Gente
che
va, gente che viene.
Per qualsiasi serial drama
– o
qualsiasi film di vite interlineate – un luogo
pubblico
è il set d'obbligo:
che sia un Grand Hotel (il luogo
archetipico,
dopo il film
del 1932… donde la citazione,
si capisce),
un pronto soccorso
(E.R.),
un bar newyorkese
(la bella
sitcom americana Cin Cin,
di cui ricordo anche una piacevole
imitazione italiana), una
pretura nell'Italietta
degli anni Cinquanta (Un
giorno in pretura) - o
un ristorantino di
Tokyo. La serie giapponese Midnight Diner: Tokyo
Stories, visibile su Netflix,
dissoda un campo già molto arato: ma la sua bellezza di
sceneggiatura e maestria di realizzazione la rende peculiare. Con le
sue storie familiari-sentimentali vivificate da un'originalità
(molto
conscia)
del racconto, potremmo
definirlo con un po' di
esagerazione un Tora-san
rifatto
con un occhio a Kitano.
Tratto
da un manga, parla di un
piccolo ristorante
nel quartiere di Shinjuku, la cui specialità è di aprire
a mezzanotte e chiudere al
mattino. Il menu sarebbe
fisso, ma il proprietario è disponibile a preparare qualunque piatto
gli venga richiesto, a condizione di avere pronti gli ingredienti.
Questo proprietario (Kobayashi
Kaoru) è l'asse portante dei
telefilm, con la sua cortesia virile e la partecipazione discreta.
Una lunga cicatrice
sul viso fa pensare a una vita movimentata in precedenza, ma adesso
il suo comportamento è di pura saggezza. Ascolta
senza intervenire, interviene senza irruenza.
Sono
racconti sui sentimenti,
piccoli episodi di vita che si allargano (“sbocciano”) mentre
guardiamo. Il ristorante è il punto di partenza – perché i
telefilm si muovono con una certa larghezza nello spazio e nel tempo,
con brevi flashback – e di
arrivo delle storie. Di più, siccome la frequentazione dello stesso
posto crea una sorta di famiglia allargata di clienti fissi, il
gruppo del ristorante serve
da fonte di continuità, da
tribunale morale e da coro greco. Deliziosa in questo senso la
presenza di tre donne
fra i trenta e i quaranta (un'età, per inciso, alla quale in
Giappone si è già sposate)
che commentano non senza
qualche acidità le vicende che si svolgono sotto i loro occhi; ma
tutti i volti che vediamo hanno la loro parte. E com'è ovvio, chi in
altri episodi aveva un ruolo di contorno può farsi avanti sul
proscenio come protagonista di una storia. Sono storie di amore e di
sacrificio (come quella di
una donna che si dedica prima
al nipote buono a nulla, poi al figlio di questo), venate di una
leggera
malinconia, molto giapponese
invero; in campo
cinematografico, per capirci,
si potrebbero richiamare i
nomi di Yamazaki Takashi o di
Okita Shuichi. C'è
una bellissima libertà di
approccio in queste storie, dalla fotografia (che
non rifugge da eleganti framing)
alla messa in scena (quando
in un episodio compare addirittura uno spettro,
i sottotoni soprannaturali
non guastano il realismo quotidiano dell'insieme) allo
stile narrativo
pieno
di piccoli piacevoli
accorgimenti.
Il
ristorante però (a differenza di vari
luoghi che ho citato
sopra) non è un semplice set: non potrebbe essere un bar o
quant'altro. Perché il cibo
ha un ruolo centrale nei telefilm, che contengono in chiusura una
descrizione specifica di un piatto, se non una ricetta. Qual è il
rapporto fra queste storie e i piatti (invariabilmente
da acquolina in bocca) che
vediamo? Non
è simbolico,
eppure essi si inseriscono
nell'episodio con una
perfezione che è il sigillo
della
necessità artistica. Il
cinema giapponese, da Tampopo
di Itami Juzo a Sukiyaki
di Maeda Tetsu, trova veramente accenti felici nel parlare del cibo!
Azzardando
un'ipotesi, possiamo rifarci alla specificità del cibo giapponese,
il suo carattere qualitativo assai più che quantitativo (ciò
che in Italia si paga in
soldi e snobismo), dove l'aspetto visuale è così importante. In
Giappone (“L'impero dei segni”, direbbe Barthes) esiste un
impercettibile diaframma di restraint,
una “zona vuota” di un
attimo, che si frappone fra l'oggetto e il soggetto… perfino fra il
cibo e il suo consumatore (ignaro!, perché è un tratto culturale)
in un ristorante cheap.
Come un lampo
di concezione
dell'impermanenza, se
vogliamo andare su materie
più gravi. Se questo è
vero, questo diaframma è lo stesso che si applica anche a queste
storie, centrate sull'immediatezza.
Così questi personaggi vivono le loro storie con un atteggiamento
magari fortemente emozionale, ma lontano dalla frenesia “vettoriale”
e ingorda dell'Occidente.
Sentono nel
profondo che lo svolgersi della vita è
un continuo cambiamento, non esiste nulla di definitivo – e proprio
per questo si coglie l'attimo e la vita risulta
più piena, come il semplice cibo risulta più saporito. Pertanto:
gente che va, gente che
viene… ma, anche se molte di queste storie non si
concludono col successo,
in Midnight Diner non
si potrebbe mai aggiungere, come il personaggio di Grand
Hotel, “...e tutto senza un
perché”.
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