzi e di ragazze, potremmo dire citando un suo titolo. Invece lo splendido quarantaquattresimo film di Avati è un horror, e anzi contiene alcuni momenti di assoluto orrore avatiano che ci riportano a La casa dalle finestre che ridono e Zeder.
Subito dopo la fine della guerra l’anonimo protagonista, aspirante scrittore, si trasferisce in America, in una cittadina del Midwest (ombra di Alfred Hitchcock!). Quando è in camera e sente il mormorio delle voci dei suoi morti, il film ha preso un’altra piega, in direzione del paranormale. Apprenderemo di lì a poco che il protagonista in passato è stato in manicomio perché parlava coi morti; invero già in apertura la sua voce narrante ci aveva detto che i suoi defunti lo avevano mandato nella bottega di barbiere quel giorno; ma noi lo avevamo preso per un modo di dire. Il destino (il destino?) vuole che la sua vicina sia la vecchia madre della ragazza (una potente, memorabile Rita Tushingham) e da lei il protagonista apprende che l’ausiliaria, Barbara, è scomparsa in Italia. Ben presto sente un tenue “Help me” disincarnato che lo ossessiona – anche l’uso del theremin nella colonna sonora richiama i tempi più classici del cinema del terrore – e scavando là da dove proviene la voce, trova nell’orto abbandonato dei vicini un misterioso reperto, un vaso di vetro che non si lascia aprire, con incollato un messaggio criptico intriso di cultura classica.
In breve, tornato in Italia, il giovane si lancia nella ricerca di Barbara, ricerca che lo trascina al processo di un serial killer squartatore di donne. È una dimensione di neri sogni rivelatori: siamo nel primo dopoguerra ma il dettaglio dei macabri reperti negli incubi (pubi femminili in vasi di vetro) è un evidente riferimento al successivo incubo del “Mostro di Firenze”.
Quando il film prende la via del paranormale, e poi dell’orrore puro, resta però chiaro che il suo inizio non era ingannevole come sembrava. Perché attraverso la figura del protagonista – un altro dei suoi giovani incerti, innamorati e umbratili – Pupi Avati perviene a fondere i due grandi filoni in cui si divide il suo cinema: quello nostalgico e sentimentale di amori più o meno impacciati e quello notturno e delirante di horror spietati – paurosi anche perché radicati nella pesante materialità paesana dell’area veneto-emiliana, coi suoi accenti e i suoi volti. Avati è un genio del casting; viene in mente solo Fellini che aveva un eguale senso “grafico” per i visi. In un film costruito sullo smarrimento, e pieno di falsi raccordi (il bel montaggio è di Ivan Zuccon), la narrazione si nutre di dettagli fulminanti (la padrona implicitamente sensuale della pensione, il magistrato al processo che si commuove), spesso affidati a regulars avatiani, nel quadro di un realismo così materiale da parere tangibile.
Dopo un percorso di orrori, che comprende un nuovo soggiorno in manicomio, quella tenerezza agrodolce e sognante dell’inizio si riflette in un finale che, più che aperto, è poetico. Non per nulla il film si conclude in un territorio liminare: quel Delta del Po dove l’acqua si confonde con la terra, il mare con la laguna – e il reale con l’immaginario. Perché la verità assume la veste del delirio, come nei racconti di Poe.

