Sonia Bergamasco
Oggi
lei è classica, anzi, il suo nome è il teatro per antonomasia.
Tanto che anche Uderzo e Goscinny nell'episodio Asterix e il paiolo, dovendo
inventare uno dei loro nomi pseudolatini per un attore romano che
Asterix e Obelix incontrano (ricordate che i nomi di Asterix sono
francesi e hanno l’accento sull’ultima), l’hanno chiamato
Eleonoradus.
Classica,
dico, oggi; ma all’epoca Eleonora Duse, pur essendo è riconosciuta
come grandissima (“la Divina”), è stata una totale
rivoluzionaria. Il suo metodo di recitazione basato sull’istinto
psicologico (semplicità, scelta dei gesti, tempi propri) dinamitò
l’impianto recitativo ottocentesco. Il suo compenetrarsi della
parte, introiettandola, influenzò Stanislavskij – e attraverso
lui, scendendo di un gradino, Lee Strasberg, e attraverso lui una
buona parte di Hollywood.
A
Eleonora Duse, nel centenario della morte (1924), ha dedicato un
bellissimo documentario uscito questo febbraio Sonia Bergamasco. Duse
– The Greatest (anche scritto da Bergamasco, con Mariapaola Pierini)
è sì un documentario, con un grande lavoro di lavoro d’archivio
alle spalle e una grande ricchezza di testimonianze, ma non ha il
carattere verdittivo legato alla forma-documentario (che, del resto,
contro questo autoritarismo lotta da oltre mezzo secolo). Questo
documentario è una ricerca: la ricerca dentro un’assenza.
Infatti
un aspetto di Eleonora Duse che oggi è ancora più interessante di
ieri è il suo negarsi, il suo rivendicare una separazione netta fra
l’arte dell’attore e la sua persona privata: non concede
interviste (ma molto si rivela nelle sue lettere, che appunto solo
dopo la sua morte leggiamo, restituite dal documentario con la voce
over di Bergamasco). Molto è anche andato perduto, anche per scelta
della figlia monaca che, apprendiamo, ha distrutto del materiale
importante. Della sua voce che “fluttuava” (Bergamasco) è andata perduta anche l’unica
registrazione, effettuata da Edison e finita
distrutta nell’incendio del suo laboratorio.
Nella
ricerca di una figura enigmatica che la affascinava fin dal ritratto
fotografico di Edward Steichen che lei vedeva sempre alla Scuola di
Teatro del Piccolo di Milano che frequentava, Sonia Bergamasco scava
tra frammenti, brani di lettere, fotografie da commentare e da
decifrare. Cerca testimonianze del passato (Luchino Visconti, che
vide la Duse da bambino, o Charlie Chaplin) oppure dal presente.
Senza fare liste, menziono Ferruccio Marotti, che aveva conosciuto la
Duse attraverso la testimonianza di Gordon Craig (e che, come una
specie di sindrome di Stendhal, si commuove fino alle lacrime
rievocando un gesto). Ma vediamo fra gli altri anche Ellen Burstyn –
che indossa sul palcoscenico l’anello della Duse, eredità di Eva
Le Gallienne – e Helen Mirren.
Il
documentario riserva giustamente largo spazio a Cenere
(1916), unico film della Duse, unica testimonianza. In verità
Eleonora Duse era profondamente interessata al cinema, con
riflessioni tutt’altro che banali; la sua concezione del cinema la
avvicinava a quella dell’avanguardia e in generale della scuola
cosiddetta “impressionista” francese. Non a caso troviamo Louis
Delluc fra i vari registi che volevano lavorare con lei. Purtroppo
ritrosie e incertezze fecero fallire molti progetti. Per esempio,
voleva portare sullo schermo i racconti di Selma Lagerlöf sui legami
invisibili tra le anime e la natura (anche qui riconosciamo uno
spirito di cinema francese). In Cenere, di e con Febo Mari, la Duse
porta una figura di naturalezza ieratica: sembra un ossimoro ma è
così, ed è poi quello che intende Helen Mirren quando parla di
“gran classicismo più grande naturalismo”. “Voleva essere
messa in ombra”, sentiamo: ecco il rifuggire dal primo piano, la
potenza espressiva, la recitazione intensa e controllata, molto
moderna (che contrasta con quella teatrale di Febo Mari, bravo
regista, meno come attore).
Perché
Sonia Bergamasco, importante attrice di teatro oltre che di cinema e
tv, ha realizzato questo documentario? Non solo per pagare un debito
(la fotografia). Duse è anche, attraverso questa ricerca, una
lezione sulla recitazione – magnifica la parte in cui mette a
confronto due morti di Margherita, quella della Bernhardt e quella
della Duse ne La signora delle camelie – e prima ancora, un modo in
cui Sonia Bergamasco e un gruppo di giovani attrici in un laboratorio
ad Asolo (dove la Duse si ritirava) si interrogano su di lei e
sull’essere attrice e sul corpo. Di più, si rispecchiano in lei: come rende
chiaro una splendida inquadratura in cui, davanti a un’inquadratura
della Duse in Cenere proiettata sulla parete, ripetono i suoi gesti,
le sue movenze, la sua essenza, come quel famoso velarsi il capo; e
la proiezione sulla parete comprende e avvolge i loro corpi; per cui
c’è un proiettarsi nell’abisso del passato, un compenetrarsi –
che poi è quello che la Duse faceva nei suoi personaggi sul palco
del teatro dove, da bambina esordendo a quattro anni come Cosetta nei
Miserabili a poco prima della morte a Pittsburgh, passò la vita.
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