Marcello,
il protagonista del bellissimo film di Matteo Garrone, usa quello
pseudo-inglese che si farfuglia in Italia per apparire moderni,
quando scrive “Dogman” sull'insegna del suo negozietto di
toelettatore per cani (che semmai in inglese è groomer).
Questo ci dice qualcosa sull'ingenuo personaggio; ma in realtà il
gioco linguistico ha un senso più profondo. Dogman sarebbe
uomo-cane. Ecco una spia preziosa per guidarci nel film, che si apre
col primissimo piano di un pitbull furioso alla catena, mentre viene
lavato; intanto altri cani guardano dalle gabbie. E hanno “facce”
estremamente espressive – e pulite. Nel film, i cani sono
più umani degli uomini, ovvero: i cani sono uomini e gli uomini sono
cani.
Infatti
la persona più gentile del film, che si svolge in un quartiere
orribilmente degradato, è il mingherlino Marcello (lo interpreta un
grande Marcello Fonte). Pur essendo un piccolo criminale a tempo
perso (spaccia modeste quantità di coca), è d'animo buono, adora la
figlia bambina e i cani affidatigli, desidera solo vivere la sua vita
in accordo con tutti. Però Marcello è – qui ci aiuta un'altra espressione
inglese – l'underdog, sta
al gradino più basso della gerarchia implicita del quartiere. Mentre
il suo brutale amico, il picchiatore cocainomane Simone (Edoardo
Pesce, che disegna un terrificante grumo di violenza), odiato e
temuto, è il cane più grosso e feroce del territorio. E'
assai indicativo che nella resa dei conti (attenzione, spoiler!)
Simone finisca incatenato nello stesso modo e nello stesso luogo del
pitbull furioso che abbiamo visto in apertura.
Spoiler,
dicevo; ma in primo luogo il bel poster del film è già spoilerante
di suo, e inoltre Dogman è liberamente ispirato a una vicenda
reale ben nota, quella del Canaro di Roma. In ogni modo, il lettore è
avvertito: questa recensione dà per già visto il film.
Di
solito nel cinema italiano lo sfondo è una base per la recitazione,
e nei casi migliori parla attraverso la scenografia. E' raro che
pervenga a diventare una presenza reale coi mezzi del linguaggio
cinematografico: a replicare l'azione drammatica per via delle
caratteristiche di fotografia e illuminazione. Questa però è una
caratteristica del cinema di Matteo Garrone: i suoi ambienti hanno
voce; i suoi interni hanno una finitezza da acquario, trasmettono
sempre un senso di delimitazione e chiusura (l'ottima fotografia di
Dogman è di Nicolai Brüel).
Il mondo di Garrone è
un perimetro infernale. Occorre citare L'imbalsamatore o
Gomorra? Anche Dogman, scritto da Garrone, Ugo Chiti e
Massimo Gaudioso, crea un ambiente di desolazione assoluta, abitato
da un sottoproletariato losco e miserabile: grandi visi in primo
piano, vissuti, ora indifferenti ora crudeli. Come spesso in Garrone,
è un mondo che ignora la grammatica dell'umanità.
In
una scena di cieca violenza del solito Simone, notiamo il dettaglio
barocco di una testa di legno dipinto tutta sporca di sangue. Perché
Garrone è barocco, assolutamente; ma di un barocco funereo e
disperato (e qui si può trovare uno dei limiti del suo Il
racconto dei racconti, che non
riesce a raccordarsi col barocco invece aereo e scherzoso di
Giambattista Basile).
Fra
il mondo belluino degli uomini e il mondo “umano” dei cani,
Marcello si situa a metà strada. La sua empatia è dedicata
principalmente ai cani (la scena in
cui ritorna a suo rischio nella casa derubata, per rianimare una
cagnetta chiusa nel freezer dai ladri di cui è stato costretto a
farsi complice, ha qualcosa di un Chaplin perverso), nonché alla
figlia, che vorrebbe sempre portare in viaggio. Tuttavia, vorrebbe
essere amico di tutti. Aiutato da un'interpretazione formidabile, il
film traccia un quadro psicologico assai convincente di questo “uomo
di fumo” del mondo degradato, un'anima debole come quelle che ama
ritrarre Garrone, e degna di pietà lungo tutto il film.
