venerdì 19 febbraio 2021

Lei mi parla ancora

Pupi Avati

Se l'argomento del film di Pupi Avati Lei mi parla ancora fosse un dipinto barocco, si chiamerebbe Il Trionfo della Memoria sul Tempo. Ma la persistenza della memoria, il suo radicarsi e intrecciarsi nel nostro presente, è sempre stato uno dei temi costitutivi del cinema di Pupi Avati. Come in quella Gita scolastica di tanti anni fa, il ricordo diffonde un profumo che arriva all'oggi: sicché il passato non è realmente passato. Il libro di Giuseppe Sgarbi (Nino) sul suo matrimonio durato 65 anni con Rina Cavallini (sono i genitori di Elisabetta e Vittorio) offre ad Avati l'opportunità di un grande film “finale”: non perché sia (speriamo) l'ultimo, ma nel senso che aspira a una parola definitiva su quella poetica del ricordo che il maestro ha perseguito in tutta la sua carriera. Lei mi parla ancora non è un film sul tempo che passa, bensì sulla distruzione del tempo attraverso la memoria. Per questo il concetto di immortalità è l'asse portante, concretizzato nella misteriosa lettera che Rina scrive a Nino il giorno delle nozze e che non conosceremo mai per intero (e viene seppellita con lui). “Saremo immortali”.
E' il racconto che il coniuge sopravvissuto Nino (Renato Pozzetto) scrive in collaborazione col giornalista Amicangelo (Fabrizio Gifuni), e che si distende nei suoi tempi (grande metteur en scène, Avati ha sempre una capacità evocativa pressoché magica: utilizza il repertorio antiquario di usi ed oggetti per costruire un “ritratto parlante” del passato). Non sono solo flashbacks: nella lunga durata del racconto vediamo i protagonisti in diverse età (Isabella Ragonese e Stefania Sandrelli, Lino Musella e Renato Pozzetto), e queste età istituiscono una compresenza. A un certo punto del film, i giovani protagonisti guardano Il settimo sigillo in una proiezione all'aperto (nostalgica rievocazione, questa proiezione con dibattito finale condotto dal sacerdote!); ora, ritroviamo molto del concetto di Bergman sul tempo passato e presente (si pensi a Fanny e Alexander) nel film. Per Avati il presente è un continuum con il passato. Questa concezione fa sì che con fresca libertà Avati possa mescolare le età e che i morti materialmente si incrocino coi vivi, e ci parlino; il volto di Rina da giovane si accosta fisicamente a quello di Nino da vecchio. Il cognato Bruno (Alessandro Haber), maestro di poesia, appare come mediatore fra le due dimensioni: “Bruno... tornava dall'Orto dei Morti solo in circostanze molto speciali”. Per inciso, appare coerente con questa sorta di multidimensionalità lo status della voce narrante, che entra in modo romanzesco (sempre il cinema di Avati si riporta idealmente all'articolazione narrativa del romanzo classico) con la perentorietà asseverativa della terza persona.
Il rapporto tra Amicangelo e Nino, apertosi nell'ostilità educatamente burbera di quest'ultimo, finisce per diventare una comprensione tale che Amicangelo è in grado di scrivere da solo una pagina coerente con il pensiero dell'altro. E tuttavia potremmo chiederci: è ancora possibile una simile immortalità amorosa? Esiste il dubbio – nei personaggi più giovani del film, non solo Amicangelo, che infatti a un certo punto entra in crisi, ma forse anche la figlia Elisabetta (Chiara Caselli) – che essa sia una magnifica cosa del passato, e possa esistere solo a livello di insegnamento morale (Amicangelo cercherà un nuovo rapporto con la figlia bambina) – o di rimpianto. Una concretizzazione plastica di questa differenza di epoche la vediamo nelle due camere da letto che compaiono nel film. Quella di Amicangelo e della sua nuova compagna è elegante, sobria, minimale: moderna. Quella di Nino e Rina è vecchia, ingombra, pesante: vissuta. Ma accade che vedendo la camera di Nino possiamo immaginare due persone che dormono insieme in un vecchio letto di legno per sessantacinque anni; in quella di Amicangelo, anche se potessimo concepire una durata simile, le persone sarebbero interscambiabili.
