giovedì 6 marzo 2025

Duse - The Greatest

Sonia Bergamasco

Oggi lei è classica, anzi, il suo nome è il teatro per antonomasia. Tanto che anche Uderzo e Goscinny nell'episodio Asterix e il paiolo, dovendo inventare uno dei loro nomi pseudolatini per un attore romano che Asterix e Obelix incontrano (ricordate che i nomi di Asterix sono francesi e hanno l’accento sull’ultima), l’hanno chiamato Eleonoradus.
Classica, dico, oggi; ma all’epoca Eleonora Duse, pur essendo è riconosciuta come grandissima (“la Divina”), è stata una totale rivoluzionaria. Il suo metodo di recitazione basato sull’istinto psicologico (semplicità, scelta dei gesti, tempi propri) dinamitò l’impianto recitativo ottocentesco. Il suo compenetrarsi della parte, introiettandola, influenzò Stanislavskij – e attraverso lui, scendendo di un gradino, Lee Strasberg, e attraverso lui una buona parte di Hollywood.
A Eleonora Duse, nel centenario della morte (1924), ha dedicato un bellissimo documentario uscito questo febbraio Sonia Bergamasco. Duse – The Greatest (anche scritto da Bergamasco, con Mariapaola Pierini) è sì un documentario, con un grande lavoro di lavoro d’archivio alle spalle e una grande ricchezza di testimonianze, ma non ha il carattere verdittivo legato alla forma-documentario (che, del resto, contro questo autoritarismo lotta da oltre mezzo secolo). Questo documentario è una ricerca: la ricerca dentro un’assenza.
Infatti un aspetto di Eleonora Duse che oggi è ancora più interessante di ieri è il suo negarsi, il suo rivendicare una separazione netta fra l’arte dell’attore e la sua persona privata: non concede interviste (ma molto si rivela nelle sue lettere, che appunto solo dopo la sua morte leggiamo, restituite dal documentario con la voce over di Bergamasco). Molto è anche andato perduto, anche per scelta della figlia monaca che, apprendiamo, ha distrutto del materiale importante. Della sua voce che “fluttuava” (Bergamasco) è andata perduta anche l’unica registrazione, effettuata da Edison e finita distrutta nell’incendio del suo laboratorio.
Nella ricerca di una figura enigmatica che la affascinava fin dal ritratto fotografico di Edward Steichen che lei vedeva sempre alla Scuola di Teatro del Piccolo di Milano che frequentava, Sonia Bergamasco scava tra frammenti, brani di lettere, fotografie da commentare e da decifrare. Cerca testimonianze del passato (Luchino Visconti, che vide la Duse da bambino, o Charlie Chaplin) oppure dal presente. Senza fare liste, menziono Ferruccio Marotti, che aveva conosciuto la Duse attraverso la testimonianza di Gordon Craig (e che, come una specie di sindrome di Stendhal, si commuove fino alle lacrime rievocando un gesto). Ma vediamo fra gli altri anche Ellen Burstyn – che indossa sul palcoscenico l’anello della Duse, eredità di Eva Le Gallienne – e Helen Mirren.
Il documentario riserva giustamente largo spazio a Cenere (1916), unico film della Duse, unica testimonianza. In verità Eleonora Duse era profondamente interessata al cinema, con riflessioni tutt’altro che banali; la sua concezione del cinema la avvicinava a quella dell’avanguardia e in generale della scuola cosiddetta “impressionista” francese. Non a caso troviamo Louis Delluc fra i vari registi che volevano lavorare con lei. Purtroppo ritrosie e incertezze fecero fallire molti progetti. Per esempio, voleva portare sullo schermo i racconti di Selma Lagerlöf sui legami invisibili tra le anime e la natura (anche qui riconosciamo uno spirito di cinema francese). In Cenere, di e con Febo Mari, la Duse porta una figura di naturalezza ieratica: sembra un ossimoro ma è così, ed è poi quello che intende Helen Mirren quando parla di “gran classicismo più grande naturalismo”. “Voleva essere messa in ombra”, sentiamo: ecco il rifuggire dal primo piano, la potenza espressiva, la recitazione intensa e controllata, molto moderna (che contrasta con quella teatrale di Febo Mari, bravo regista, meno come attore).
Perché Sonia Bergamasco, importante attrice di teatro oltre che di cinema e tv, ha realizzato questo documentario? Non solo per pagare un debito (la fotografia). Duse è anche, attraverso questa ricerca, una lezione sulla recitazione – magnifica la parte in cui mette a confronto due morti di Margherita, quella della Bernhardt e quella della Duse ne La signora delle camelie – e prima ancora, un modo in cui Sonia Bergamasco e un gruppo di giovani attrici in un laboratorio ad Asolo (dove la Duse si ritirava) si interrogano su di lei e sull’essere attrice e sul corpo. Di più, si rispecchiano in lei: come rende chiaro una splendida inquadratura in cui, davanti a un’inquadratura della Duse in Cenere proiettata sulla parete, ripetono i suoi gesti, le sue movenze, la sua essenza, come quel famoso velarsi il capo; e la proiezione sulla parete comprende e avvolge i loro corpi; per cui c’è un proiettarsi nell’abisso del passato, un compenetrarsi – che poi è quello che la Duse faceva nei suoi personaggi sul palco del teatro dove, da bambina esordendo a quattro anni come Cosetta nei Miserabili a poco prima della morte a Pittsburgh, passò la vita.

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