giovedì 6 marzo 2025

Duse - The Greatest

Sonia Bergamasco

Oggi lei è classica, anzi, il suo nome è il teatro per antonomasia. Tanto che anche Uderzo e Goscinny nell'episodio Asterix e il paiolo, dovendo inventare uno dei loro nomi pseudolatini per un attore romano che Asterix e Obelix incontrano (ricordate che i nomi di Asterix sono francesi e hanno l’accento sull’ultima), l’hanno chiamato Eleonoradus.
Classica, dico, oggi; ma all’epoca Eleonora Duse, pur essendo è riconosciuta come grandissima (“la Divina”), è stata una totale rivoluzionaria. Il suo metodo di recitazione basato sull’istinto psicologico (semplicità, scelta dei gesti, tempi propri) dinamitò l’impianto recitativo ottocentesco. Il suo compenetrarsi della parte, introiettandola, influenzò Stanislavskij – e attraverso lui, scendendo di un gradino, Lee Strasberg, e attraverso lui una buona parte di Hollywood.
A Eleonora Duse, nel centenario della morte (1924), ha dedicato un bellissimo documentario uscito questo febbraio Sonia Bergamasco. Duse – The Greatest (anche scritto da Bergamasco, con Mariapaola Pierini) è sì un documentario, con un grande lavoro di lavoro d’archivio alle spalle e una grande ricchezza di testimonianze, ma non ha il carattere verdittivo legato alla forma-documentario (che, del resto, contro questo autoritarismo lotta da oltre mezzo secolo). Questo documentario è una ricerca: la ricerca dentro un’assenza.
Infatti un aspetto di Eleonora Duse che oggi è ancora più interessante di ieri è il suo negarsi, il suo rivendicare una separazione netta fra l’arte dell’attore e la sua persona privata: non concede interviste (ma molto si rivela nelle sue lettere, che appunto solo dopo la sua morte leggiamo, restituite dal documentario con la voce over di Bergamasco). Molto è anche andato perduto, anche per scelta della figlia monaca che, apprendiamo, ha distrutto del materiale importante. Della sua voce che “fluttuava” (Bergamasco) è andata perduta anche l’unica registrazione, effettuata da Edison e finita distrutta nell’incendio del suo laboratorio.
Nella ricerca di una figura enigmatica che la affascinava fin dal ritratto fotografico di Edward Steichen che lei vedeva sempre alla Scuola di Teatro del Piccolo di Milano che frequentava, Sonia Bergamasco scava tra frammenti, brani di lettere, fotografie da commentare e da decifrare. Cerca testimonianze del passato (Luchino Visconti, che vide la Duse da bambino, o Charlie Chaplin) oppure dal presente. Senza fare liste, menziono Ferruccio Marotti, che aveva conosciuto la Duse attraverso la testimonianza di Gordon Craig (e che, come una specie di sindrome di Stendhal, si commuove fino alle lacrime rievocando un gesto). Ma vediamo fra gli altri anche Ellen Burstyn – che indossa sul palcoscenico l’anello della Duse, eredità di Eva Le Gallienne – e Helen Mirren.
Il documentario riserva giustamente largo spazio a Cenere (1916), unico film della Duse, unica testimonianza. In verità Eleonora Duse era profondamente interessata al cinema, con riflessioni tutt’altro che banali; la sua concezione del cinema la avvicinava a quella dell’avanguardia e in generale della scuola cosiddetta “impressionista” francese. Non a caso troviamo Louis Delluc fra i vari registi che volevano lavorare con lei. Purtroppo ritrosie e incertezze fecero fallire molti progetti. Per esempio, voleva portare sullo schermo i racconti di Selma Lagerlöf sui legami invisibili tra le anime e la natura (anche qui riconosciamo uno spirito di cinema francese). In Cenere, di e con Febo Mari, la Duse porta una figura di naturalezza ieratica: sembra un ossimoro ma è così, ed è poi quello che intende Helen Mirren quando parla di “gran classicismo più grande naturalismo”. “Voleva essere messa in ombra”, sentiamo: ecco il rifuggire dal primo piano, la potenza espressiva, la recitazione intensa e controllata, molto moderna (che contrasta con quella teatrale di Febo Mari, bravo regista, meno come attore).
Perché Sonia Bergamasco, importante attrice di teatro oltre che di cinema e tv, ha realizzato questo documentario? Non solo per pagare un debito (la fotografia). Duse è anche, attraverso questa ricerca, una lezione sulla recitazione – magnifica la parte in cui mette a confronto due morti di Margherita, quella della Bernhardt e quella della Duse ne La signora delle camelie – e prima ancora, un modo in cui Sonia Bergamasco e un gruppo di giovani attrici in un laboratorio ad Asolo (dove la Duse si ritirava) si interrogano su di lei e sull’essere attrice e sul corpo. Di più, si rispecchiano in lei: come rende chiaro una splendida inquadratura in cui, davanti a un’inquadratura della Duse in Cenere proiettata sulla parete, ripetono i suoi gesti, le sue movenze, la sua essenza, come quel famoso velarsi il capo; e la proiezione sulla parete comprende e avvolge i loro corpi; per cui c’è un proiettarsi nell’abisso del passato, un compenetrarsi – che poi è quello che la Duse faceva nei suoi personaggi sul palco del teatro dove, da bambina esordendo a quattro anni come Cosetta nei Miserabili a poco prima della morte a Pittsburgh, passò la vita.

