Pupi Avati
Siamo
nell’Emilia del 1946, con i carri armati degli alleati in filmati
di repertorio che si mescolano con una narrazione cui prestano
un’aria di neorealismo, nella fotografia in b/n di Cesare
Bastelli). Un’ausiliaria americana entra in una bottega di barbiere
per chiedere la direzione. Un giovane (il sorrentiniano Filippo
Scotti) che è lì s’innamora ictu oculi di questa
ragazza vista per pochi secondi. Il bellissimo inizio de L’orto
americano di Pupi Avati pare ingannevole: pare volerci portare in uno
dei suoi racconti teneramente sentimentali, storie di ragazzi e di
ragazze, potremmo dire citando un suo titolo. Invece lo splendido
quarantaquattresimo film di Avati è un horror, e anzi contiene
alcuni momenti di assoluto orrore avatiano che ci riportano a La casa
dalle finestre che ridono e Zeder.
Subito
dopo la fine della guerra l’anonimo protagonista, aspirante
scrittore, si trasferisce in America, in una cittadina del Midwest
(ombra di Alfred Hitchcock!). Quando è in camera e sente il mormorio
delle voci dei suoi morti, il film ha preso un’altra piega, in
direzione del paranormale. Apprenderemo di lì a poco che il
protagonista in passato è stato in manicomio perché parlava coi
morti; invero già in apertura la sua voce narrante ci aveva detto
che i suoi defunti lo avevano mandato nella bottega di barbiere quel
giorno; ma noi lo avevamo preso per un modo di dire. Il destino (il
destino?) vuole che la sua vicina sia la vecchia madre della ragazza
(una potente, memorabile Rita Tushingham) e da lei il protagonista
apprende che l’ausiliaria, Barbara, è scomparsa in Italia. Ben
presto sente un tenue “Help me” disincarnato che lo ossessiona –
anche l’uso del theremin nella colonna sonora richiama i tempi più
classici del cinema del terrore – e scavando là da dove proviene
la voce, trova nell’orto abbandonato dei vicini un misterioso
reperto, un vaso di vetro che non si lascia aprire, con incollato un
messaggio criptico intriso di cultura classica.
In
breve, tornato in Italia, il giovane si lancia nella ricerca di
Barbara, ricerca che lo trascina al processo di un serial killer
squartatore di donne. È una dimensione di neri sogni rivelatori:
siamo nel primo dopoguerra ma il dettaglio dei macabri reperti negli
incubi (pubi femminili in vasi di vetro) è un evidente riferimento
al successivo incubo del “Mostro di Firenze”.
Quando
il film prende la via del paranormale, e poi dell’orrore puro,
resta però chiaro che il suo inizio non era ingannevole come
sembrava. Perché attraverso la figura del protagonista – un altro
dei suoi giovani incerti, innamorati e umbratili – Pupi Avati
perviene a fondere i due grandi filoni in cui si divide il suo
cinema: quello nostalgico e sentimentale di amori più o meno
impacciati e quello notturno e delirante di horror spietati –
paurosi anche perché radicati nella pesante materialità paesana
dell’area veneto-emiliana, coi suoi accenti e i suoi volti. Avati è
un genio del casting; viene in mente solo Fellini che aveva un
eguale senso “grafico” per i visi. In un film costruito sullo
smarrimento, e pieno di falsi raccordi (il bel montaggio è di Ivan
Zuccon), la narrazione si nutre di dettagli fulminanti (la padrona
implicitamente sensuale della pensione, il magistrato al processo che
si commuove), spesso affidati a regulars avatiani, nel quadro di un
realismo così materiale da parere tangibile.
Dopo
un percorso di orrori, che comprende un nuovo soggiorno in manicomio,
quella tenerezza agrodolce e sognante dell’inizio si riflette in un
finale che, più che aperto, è poetico. Non per nulla il film si
conclude in un territorio liminare: quel Delta del Po dove l’acqua
si confonde con la terra, il mare con la laguna – e il reale con
l’immaginario. Perché la verità assume la veste del delirio, come
nei racconti di Poe.
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