venerdì 18 novembre 2016

Midnight Diner

Gente che va, gente che viene. Per qualsiasi serial dramao qualsiasi film di vite interlineate – un luogo pubblico è il set d'obbligo: che sia un Grand Hotel (il luogo archetipico, dopo il film del 1932… donde la citazione, si capisce), un pronto soccorso (E.R.), un bar newyorkese (la bella sitcom americana Cin Cin, di cui ricordo anche una piacevole imitazione italiana), una pretura nell'Italietta degli anni Cinquanta (Un giorno in pretura) - o un ristorantino di Tokyo. La serie giapponese Midnight Diner: Tokyo Stories, visibile su Netflix, dissoda un campo già molto arato: ma la sua bellezza di sceneggiatura e maestria di realizzazione la rende peculiare. Con le sue storie familiari-sentimentali vivificate da un'originalità (molto conscia) del racconto, potremmo definirlo con un po' di esagerazione un Tora-san rifatto con un occhio a Kitano.
Tratto da un manga, parla di un piccolo ristorante nel quartiere di Shinjuku, la cui specialità è di aprire a mezzanotte e chiudere al mattino. Il menu sarebbe fisso, ma il proprietario è disponibile a preparare qualunque piatto gli venga richiesto, a condizione di avere pronti gli ingredienti. Questo proprietario (Kobayashi Kaoru) è l'asse portante dei telefilm, con la sua cortesia virile e la partecipazione discreta. Una lunga cicatrice sul viso fa pensare a una vita movimentata in precedenza, ma adesso il suo comportamento è di pura saggezza. Ascolta senza intervenire, interviene senza irruenza.
Sono racconti sui sentimenti, piccoli episodi di vita che si allargano (“sbocciano”) mentre guardiamo. Il ristorante è il punto di partenza – perché i telefilm si muovono con una certa larghezza nello spazio e nel tempo, con brevi flashback – e di arrivo delle storie. Di più, siccome la frequentazione dello stesso posto crea una sorta di famiglia allargata di clienti fissi, il gruppo del ristorante serve da fonte di continuità, da tribunale morale e da coro greco. Deliziosa in questo senso la presenza di tre donne fra i trenta e i quaranta (un'età, per inciso, alla quale in Giappone si è già sposate) che commentano non senza qualche acidità le vicende che si svolgono sotto i loro occhi; ma tutti i volti che vediamo hanno la loro parte. E com'è ovvio, chi in altri episodi aveva un ruolo di contorno può farsi avanti sul proscenio come protagonista di una storia. Sono storie di amore e di sacrificio (come quella di una donna che si dedica prima al nipote buono a nulla, poi al figlio di questo), venate di una leggera malinconia, molto giapponese invero; in campo cinematografico, per capirci, si potrebbero richiamare i nomi di Yamazaki Takashi o di Okita Shuichi. C'è una bellissima libertà di approccio in queste storie, dalla fotografia (che non rifugge da eleganti framing) alla messa in scena (quando in un episodio compare addirittura uno spettro, i sottotoni soprannaturali non guastano il realismo quotidiano dell'insieme) allo stile narrativo pieno di piccoli piacevoli accorgimenti.
Il ristorante però (a differenza di vari luoghi che ho citato sopra) non è un semplice set: non potrebbe essere un bar o quant'altro. Perché il cibo ha un ruolo centrale nei telefilm, che contengono in chiusura una descrizione specifica di un piatto, se non una ricetta. Qual è il rapporto fra queste storie e i piatti (invariabilmente da acquolina in bocca) che vediamo? Non è simbolico, eppure essi si inseriscono nell'episodio con una perfezione che è il sigillo della necessità artistica. Il cinema giapponese, da Tampopo di Itami Juzo a Sukiyaki di Maeda Tetsu, trova veramente accenti felici nel parlare del cibo!
Azzardando un'ipotesi, possiamo rifarci alla specificità del cibo giapponese, il suo carattere qualitativo assai più che quantitativo (ciò che in Italia si paga in soldi e snobismo), dove l'aspetto visuale è così importante. In Giappone (“L'impero dei segni”, direbbe Barthes) esiste un impercettibile diaframma di restraint, una “zona vuota” di un attimo, che si frappone fra l'oggetto e il soggetto… perfino fra il cibo e il suo consumatore (ignaro!, perché è un tratto culturale) in un ristorante cheap. Come un lampo di concezione dell'impermanenza, se vogliamo andare su materie più gravi. Se questo è vero, questo diaframma è lo stesso che si applica anche a queste storie, centrate sull'immediatezza. Così questi personaggi vivono le loro storie con un atteggiamento magari fortemente emozionale, ma lontano dalla frenesia “vettoriale” e ingorda dell'Occidente. Sentono nel profondo che lo svolgersi della vita è un continuo cambiamento, non esiste nulla di definitivo – e proprio per questo si coglie l'attimo e la vita risulta più piena, come il semplice cibo risulta più saporito. Pertanto: gente che va, gente che viene… ma, anche se molte di queste storie non si concludono col successo, in Midnight Diner non si potrebbe mai aggiungere, come il personaggio di Grand Hotel, “...e tutto senza un perché”.



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