lunedì 3 marzo 2025

Il panorama udinese dei cineclub da Guido Galanti ai giorni nostri

 

Il panorama udinese dei cineclub da Guido Galanti ai giorni nostri: il Centro Espressioni Cinematografiche e il Far East Film Festival

Intervento al convegno “La frontiera nel cinema e nella storia” – Gorizia, 6-8 maggio 2024

Per parlare del cineclubismo udinese bisogna partire da Guido Galanti, che nel 1930 fondò il Cine Club Udine – il terzo, in ordine temporale, in tutt’Italia (1). Accanto a lui bisogna menzionare almeno Renato Spinotti (zio di Dante Spinotti). Il Cine Club produce in 16mm nel 1934 il mediometraggio Giornate di sole, una commedia diretta e interpretata da Galanti e fotografata da Spinotti (con un cartello iniziale con l’angelo del colle di Udine disegnato a mano e la scritta “La Galanti Film presenta”). Nel 1935, però, un decreto del regime ordina che tutti i cineclub italiano debbano fare capo ai rispettivi GUF (Gruppi Universitari Fascisti), e anche a Udine il Cine Club diventa CineGuf.
Ciò non impedisce a Galanti e al suo gruppo di realizzare altre due commedie (rispettivamente, 19’ e 18’): nel 1937 A Villa Rosa è proibito l’amore e nel 1938 Contro Vento (premiato alla Mostra di Venezia nella categoria 16mm), opere leggere e ariose, quanto mai lontane dall’illusione militaresca del regime. Nel 1943 Galanti viene chiamato a Roma come ispettore di produzione del film Inviati speciali di Romolo Marcellini; a chiamarlo è Asvero Gravelli, un’interessante figura di gerarca attivo nel cinema, che era stato a Fiume con Luigi Freddi, e che fra l’altro è sceneggiatore de L’uomo della croce di Rossellini. Sarebbe potuta nascere una carriera, ma l’8 settembre interrompe tutto e Galanti ritorna a Udine.
Di Giornate di sole, amabile commedia ambientata, dopo l’inizio girato a Udine, a Lignano, è stato messo in risalto (Mario Quargnolo, Carlo Gaberscek) che il modello è Camerini. Non solo per il soggetto (un povero in una compagnia di ricchi che si finge ricco) ma anche per alcune riprese “meccaniche”, dall’auto in corsa, sia pure con i piccoli mezzi consentiti. A Villa Rosa è proibito l’amore è più mosso, forse meno chiaro all’inizio: c’è sempre una tendenza di Galanti, anche nel documentarismo, a “stringere” un’inquadratura in un tempo assai breve. Contro Vento è un divertito esercizio metacinematografico, con un personaggio femminile, Luisa, “rapita” due volte, nel film (per farglielo interpretare) e nel film-nel-film in qualità di classica damsel in distress. Ma non bisogna trascurare un bell’esempio della produzione di Galanti di film fiabeschi di bambini, il brevissimo (3’) Il sogno di Biancastella del 1942, che colpisce anche per il fascino del colore Agfacolor. Con un montaggio un po’ (ma piacevolmente) sgrammaticato nella scena di apertura, è un piccolo film sognante, al di là della trama, e (forse a occhi odierni) malinconico. Non è Jacques Démy ma lascia un grato ricordo.
Dell’opera documentaristica di Galanti ricordiamo La liberazione di Udine (15’), del 1945, la cui prima sequenza mostra il ritiro delle truppe tedesche dalla città: è girata dall’appartamento di Galanti in Viale Venezia e si possono vedere le imposte nelle inquadrature, a testimonianza della pericolosità; e poi Quattro passi per Udine (8’, 1953), in cui le riprese della città sono vivificate dall’apparizione di conoscenti che salutano in macchina. Uno fa il saluto fascista: distrattamente? per scherzo? Qui viene opportuna la tendenza di Galanti a “tagliare” dopo un secondo. Infine bisogna menzionare Il mio amico agricoltore (19’, 1958), si commissione della Federazione Casse di Risparmio delle Venezie), opera didattica sul valore del lavoro, della scienza e del risparmio in ambito agricolo, con un uso del sonoro che si alterna fra la voce over e il dialogo.

