Il
bellissimo L'isola dei cani è
il film orwelliano di Wes Anderson. Va detto che in tutti i film
dell'amabile stregone del cinema americano fa capolino il tema del
controllo ossessivo (che peraltro fallisce sempre); mai però quanto
in questo; ne fa fede all'inizio l'apparizione del
sindaco Kobayashi, baffuto e accigliato, su un megaschermo: il Grande
Fratello di Orwell (Anderson fa un cinema di iper-significazione –
per questo ogni suo film andrebbe visto più volte).
Come
Fantastic Mr. Fox, L'isola dei cani è
un film di animazione in stop-motion. Ambientato in Giappone,
riporta tutto l'universo culturale giapponese quale lo conosciamo in
Occidente (gli haiku, i tamburi taiko, il sumo, i tatuaggi,
gli usi funerari, Hokusai e la pittura classica, il sushi, qui usato
per avvelenare un avversario), per non dire degli omaggi agli anime e
a Kurosawa Akira (Dodes'ka-den). Il corrotto sindaco della
megalopoli, ultimo discendente di un clan amico dei gatti e nemico
giurato dei cani, approfittando di un'epidemia canina ordina di
deportare tutti i cani sull'Isola della Spazzatura, e prepara il loro
sterminio e la sostituzione con cani-robot. Nota in margine: qualche
gattofilo penserà che il film sia unfair verso i gatti (nel
pre-finale questi scappano via con un movimento rettilineo che
ricorda i ratti dell'Isola), ma che dire? “Cane e gatto”, si sa
com'è, e Wes Anderson è sinceramente cinofilo, lo vediamo da tutti
i suoi film (anche se incrocia, alla E.A. Poe, l'amore dei cani con
l'ombra della morte). E' un tocco delizioso che il gatto bianco del
sindaco abbia le sembianze di quello di Blofeld in James Bond.
Non
sorprende di ritrovare anche in questo film di Anderson la sua quasi
inverosimile leggerezza di poeta e giocoliere. La sua narrazione a
scatole cinesi, qui sorretta da folli e buffe didascalie di tempo. I
suoi stilemi: la centratura dell'immagine in un'inquadratura
bilanciata, l'impiego qui assai forte dello sguardo in macchina,
l'amore per il disegno: non solo le pitture (pseudo) classiche
adattate al racconto ma una quantità di poster e cartelloni, che non
per nulla ritornano tutti nei titoli di coda. E naturalmente la
consueta perfezione del montaggio del suono.
Dopo
la deportazione dei cani, un ragazzino di nome Atari, che era stato
adottato dal sindaco in seguito alla morte dei suoi genitori, si reca
clandestinamente sull'isola con un velivolo poco affidabile alla
ricerca del suo cane Spots.
Ritorna qui la figura dell'orfano, così presente nel cinema
estremamente interconnesso di Anderson (la celebra in particolare il
capolavoro Moonrise Kingdom); ma ritornano altresì,
con Atari e il gruppo degli studenti “pro-dog” che si oppongono
al sindaco, i suoi classici bambini a mezza strada fra il mondo
infantile e il mondo adulto. Segue
un'avventura affascinante con cui si realizzano l'evasione del gruppo
di cani protagonisti e il salvataggio in extremis dell'intera
popolazione canina. Wes Anderson è sempre innamorato degli
stratagemmi e dei piani – che però nel suo cinema funzionano (non
è come nei fratelli Coen, i maggiori narratori cinematografici,
con Kubrick naturalmente, di piani falliti). Per questo adora le
evasioni, da Fantastic
Mr. Fox a
Grand Budapest Hotel.
