Siccome
ho potuto passare solo alcuni giorni al 29° Tokyo International Film
Festival, queste note non possono essere un panorama esaustivo del
festival; ma spero possano interessare comunque i lettori
appassionati di cinema orientale (privilegiato nella scelta delle
visioni). Domanda inevitabile: si vedranno alcuni di questi film al
prossimo Far East Film Festival di Udine? Spero vivamente di sì.
Partiamo
con il concorso ufficiale. Il migliore tra i film che ho avuto modo
di vedere è Die Beautiful del filippino Jun
Robles Lana, il regista di Barber's Tales. Magnificamente
interpretato (lo stupefacente Paolo Ballesteros ha vinto il premio
come miglior attore), è la storia della vita – amori, amarezze,
anche l'adozione e la crescita di una bambina orfana – di due
transessuali, Trisha e Barbs, amici fin dagli anni del liceo.
Contemporaneamente è uno sguardo sul mondo trans filippino, sulla
difficile condizione degli omosessuali, e su quella bizzarra
istituzione che sono i concorsi locali per drag queens, svolti
anche nei piccoli paesi. Contemporaneamente è una panoramica e
un'ironica epopea del make-up (l'arte delle due). Un film pieno di
umanità, dramma e commedia allo stesso tempo, che narra la storia di
questa doppia vita (rievocata a partire dalla veglia funebre di
Trisha, morta giovane per un aneurisma) con un contagioso umorismo.
Se già tutto questo lo renderebbe un film notevole, ciò che lo
rende eccezionale è il modo in cui la storia viene narrata, con
continui salti di tempo, in un vortice di rimandi e di anticipazioni
che trovano la loro spiegazione in seguito; quest'uso dell'analessi,
rinforzato da un montaggio prodigioso, è uno dei più belli che
abbia mai visto.
Nel
notevole Mr. No Problem di Mei Feng (Cina), ambientato
in campagna ai tempi della guerra cino-giapponese, l'argomento è la
gestione di una grande fattoria, tra il direttore in carica, quello
che lo sostituisce (o cerca di farlo) e uno pseudo-intellettuale
opportunista che col vecchio direttore ha trovato il paese di
Bengodi. Ma questa storia di maneggi e colpi bassi rappresenta anche
una vasta metafora, non priva di sarcasmo, della democrazia e del
socialismo. La bella fotografia in b/n è basilare nell'impostare il
dialogo, ricercato dal film, tra aspetti cinematografici e teatrali:
apportando un elemento di astrazione che si esalta quando – nei
dialoghi di due personaggi secondari, marito e moglie – viene
richiamato direttamente il palcoscenico.
Snow
Woman
di Sugino
Kiki (Giappone)
è
tratto
da uno dei racconti di fantasmi giapponesi di Lafcadio Hearn (un
occidentale
che andò a vivere in Giappone “nipponizzandosi” totalmente).
Ora,
già nel 1964 Kobayashi
Masaki
aveva
tratto
dai racconti
di Hearn, compreso questo, il
memorabile
Kwaidan.
A
Kobayashi
Snow
Woman
è debitore non solo sul piano narrativo ma anche su quello visuale.
Con
la
differenza che Kobayashi – coi suoi esterni realizzati in studio e
i folli fondali che creano un cielo irreale –
realizza
un incrocio fra realismo e astrazione, mentre Snow
Woman
è girato en
plein air;
ma
la parentela visuale è innegabile. Assai
ben interpretato dalla stessa regista nel ruolo principale, il film
racconta la storia, presente nel folklore di tutto il mondo (anche in
Friuli!), dell'uomo che sposa una pericolosa creatura soprannaturale,
la quale lo abbandona per sempre quando lui l'accusa di essere tale.
Pieno di fascino, Snow
Woman
è un'opera
di raggelata
eleganza: ha la bellezza gelida e fragile di un cristallo di neve.
Invece
un pasticcio
arty
senza
interesse,
nonostante
le buone intenzioni e
qualche buona idea,
è
Japanese
Girls Never Die
di Matsui
Daigo (Giappone): se già il suo Afro
Tanaka
non era convincente al cento per cento, questo
film è un passo indietro. Ci possiamo
consolare
col gustosissimo Shed
Skin Papa
di Roy
Szeto (Hong Kong), ambiziosa
commedia
surreale con Louis Koo e Francis Ng. Dopo
la morte del padre malato di Alzheimer, il protagonista (un aspirante
regista fallito) se lo ritrova riapparso in casa, e
moltiplicato per sette – ovvero, in sette versioni
corrispondenti a sette età della sua vita (nota
che
questo è anche un modo per guardare alla storia di Hong
Kong).
Pieno di fantasia e comicità, il film non manca di lanciare
un
paio di puntute frecciate alla Cina continentale come ci si può
aspettare da Roy Szeto.
Passando
ora alle
altre sezioni, comincerò da
un beniamino del Far East Film
Festival, il
giapponese Yamazaki Takashi (Always,
The Eternal Zero, Parasyte), con
A Man Called “Pirate” (titolo
di lavorazione, sperabilmente provvisorio).
Il forte di Yamazaki è una
grande capacità di rievocazione del passato, basicamente
lirica ma anche
capace di vigore epico. La
mette a frutto anche in questo biopic su
un grosso commerciante di petrolio giapponese che tira avanti in
lotta contro tutto e tutti dal
periodo anteguerra fino agli
anni sessanta. Il film,
francamente patriottico, mantiene un'indefettibile
impostazione eroica rispetto
al personaggio, il che
non impedisce al racconto di svolgersi in modo, oltre che
coinvolgente, toccante. La prima parte è una bella descrizione della
Tokyo anteguerra; la parte
centrale si dilunga sulle
lotte intestine nel mondo
degli affari del dopoguerra;
l'ultima è ricca di suspense, con la pericolosa spedizione di una
petroliera a comprare petrolio nell'Iran sotto blocco inglese. Anche
se non siamo al livello delle opere sopra citate, il film ha il
piacevole calore tipico del regista, né mancano pagine all'altezza
del miglior Yamazaki: cito solo
quella,
bellissima,
del ritorno dei soldati dopo la sconfitta.