Nel 1949 viene fondato il Circolo del Cinema, con al centro Rodolfo Castiglione, e rinasce il Cineclub Udinese, con Adriano Degano, Antonio Seguini de Santi e Walter Faglioni. Faglioni, grande cinefilo e insegnante di dizione, è spesso lo speaker nelle numerose produzioni amatoriali dell’epoca. Fra queste, è più volte presente Elio Ciol (premiato con La Galleria Melonella, 1957), e si forma in quest'ambito il direttore della fotografia Alessandro D’Eva.
Nel 1973 Giancarlo Zannier fonda il Centro Espressioni Cinematografiche (CEC), con intenti produttivi: i ricavi delle rassegne e in seguito dell'esercizio (con la gestione del cinema Ferroviario del DLF, che prese il nome di Ferroviario d’Essai) servono a finanziare l’attività di produzione di cinema indipendente. Fra le produzioni documentarie possiamo ricordare Le brigate del fieno (1979), su un lavoro di fienagione con connotati politici creato da Giorgio Ferigo e organizzato dalla Federazione Giovanile Comunista, e Il cinema gira, sull'attività itinerante del CEC con un furgone attrezzato. Vi sono poi esercizi di cinema sperimentale, che girano intorno a Valter Criscuoli. Sul piano della fiction politicizzata, è ambizioso Ogni riferimento alla realtà è puramente casuale di Giancarlo Zannier (1976: l’ultima scena fu girata proprio il 6 maggio, il giorno del terremoto). Il titolo è ovviamente ironico: il film traeva ispirazione da un fatto di cronaca, il ritrovamento di un cadavere, per una storia politica sull’alienazione e la droga. La foto del protagonista, interpretato da Carlo Barbiera, fu direttamente inserita sulle pagine del quotidiano Messaggero Veneto che parlavano del ritrovamento.
A onta dei mezzi minimi, il film mira a un massimalismo del racconto, con un dramma politico-psicologico e anche una sequenza psichedelica. L’ingenuità produce un senso di astrazione; la recitazione non professionale diventa quasi epica; tanto che il film sembra un Alexander Kluge involontario. È molto interessante come “capsula del tempo”: mostra immagini perdute della vecchia Udine, in particolare del quartiere popolare di Via Villalta prima delle ristrutturazioni. Giancarlo Zannier aveva un occhio documentaristico: nel plot il protagonista lavora all’acciaieria Safau, e in una scena al suo interno lo sguardo sul funzionamento della fabbrica si dilata, quasi mettendo fra parentesi lo svolgimento, in un bel gioco di colori sul metallo incandescente, che rende questo squarcio la pagina migliore del film.

Le strade di Zannier e del CEC finirono per separarsi, dolorosamente, e in seguito Zannier si dedicò al Laboratorio Audiovisivi Friulano, associazione nata nel 1997 a Premariacco con lo scopo di valorizzare le espressioni fondate sull’immagine, caratterizzata da un intendimento didattico (corsi sulle pratiche audiovisive), dalla produzione di filmati e da un’attenzione alla tradizione popolare e alla lingua friulana. Ricordiamo Striis (Giancarlo Zannier e Galdino Zuliani, 2006), C’era una volta l’orto (Marco Fabbro, 2015) e – visibile su YouTube – il raffinato Tracce visive di Giancarlo Zannier del 2009, un lavoro di ricomposizione poetica di antiche e vecchie foto di gente di San Leonardo. Ma non ci separeremo da Giancarlo Zannier senza menzionare il suo bel docu-drama Benandants del 1995.
Il CEC invece si concentrò sull'esercizio, continuando la gestione del cinema Ferroviario – in seguito sostituito dal Visionario, che ha assunto le dimensioni di un vero palazzo del cinema. Fra le altre attività, tralasciando l’ordine cronologico, bisogna menzionare Lo Sguardo dei Maestri, realizzato in tandem dal CEC e Cinemazero di Pordenone, consistente in retrospettive complete di grandi maestri concluse ogni volta da un convegno internazionale, i cui atti venivano pubblicati dalla casa editrice Il Castoro di Milano. Inoltre, la Mostre dal Cine Furlan, curata da Fabiano Rosso, ha presentato una grande quantità di nomi importanti della cinematografia locale e non solo. Citiamo Lauro Pittini, Marcello De Stefano, Remigio Romano, Lorenzo Bianchini (da I dincj de lune a Lidrîs cuadrade di tre), Renatro Calligaro, Massimo Garlatti-Costa, Benedetto Parisi, Christiane Rorato, ancora Giancarlo Zannier, Marco Rossitti, Dorino Minigutti, Marcello Terranova, Carlo Della Vedova e Luca Peresson (Farcadice) e tanti altri. Da questa temperie, se non altro come ispirazione, sono venuti Alberto Fasulo (Rumore bianco), Matteo Oleotto (Zoran – Il mio nipote scemo), i progetti tv di Claudia Brugnetta (Autogrill, Bed & Breakfast), Marco Londero e Giulio Venier (Visins di cjase), Alessandro di Pauli e Tommaso Pecile (Felici ma furlans).

