sabato 8 marzo 2025

L'orto americano

Pupi Avati

Siamo nell’Emilia del 1946, con i carri armati degli alleati in filmati di repertorio che si mescolano con una narrazione cui prestano un’aria di neorealismo, nella fotografia in b/n di Cesare Bastelli). Un’ausiliaria americana entra in una bottega di barbiere per chiedere la direzione. Un giovane (il sorrentiniano Filippo Scotti) che è lì s’innamora ictu oculi di questa ragazza vista per pochi secondi. Il bellissimo inizio de L’orto americano di Pupi Avati pare ingannevole: pare volerci portare in uno dei suoi racconti teneramente sentimentali, storie di ragazzi e di ragazze, potremmo dire citando un suo titolo. Invece lo splendido quarantaquattresimo film di Avati è un horror, e anzi contiene alcuni momenti di assoluto orrore avatiano che ci riportano a La casa dalle finestre che ridono e Zeder.
Subito dopo la fine della guerra l’anonimo protagonista, aspirante scrittore, si trasferisce in America, in una cittadina del Midwest (ombra di Alfred Hitchcock!). Quando è in camera e sente il mormorio delle voci dei suoi morti, il film ha preso un’altra piega, in direzione del paranormale. Apprenderemo di lì a poco che il protagonista in passato è stato in manicomio perché parlava coi morti; invero già in apertura la sua voce narrante ci aveva detto che i suoi defunti lo avevano mandato nella bottega di barbiere quel giorno; ma noi lo avevamo preso per un modo di dire. Il destino (il destino?) vuole che la sua vicina sia la vecchia madre della ragazza (una potente, memorabile Rita Tushingham) e da lei il protagonista apprende che l’ausiliaria, Barbara, è scomparsa in Italia. Ben presto sente un tenue “Help me” disincarnato che lo ossessiona – anche l’uso del theremin nella colonna sonora richiama i tempi più classici del cinema del terrore – e scavando là da dove proviene la voce, trova nell’orto abbandonato dei vicini un misterioso reperto, un vaso di vetro che non si lascia aprire, con incollato un messaggio criptico intriso di cultura classica.
In breve, tornato in Italia, il giovane si lancia nella ricerca di Barbara, ricerca che lo trascina al processo di un serial killer squartatore di donne. È una dimensione di neri sogni rivelatori: siamo nel primo dopoguerra ma il dettaglio dei macabri reperti negli incubi (pubi femminili in vasi di vetro) è un evidente riferimento al successivo incubo del “Mostro di Firenze”.
Quando il film prende la via del paranormale, e poi dell’orrore puro, resta però chiaro che il suo inizio non era ingannevole come sembrava. Perché attraverso la figura del protagonista – un altro dei suoi giovani incerti, innamorati e umbratili – Pupi Avati perviene a fondere i due grandi filoni in cui si divide il suo cinema: quello nostalgico e sentimentale di amori più o meno impacciati e quello notturno e delirante di horror spietati – paurosi anche perché radicati nella pesante materialità paesana dell’area veneto-emiliana, coi suoi accenti e i suoi volti. Avati è un genio del casting; viene in mente solo Fellini che aveva un eguale senso “grafico” per i visi. In un film costruito sullo smarrimento, e pieno di falsi raccordi (il bel montaggio è di Ivan Zuccon), la narrazione si nutre di dettagli fulminanti (la padrona implicitamente sensuale della pensione, il magistrato al processo che si commuove), spesso affidati a regulars avatiani, nel quadro di un realismo così materiale da parere tangibile.
Dopo un percorso di orrori, che comprende un nuovo soggiorno in manicomio, quella tenerezza agrodolce e sognante dell’inizio si riflette in un finale che, più che aperto, è poetico. Non per nulla il film si conclude in un territorio liminare: quel Delta del Po dove l’acqua si confonde con la terra, il mare con la laguna – e il reale con l’immaginario. Perché la verità assume la veste del delirio, come nei racconti di Poe.

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