Le uniche evasioni –
dell'uomo e del film – dal mondo feroce sono due scene subacquee di
Marcello con la figlia, che in netta opposizione ad esso postulano un
senso di libertà (un contrasto forse un po' letterario, ma
nobilitato dalla bella fotografia e dall'opera del montatore Marco
Spoletini). Tuttavia, nella seconda immersione, verso la fine del
film, Marcello non riesce a continuare; sta male per le percosse di
Simone; la caduta di questo minimo Eden è concentrata in
un'inquadratura drammatica sulla nave che ritorna, lui col viso
devastato dai colpi e la bambina abbracciata, silenziosi ambedue.
Bisogna
però chiarire che non è tanto per timore della sua violenza che
Marcello fa da reggicoda a Simone lungo il film; c'è dietro
un'amicizia (forse d'infanzia?), a senso unico ma lui non lo capisce.
Merita ricordare che nel cinema di Garrone è ricorrente
quell'elemento che è giusto chiamare fascino,
nel senso che i deboli sono come affatturati
dai più forti. Il suo è un cinema della solitudine e della
possessione. E' per questo che Marcello non denuncia Simone alla
polizia, non solo per paura (che certo c'è) – al prezzo di farsi
un anno di prigione. La bellissima dissolvenza che chiude la scena
della sua impaurita entrata in carcere è ambigua sul futuro e
psicologicamente tragica. Non sapremo niente di quel che accade a
Marcello là dentro, salvo che ne esce indurito; il racconto riprende
un anno dopo.
Al suo ritorno Marcello
è messo di fronte alla definitiva realizzazione dell'inumanità
dell'“amico”; il cui peggior torto è comunque di avergli fatto
perdere tutte le amicizie del quartiere. Quest'uomo che parla
specialmente ai cani ha un bisogno commovente di sentirsi inserito
fra i suoi simili. Così, nutrito di ingenuità (“So' cambiato, io,
capito?”) e cocaina, l'underdog si ribella e morde.
Nota che dopo
aver fracassato la moto di Simone, Marcello non sa far altro che correre al negozio, tirar giù la saracinesca e chiudersi dentro. Quest'uomo vive alla
giornata; si contenta di strappare la sua piccola vita quotidiana
negli interstizi del mondo feroce; se escludiamo le fughe nei viaggi
con la figlia, agisce solo nell'immediato. C'è un unico progetto che
lo vediamo elaborare, alla fine, ed è la sua rovina.
Attira Simone in una
trappola; qui, una bella inquadratura in strada ci mostra Simone in
primo piano e Marcello più distante in una penombra in cui brilla
solo il bianco del suo sorriso che vuol essere rassicurante. Nel suo
negozio, lo imprigiona e poi lo uccide (splendido come i musi
espressivi dei cani nelle gabbie facciano da coro muto alla vicenda).
Ma non c'è uscita dalla sua sventura.
In precedenza nel film,
in un'inquadratura davanti al mare dopo le botte prese da Simone,
Marcello era isolato da un fuori fuoco: e questo anticipava il
delirio finale. Infatti, quando nel finale Marcello cerca di bruciare
il corpo di Simone, risuonano delle voci fuori campo che sono,
scopriamo presto, un'allucinazione sonora e poi visuale: i suoi
compagni che giocano a calcio: è il suo misero desiderio, nel
cervello bruciato dalla cocaina, di reintegrarsi in quella società
del quartiere da cui era stato espulso. Perché subito dopo vediamo
che il campetto – che prima era fuori fuoco ma ora ha la nettezza
chirurgica della fotografia in tutto il film – è vuoto.
Nell'ultima
inquadratura, con Marcello impazzito accanto al cadavere, il cerchio
formato dalle panchine nella piazzetta ha il significato di una
gelida, conclusa ineluttabilità.
Nessun commento:
Posta un commento