Nella sua interpretazione monumentale Renato Pozzetto è un vero Atlante che regge il film con la sua maschera serio/placida/impassibile. E' un'impassibilità senile (giustamente non ce l'ha Lino Musella, Nino da giovane), che trasmette una sorta di paciosa dignità (ma a volte anche di stanchezza e smarrimento). Qui conviene ricordare che l'impassibilità, non eguale ma sorella di questa, è sempre stata una componente fondamentale della maschera di Pozzetto, fin dai suoi inizi nel cabaret in indimenticabile coppia con Cochi Ponzoni. A fianco dei protagonisti, quell'affollarsi di figurette ed episodietti laterali che Avati tanto ama, e che si potrebbe definire fiammingo, qui non è assente ma è limitato. Perché la storia di Nino e Rina attraverso la memoria di Nino ha una forza centripeta che attrae in sé tutta l'opera. E' istruttivo, per più di un aspetto, un passaggio nella seconda parte del film. Vediamo Rina piangere sulla riva del fiume e Rino arrabbiarsi con la madre (“Che cosa le avete fatto?”); poi la trova lì, ma non ci viene rivelato che cosa sia successo: perché non è importante. Questo film mostra una grande abilità nell'ellissi, ben servita dal montaggio preciso, quasi secco, di Ivan Zuccon (Il Signor Diavolo).
E da questa scena si passa, sul filo di un commento musicale drammatico, a un'inquadratura aerea che ci porta al famoso straripamento del Po (e dell'Adige) del 1951. Ora, è da notare che l'inondazione è il solo riferimento a fatti storici-cronachistici (mentre per quelli culturali c'è il consueto amore di Avati per la musica e il ballo); vero che Giuseppe e Rina si sposarono nel 1950, ma è egualmente interessante l'assenza della guerra o del suo ricordo nei due protagonisti: l'intimismo sembra avvolgerli come una bolla. Poi uno stacco ci porta subito a loro due in bicicletta, e la voce narrante racconta in terza persona che “trovano la loro casa”, quella che vediamo nel film.
Culminando nell'acquisto del Guercino, la ricerca della bellezza artistica con l'acquisto di opere d'arte (da cui nascerà la Collezione Cavallini Sgarbi) si sposa a questo amore coniugale al di là del concetto ovvio di passione condivisa: è un eternarsi attraverso la paziente creazione di un'abitazione, coi suoi tempi lunghi e distesi (ecco che è giusto richiamare quello stacco che chiudeva e cancellava in uno sbocco di felicità la cupa scena brevissima dell'inondazione).
Parlando con la sua compagna, Amicangelo racconta di Nino come uno “che parla coi morti”. Qui bisogna ricordare che l'illusione è uno dei grandi tempi del cinema di Pupi Avati. I suoi personaggi per la maggior parte sono creature che vivono in una bolla, persi in un progetto più o meno chimerico. A questa armata degli illusi appartengono anche gli imbroglioni, come per esempio il Christian De Sica de Il figlio più piccolo o il viscido Gianni Cavina di Regalo di Natale; e c'è una vaga ombra di questi personaggi nelle promesse e bugie al telefono di Amicangelo, scrittore fallito e indebitato, che tira avanti facendo il ghostwriter di autobiografie altrui, e che accetta il lavoro con Nino sperando che Elisabetta pubblichi il suo romanzo: il suo sogno. Ma nel caso presente bisogna segnalare alcune cose. La prima è che il personaggio non possiede – e forse questo è un difetto del film – quell'elemento di tenerezza che caratterizza di solito tali eroi avatiani. La seconda è che viene “inghiottito” dalla figura gigantesca di Nino. Ma forse che lo stesso Nino è un altro di simili personaggi immersi nell'illusione? Agli occhi del mondo, forse; ma solo per quelli: perché l'autentica complicità fra lui e la moglie morta (il loro continuare a vedersi, lei dice, “è un segreto fra me e te”) non è illusione – è memoria, che, come il film ripete, ci rende immortali.



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