Se
è vero il proverbio “troppi cuochi rovinano il brodo”, c'erano
motivi per aspettarsi il peggio da Solo: A Star Wars Story,
che ha avuto una gestazione più difficoltosa della famosa rotta di
Kessel in meno di dodici parsec che vediamo nel film. Com'è noto,
durante la lavorazione sono stati licenziati i due co-registi Phil
Lord e Christopher Miller – i quali, scritturati per portare al
film un tocco di umorismo, avevano cercato di dargli un approccio
troppo da commedia, e si prendevano molte libertà con la
sceneggiatura di Lawrence Kasdan e suo figlio Jon.
A loro è subentrato Ron Marshall, antico amico e sodale di
George Lucas, e oltre a completare il film ha rigirato molte scene
del lavoro precedente (si parla del 70%).
Ora,
bisogna ammettere che tutti noi appassionati di Star Wars
abbiamo un attacco di batticuore a ogni nuovo episodio, specie della
serie laterale degli spin-off, temendo per la “sacralità” del
canone. Per fortuna, la saga ha una specie di sentinella nella figura
di Lawrence Kasdan, che
sceneggiò L'Impero
colpisce ancora,
dopo la morte di Leigh Brackett, nel lontano 1978, poi Il
ritorno dello Jedi,
è tornato per Il
risveglio della Forza
nel 2015 e ora, a 69 anni, è co-sceneggiatore di Solo
assieme al figlio. Ebbene, Kasdan non ci ha traditi. Certamente il
film soffre delle proprie avventure produttive; ma il risultato,
smentendo il proverbio, è un brodo ancora gustoso. Del resto,
capolavori ben maggiori della storia del cinema, da Via col
vento a Duello al sole, sono passati per una pluralità
di mani.
In
Solo (che come altri film della serie è un vero e proprio
Bildungsroman) assistiamo alla formazione dell'eroe: come
ottiene il cognome (in origine era semplicemente Han), come incontra
Chewbacca e fa amicizia con lui, come diventa proprietario del
Millennium Falcon. E' interessante che il “tema di Han Solo”
della score originaria di John Williams risuoni, nel presente
film, soltanto quando si realizza l'incontro fra il protagonista e
l'astronave. Han Solo è Han Solo in connessione col Millennium
Falcon, come Artù con Excalibur.
E'
una sfida difficile calarsi nei panni di Harrison Ford; ma Alden
Ehrenreich – la cui interpretazione invero ha diviso la critica
tanto quanto il film stesso – mi sembra sia riuscito a disegnare un
credibile Han Solo giovane, privo di quell'amarezza che lo accompagna
nella maturità e ancor più (et pour cause!) nella vecchiaia.
Infatti, al massimo si potrebbe obbiettare che è un po' troppo nice
guy per i presupposti della storia, limitando il suo cinismo a
qualche battuta pronunciata con una passabile faccia da schiaffi;
talché, quando a metà film Qi'ra (Emilia Clarke) gli dice
solennemente che lei è l'unica in tutta la Galassia a sapere che è
“un bravo ragazzo”, la battuta sembra alquanto ridicola:
l'avevamo già capito.
In
un film dove non sentiamo nominare nemmeno una volta la Forza o i
cavalieri Jedi, al di là del paesaggio-situazione mi pare che solo
uno dei topoi tipici della serie Star Wars ritorni con
particolare evidenza: quello dello scontro padre-figlio. Perché la
mitologia di Star Wars è piena di padri; padri carnali e
padri adottivi; padri che vogliono divorare (pervertire) il figlio,
come Darth Vader, e padri che lo aiutano a crescere, come Obi-wan
Kenobi. E contestualmente figli, carnali o adottivi, che amano o che
rinnegano. Forse sarebbe interessante studiare Star Wars alla
luce della narrativa di fantascienza, oggi poco ricordata, di Robert
A. Heinlein.
Qui
troviamo (attenzione: seguono spoiler!) la figura di Tobias Beckett
(Woody Harrelson), che rappresenta una sorta di padre putativo per il
giovane Han, e che nel climax rivela di avere piani tutti suoi (“Mi
dispiace tanto, ragazzino... non ti fidare mai”). Nel duello finale
fra loro risuona l'eco del western (un altro genere che ne sa
qualcosa di lotte fra padri e figli).