Un
altro autore
giapponese ben noto
al pubblico del Far East Film
è Hiroki Ryuichi. Con P&JK
il regista degli
splendidi
River e The
Egoists va sul
commerciale, dedicandosi a illustrare un manga su un poliziotto
trentenne che sposa una liceale sedicenne – con un coetaneo della
ragazza, il classico teppista dal cuore buono, a fare da terzo
incomodo. Il film è francamente debole; devo dire però che col
passare dei giorni non lascia un cattivo ricordo. Bello, in
particolare, un fantasioso finale con l'uscita di marito e moglie
rappacificati dalla scuola, con un codazzo di studenti – che
inopinatamente si trasforma in balletto da musical!
Non
è del
tutto convincente ma certo interessante il
filippino Birdshot
di Mikhail Red. Una ragazza,
figlia di un poveraccio,
uccide un'aquila appartenente
a una specie protetta in un
parco naturale. Due
poliziotti investigano su questo fatto e sulla sparizione di
un'intera corriera di contadini; su
quest'ultimo caso, però, si
vede subito che le autorità non vogliono sia
fatta luce, il che manda in crisi il poliziotto giovane della coppia.
Il film dipinge un quadro
delle Filippine profonde, viste come l'anticamera dell'inferno, ora
con tocchi vigorosi ora
con cadute di tono. La
contraddizione principale di
Birdshot è che
all'inizio crea un'atmosfera misteriosa e quasi fantastica,
unheimlich, mentre
la seconda parte diventa un dramma politico
alla Mississippi
Burning, il
cui realismo brutale
non sembra
integrarsi bene
con la prima parte.
Meno
rilievo ha A Woman Wavering in the Rain di Hanno
Yoshihiro (Giappone), un thriller che mira al film d'arte, in cui un
derelitto che lavora come operaio e vive in una baracca accoglie
presso di sé un'altra derelitta, portandola via a un cialtrone che
vuole farla prostituire. Però tutti e due nascondono dei segreti che
in realtà li legano – purtroppo, vien voglia di dire, perché il
film diventa via via più forzato man mano che procede.
Let's
Go JETS! - From Small Town Girls to U.S. Championship
di
Kawai
Hayato (Giappone):
il
sottotitolo
dice tutto. E'
l'ennesima
riproposizione del team
movie
in cui un gruppo super-motivato parte da zero e arriva all'obiettivo
massimo; abbiamo già visto il
modello in tutti i tipi di sport e attività, comprese le
chitarre hawaiane; stavolta tocca alle
cheerleaders
di un liceo di provincia che,
dapprima
sfigatissime, riescono a vincere il campionato statunitense di
cheerleading
con
tre anni di dura preparazione (fra
loro
c'è Hirose Suzu, la memorabile sorella minore di Little
Sister
di Kore-eda).
Non un
film spiacevole (c'è
qualche tocco divertente, e i soliti accenni sentimentali sono
trattati in modo umano) ma certamente delude
il suo conformarsi senza originalità al canone.
Nel
giapponese Going
the
Distance
di
Harumoto
Yujiro, un
onest'uomo
si sente in debito con un amico (gli ha presentato un truffatore, il
quale lo ha ripulito di tutto il suo denaro): per cercare di
risarcirlo entra in urto con la fidanzata, manda a monte il
matrimonio e finisce in assoluta rovina. Il film è
piuttosto freddo; probabilmente
il regista avrebbe fatto meglio ad adottare
un tono tendente alla commedia aspra (penso a film
come
Himeanole
o Three
Stories of Love)
piuttosto che una
correttezza un po' secca che finisce per stancare.
Menziono
solo
di passaggio altri
tre film giapponesi: Drowning
Love
di Yamato Yuki, tratto da uno shojo
manga,
dramma di amore giovanile con
qualche bella immagine, pieno
di un romanticismo kitsch e
inzeppato di flashback per allungare il brodo; The
Sowing Traveller 3
di
Sasabe
Kiyoshi, filmetto
d'ambiente agricolo
che
non si capisce quali
titoli avesse per entrare in un festival; e
quell'esempio
di assoluta
incompetenza registica che
è Grab
the Sun
di Nakamura
Yutaro. Ma
per
chiudere
in bellezza: nella sezione World Focus il festival presentava
Operation
Mekong
di Dante Lam (Hong Kong-Cina), un grande
film d'azione hongkonghese, con un ritmo perfetto servito da un
montaggio accuratissimo (c'è una scena dentro un centro commerciale
che è una vera pièce
de resistance).
A parte la sua
piacevolezza
adrenalinica, con
scontri e car
chasing
(o anche boat
chasing)
da far piangere d'invidia gli americani, ci sono alcuni
particolari
indimenticabili
come il gioco alla roulette russa dei bambini-soldato imbottiti di
droga (Il
cacciatore
in una versione ancora più malata e perversa!).
O
un paio
di passaggi
– sto pensando a un momento in cui il gangster e il poliziotto
finto
gangster apprendono contemporaneamente al cellulare che la copertura
è saltata, e si guardano un attimo negli occhi, gran
campo/controcampo,
prima di cominciare a sparare – in cui addirittura Dante Lam sembra
Ringo Lam. E
questo non è un complimento da poco.
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