sabato 1 marzo 2025

Il seme del fico sacro

Mohammad Rasoulof 

La famiglia di un giudice al servizio del regime iraniano va in pezzi al tempo delle proteste per l’assassinio di Mahsa Amini, in film girato clandestinamente in Iran. Ne Il seme del fico sacro Mohammad Rasoulof (poi fuggito dall’Iran dopo una serie di persecuzioni e condanne) descrive la china scivolosa per cui, quando si vive in una feroce dittatura, non si può essere mezzo innocenti e mezzo no; nei momenti decisivi si finisce per essere o interamente colpevoli o interamente vittime. Il giudice obbedisce all’ordine di firmare una condanna a morte senza nemmeno l’indagine preliminare che imporrebbe la legge. Intanto, a sua insaputa, le due figlie simpatizzano per i ribelli. Una prima svolta del racconto avviene dopo un’ora, quando il giudice si accorge che gli manca la pistola per così dire d’ordinanza: l’ha perduta o gli è stata sottratta in casa? Seguono disperate ricerche (rischia la prigione, oltre che la fine della carriera) e comincia a sospettare delle figlie.
Meno bello del precedente Il male non esiste, ma comunque deciso e commovente, il film di Rasoulof si gioca sul dialogo, sia a parole sia a sguardi, tra le due figlie e la madre (l’eccellente Sohelia Gholestani), una figura drammatica nel suo tentativo di tenere insieme la fedeltà e l’amore per il marito iper-religioso, l’amore per le figlie, la tranquillità familiare (che comprende anche il sogno di una lavastoviglie) e una decenza umana all’interno della sua visione conservatrice.
Se Il male non esiste, film alto e doloroso, era diviso in episodi indipendenti, il problema de Il seme del fico sacro è che pur essendo una storia unica anch’esso somiglia quasi a un film a episodi, a causa di bruschi zigzag narrativi, che assomigliano più a variazioni sul tema che a uno sviluppo ordinato e incrinano l’unità psicologica . Dopo una narrazione abbastanza organica, appare divagante la parte che si concentra sulla paranoia crescente di essere spiato, dopo che il nome e la foto del giudice sono stati diffusi sul web. Anche in seguito a questo il giudice parte con la famiglia – in viaggio la sua paranoia, con uno sviluppo un po’ goffo, si rivela fondata – e porta moglie e figlie in una città abbandonata per interrogarle e “processarle”. Il film sfocia in un macchinoso segmento thriller, per il quale francamente Rasoulof è poco portato.
Il fatto che la scena più potente e sconvolgente del film – quella dove a una studentessa cui la polizia ha sparato in faccia la madre della famiglia estrae i pallini dal viso – abbia qualcosa di vagamente rosselliniano nella sua pietas asciutta (nonostante un’entrata, sobria ma inutile, della musica) ci ha fatto venire in mente un pensiero stravagante: come sarebbe risultato Paisà se Rossellini lo avesse girato come una storia unica, il viaggio di un personaggio, invece che a episodi? Certamente inferiore.
È bene che si sappia che in seguito si è scatenata la repressione del regime su chi ha lavorato nel film; alcuni hanno dovuto lasciare il paese mentre Sohelia Gholestani ha ricevuto il divieto di viaggiare e sarà processata. Il racconto de Il seme del fico sacro è inframmezzato da inquadrature girate col cellulare, evidentemente autentiche, della rivolta giovanile, con le manifestazioni, la ferocia della polizia, gli hijab bruciati. L’immagine che chiude il film, una ragazza in motorino inquadrata di schiena che alza il braccio nella V di “Vittoria”, lo suggella lanciando in questo quadro orribile un segno di speranza per il futuro.


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