A
parte questo tema, sarebbe inutile nasconderci che l'elemento mitico
e wagneriano della serie, coi suoi addentellati di caduta e
redenzione, nel presente film è limitato. L'avventura è emozionante
ma non ha un sottofondo epico. Ron Howard apporta a Solo l'abilità
artigiana, e naturalmente le caratteristiche concretizzatesi nel
tempo, di una carriera lunga, e anche diseguale (i suoi film tratti
da Dan Brown sono bruttissimi – sebbene non ci sia niente da dire
sulla sua abilità nelle sequenze d'azione). Per quanto il
citazionismo dal cinema fiabesco e fantascientifico fosse una delle
caratteristiche forti del Guerre
stellari del 1977,
merita notare come in Solo Howard riprenda in modo
piuttosto nuovo rispetto alla serie l'iconologia e gli stilemi del
moderno cinema di genere. Questo si vede subito con il car chasing
fra auto volanti all'inizio: non è un inedito nella saga, ma
salvo errore è la prima volta che un poliziotto in “moto” li
vede che s'inseguono e sfreccia avanti per fermarli, come sulle
strade americane. La sequenza della battaglia – “sporca”,
nebbiosa per la polvere sollevata, nella fotografia di Bradford Young
– ci riporta al cinema sulla seconda guerra mondiale più che alla
tradizione molto netta di Star Wars. Ritroviamo forme e
personaggi classici degli heist movies, i film di
rapina (penso all'alieno a quattro braccia Rio Durant), e infatti
segue la classica “rapina al treno” correndo sui vagoni – però
riscritta con vivacità e fantasia in chiave fantascientifica.
Ma
in particolare un modello che sovrintende ai rapporti fra i
personaggi principali del film è quello del cinema noir. Quando Han
Solo ritrova il suo antico amore Qi'ra lei è molto cambiata ed ha i
connotati (e l'ambiguità) della classica “buona cattiva ragazza”
del romanticismo noir, compreso un senso masochistico di indegnità;
battute come “Non sai quello
che ho fatto” vengono direttamente di qui – e tutto lo sviluppo
seguente si legge in questa chiave, fino allo sguardo addolorato
andandosene con l'astronave-yacht. Mentre il temibile Dryden Vos (un
ottimo Paul Bettany), assassino beneducato e spietato, è gemello dei
classici personaggi alla Richard Widmark.
Il
pericoloso viaggio a rompicollo nello spazio è certamente
“ortodosso” nell'universo di Star Wars,
e già menzionato nella saga; nondimeno si ricollega a Edgar
A. Poe e a tutta la narrativa di avventura marinara, trasferita
intelligentemente sullo schermo dalla serie Pirati dei Caraibi:
ecco il maelstrom, e quel mostro spaziale immenso al quale di Kraken
manca solo il nome.
Solo
è platealmente costruito in modo da lasciare spazio a un sequel. La
storia fra Han Solo e Qi'ra viene lasciata a metà e il riferimento
finale a un lavoro da compiere sul pianeta Tatooine non sembra
lanciato a caso. Speriamo dunque di rivedere in futuro anche “la
ripugnante Lady Proxima” (citazione dalla didascalia iniziale): un
vermone che vive sott'acqua che è il personaggio più interessante
come design. Questa è l'occasione per annotare che il film è
molto forte sui personaggi di contorno, che costituiscono una valida
aggiunta allo starwarsverse. Quello che va menzionato in
primis è la simpaticissima
droide femmina L3
(voce in originale di Phoebe Waller-Bridge). Non è solo scritta
assai piacevolmente e con molto humour (ci si chiede se non ci sia
qui un residuo di Lord e Miller) ma nella sua rivendicazione delle
“pari opportunità” supera perfino la barriera sessuale fra
organico e meccanico, il che rappresenta un passo avanti
nell'“umanizzazione” dei droidi ch'è un caposaldo di tutta la
saga di Star Wars.
Nessun commento:
Posta un commento