Però
il cuore e la struttura portante di questo film non sono gli esseri
umani, sono i cani. Non per nulla un'intervista reperibile online
dell'animatrice capo Kim
Keukeleire conferma che era preciso programma di Anderson
che i personaggi giapponesi avessero poca espressività e invece i
cani ne avessero moltissima. Questi cani, pupazzi in stop-motion in
effetti incredibilmente espressivi coi loro occhi di palline di vetro
che guardano in macchina, sono i protagonisti, anzi, di più: non è
un film con cani protagonisti ma un film cinocentrico. E' una
commedia drammatica canina, e sono meravigliose le loro conversazioni
– nel film i cani parlano fra loro in inglese (un cartello ci
informa che è la traduzione dei loro latrati), mentre i personaggi
umani parlano in giapponese che (altro cartello) viene tradotto in
inglese solo quando è necessario! Non è la prima volta che il
cinema o la letteratura esplorano la “cultura
canina”, certo, ma raramente è stato fatto con tanta
veridicità e humour (ombra di Orwell anche qui!). Si vorrebbero
citare mille esempi, come succede sempre con Wes Anderson, ma mi
limito a segnalare i dialoghi alla Humphrey Bogart e Lauren Bacall
fra il protagonista Chief e la
bellezza canina Nutmeg di cui si innamora. Voci di Bryan Cranston e
Scarlett Johansson nell'originale; ma tutta la compagnia fissa di
attori di Anderson è presente, a costo di dar voce (Anjelica Huston)
ai mugolii di un cucciolo muto – più inedite immissioni, fra cui
Yoko Ono a doppiare una scienziata che si chiama, senza sorpresa,
Yoko Ono.
Con
al centro il rapporto disfunzionale
col randagio Chief, che inizialmente è il membro riluttante del
gruppo, i cani del film sono la classica banda di personaggi
bizzarri, sconclusionati, divertentissimi (il tormentone delle
votazioni!) che popolano come un affresco dickensiano il cinema di
Anderson, da I Tenenbaum a Il treno per il Darjeeling,
da Le avventure acquatiche di Steve Zissou
all'assai minore
Grand
Budapest Hotel
e
via dicendo. Fra
litigi (è interessante apprendere che anche i cani usano come
insulto son of a bitch)
e improvvise eruzioni di saggezza, a trionfare è il concetto
americano e quasi fordiano dello spirito di corpo, sempre forte nel
cinema andersoniano. L'avventura caotica e piena d'incubi pone le
basi di una rinascita. Perché,
uomini o animali, il tema centrale del cinema di Wes Anderson è
sempre lo stesso: la perdita e la ricomposizione. Vale per Atari,
naturalmente, ma vale in prima persona per i cani abbandonati e
traditi. Nel presente film questo viene trasmesso in termini di
cultura canina, dove la perdita è quella della simbiosi con l'uomo,
e ha alla base l'opposizione fra stray dog,
randagio, e cane con un master
(che ha un significato più intenso del nostro “padrone”). Il
rapporto fra master e
cane è così stretto che l'accettazione (l'adozione) reciproca viene
esplicitamente equiparata, in una scena, al matrimonio. Ora, se
ricordiamo per esempio il peso doloroso del divorzio ne I
Tenenbaum o la coppia di tristi
coniugi litigiosi in Moonrise Kingdom,
o per converso la calda elegia della famiglia in Fantastic
Mr. Fox, vediamo che per
Anderson il matrimonio è una cosa ben importante.
Va
sottolineato che in Anderson la sofferenza parte sempre da se stessi:
un Io non riconciliato col sé. La riconquista del sé passa per
l'accettazione e il recupero dopo che il dolore ha raggiunto un punto
di crisi. Nel suo cinema, dunque, protagonista non è il dolore
(nella sua doppia forma, la separazione e la morte) ma il suo
superamento: la capacità di lasciar andare il passato. “La
smettiamo di piangerci addosso, non è molto carino”, dice Anjelica
Huston ne Il treno per il Darjeeling. E'
un atteggiamento che lega Wes Anderson al cinema americano classico
dei Ford e degli Hawks – molto più presente nel suo cinema, a
livello morale, di quanto non paia.
Di
questa rinascita può essere simbolo tanto un funerale (I
Tenenbaum) quanto la nascita di
un bambino – o di una cucciolata. E ne fa parte il concetto
espresso da questa battuta (ancora I Tenenbaum):
“Non si può essere stronzi tutta la vita e poi riparare i danni?”
Questo si applica bene, ne L'isola dei cani,
all'operazione discretamente impressionante – un trapianto di rene
in un film d'animazione! – nel pre-finale, inquadrata “a piombo”
dall'alto, nel che si ritrova lo sguardo assoluto,
un equivalente dell'occhio di Dio, che è tipico di Wes Anderson (e
che, per inciso, è analogo al fumetto; e infatti col fumetto il
cinema del grande regista ha molto in comune). Le sue favole ci
arricchiscono con la verità.
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