Abbiamo lasciato per ultima la più importante realizzazione del CEC. Ai tempi del cinema Visionario, si organizzavano delle rassegna annuali a tema, dal cinema di Marguerite Duras a quello di Samuel Fuller, dall'espressionismo tedesco al documentario, corredati da pubblicazioni, sotto il nome di UdineIncontri Cinema. Tale manifestazione aveva poi iniziato a stabilizzarsi nel segno di un'attenzione al cinema popolare italiano ed europeo, con grande ricchezza di ospiti: “Cinema e Italietta anni Cinquanta”, “Contestazione generale” sugli anni Sessanta, “Eurowestern”. E qui bisogna rendere omaggio all'intelligenza e all’impegno di Lorenzo Codelli, direttore della manifestazione, e all'insostituibile apporto della Cineteca del Friuli di Gemona.
Dopo il successo di “Eurowestern”, si trattava di trovare l’argomento per l’anno seguente (è scomparsa di recente Lina Wertmüller, e questo ci ricorda che una proposta furono “i musicarelli”, il che avrebbe consentito di provare a recuperare, Rai permettendo, anche il suo capolavoro Il giornalino di Gian Burrasca). Siccome il cinema di Hong Kong era ancora relativamente poco noto, fu questo l’argomento prescelto.
La retrospettiva, temuta come le precedenti al Visionario fu un successo strepitoso, e fra l’altro vi partecipò un numero mai visto di star hongkonghesi, da Lau Ching-wan a Francis Ng a Johnnie To, destinato a diventare un amico costante del FEFF. Infatti quel successo “fissò” definitivamente l’impegno del CEC sul Far East, e così nacque il FEFF, Far East Film Festival, trasferendosi dal piccolo Ferroviario ai 1200 posti del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.
Variety, che è un po’ la Bibbia americana dello spettacolo, ha famosamente scritto che vi sono 50 festival imperdibili in tutto il mondo e di questo due hanno sede nella regione Friuli-Venezia Giulia: le Giornate del Cinema Muto di Pordenone e il Far East Film Festival di Udine. Diretto da Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche, il FEFF si è stabilito come il più importante ponte fra il cinema asiatico e l’Europa, arrivando nell’ultima edizione a 65.000 presenze, dedicandosi specificamente al cinema popolare ma con fruttuose escursioni nei territori arthouse. Il FEFF ha una doppia dimensione, sincronica e diacronica: esplora lo state of the art del cinema asiatico e scava nella sua storia con fondamentali retrospettive. Il Gelso d’Oro alla Carriera – l’ultimo è stato attribuito a Zhang Yimou, ospite a Udine – ha composto negli anni un Albo d’Oro del cinema asiatico. Si può aggiungere che una grande quantità di eventi collaterali dedicati al mondo orientale invade a ogni edizione la città di Udine trasformandola in un piccolo centro di cultura asiatica.
In sinergia fra Udine e Pordenone, è nata la Tucker Film, casa distributrice attenta al Far East (da Departures a Drive My Car) ma altresì attenta al “nostro” Est: ha distribuito per esempio Sole alto (Zvidzan) di Dalibor Matanić. E ha in un certo senso “chiuso il cerchio” lanciandosi nella produzione con L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini. Sempre muovendosi all’insegna dell’apertura.

Ringrazio Giulia Cane per la preziosa collaborazione, senza la quale non sarebbe stato possibile questo intervento, e Mateja Zorn del Kinoatelje, responsabile del programma del convegno.

(1) Per le informazioni storiche cfr. Livio Jacob – Carlo Gaberscek, Il Friuli e il cinema, La Cineteca del Friuli, Gemona 1966. La Cineteca del Friuli ha anche pubblicato in tre dvd una scelta dell’opera di Guido Galanti, Antonio Seguini de Santi e Giorgio Trentin.


sabato 1 marzo 2025

Il seme del fico sacro

Mohammad Rasoulof 

La famiglia di un giudice al servizio del regime iraniano va in pezzi al tempo delle proteste per l’assassinio di Mahsa Amini, in film girato clandestinamente in Iran. Ne Il seme del fico sacro Mohammad Rasoulof (poi fuggito dall’Iran dopo una serie di persecuzioni e condanne) descrive la china scivolosa per cui, quando si vive in una feroce dittatura, non si può essere mezzo innocenti e mezzo no; nei momenti decisivi si finisce per essere o interamente colpevoli o interamente vittime. Il giudice obbedisce all’ordine di firmare una condanna a morte senza nemmeno l’indagine preliminare che imporrebbe la legge. Intanto, a sua insaputa, le due figlie simpatizzano per i ribelli. Una prima svolta del racconto avviene dopo un’ora, quando il giudice si accorge che gli manca la pistola per così dire d’ordinanza: l’ha perduta o gli è stata sottratta in casa? Seguono disperate ricerche (rischia la prigione, oltre che la fine della carriera) e comincia a sospettare delle figlie.
Meno bello del precedente Il male non esiste, ma comunque deciso e commovente, il film di Rasoulof si gioca sul dialogo, sia a parole sia a sguardi, tra le due figlie e la madre (l’eccellente Sohelia Gholestani), una figura drammatica nel suo tentativo di tenere insieme la fedeltà e l’amore per il marito iper-religioso, l’amore per le figlie, la tranquillità familiare (che comprende anche il sogno di una lavastoviglie) e una decenza umana all’interno della sua visione conservatrice.
Se Il male non esiste, film alto e doloroso, era diviso in episodi indipendenti, il problema de Il seme del fico sacro è che pur essendo una storia unica anch’esso somiglia quasi a un film a episodi, a causa di bruschi zigzag narrativi, che assomigliano più a variazioni sul tema che a uno sviluppo ordinato e incrinano l’unità psicologica . Dopo una narrazione abbastanza organica, appare divagante la parte che si concentra sulla paranoia crescente di essere spiato, dopo che il nome e la foto del giudice sono stati diffusi sul web. Anche in seguito a questo il giudice parte con la famiglia – in viaggio la sua paranoia, con uno sviluppo un po’ goffo, si rivela fondata – e porta moglie e figlie in una città abbandonata per interrogarle e “processarle”. Il film sfocia in un macchinoso segmento thriller, per il quale francamente Rasoulof è poco portato.
Il fatto che la scena più potente e sconvolgente del film – quella dove a una studentessa cui la polizia ha sparato in faccia la madre della famiglia estrae i pallini dal viso – abbia qualcosa di vagamente rosselliniano nella sua pietas asciutta (nonostante un’entrata, sobria ma inutile, della musica) ci ha fatto venire in mente un pensiero stravagante: come sarebbe risultato Paisà se Rossellini lo avesse girato come una storia unica, il viaggio di un personaggio, invece che a episodi? Certamente inferiore.
È bene che si sappia che in seguito si è scatenata la repressione del regime su chi ha lavorato nel film; alcuni hanno dovuto lasciare il paese mentre Sohelia Gholestani ha ricevuto il divieto di viaggiare e sarà processata. Il racconto de Il seme del fico sacro è inframmezzato da inquadrature girate col cellulare, evidentemente autentiche, della rivolta giovanile, con le manifestazioni, la ferocia della polizia, gli hijab bruciati. L’immagine che chiude il film, una ragazza in motorino inquadrata di schiena che alza il braccio nella V di “Vittoria”, lo suggella lanciando in questo quadro orribile un segno di speranza per il futuro.