Per
la consueta (mega)recensione del Far East Film Festival 2018, parto
dal Giappone,
cinematografia cui appartengono alcuni dei migliori film visti –
tra i quali il più bello del festival: Side
Job. di
Hiroki Ryuichi (vedi
scheda sotto).
Il secondo miglior film della pattuglia giapponese è The
Scythian Lamb
di Yoshida Daihachi. Per ridurre le spese carcerarie il governo manda
sei condannati per omicidio a vivere in libertà condizionata in una
cittadina di mare (ciascuno all'insaputa dell'altro); un giovane
impiegato deve occuparsi di loro. Tratto da un manga, è un film
estremamente intelligente (con memorabili
caratterizzazioni/interpretazioni del sestetto); è un film del
sospetto,
in tutti i sensi, che anche gioca con gli spettatori (esempio,
l'inganno dei finti flashback sui sei in una scena). Non tanto un
thriller quanto un'analisi dell'essere umano.
Il
vero elemento metaforico del film più che il leggendario agnus
scythicus
è il pericoloso dio marino Nororo, la cui statua gigantesca incombe
sul paese. Guardarla è tabù perché porta sfortuna – il che
rispecchia la questione “filosofica” del film, che è sul
guardare/non guardare, oltre che sull'ingannarsi; mentre per quella
morale si può riprendere il sottotitolo di un precedente film di
Yoshida, Funuke
– Show Some Love, You Losers!
Tremble
All You Want di
Ooku Akiko è una commedia sentimentale assai piacevole su
un'impiegata ventiquattrenne ancora vergine, incerta fra l'amore non
corrisposto risalente agli anni del liceo per un belloccio che chiama
Uno e quello ossessivo di un goffo collega d'ufficio che chiama Due.
Il film è molto moderno, veloce e capriccioso nel suo svolgimento;
lo spettatore deve passare per vari gradi di spaesamento. Matsuoka
Mayu è memorabile nel ruolo protagonista, una figura femminile che
potrebbe appartenere a un film di Woody Allen; ruba completamente
l'attenzione del pubblico, ma bisogna menzionare almeno Watanabe
Daichi (Due) che appare come un autentico Jerry Lewis giapponese. La
messa in scena è dettagliata e spiritosa, con tocchi indovinati e
volti formidabili fra i quali va menzionata almeno la vicina di casa
che suona sempre l'ocarina (e si chiama Oka Rina – come spiega alla
protagonista, il nome è destino).
Un film gustosissimo
ha vinto a sorpresa il secondo posto nei premi del pubblico: One
Cut of the Dead di Ueda Shinichiro (vedi scheda sotto). Va
poi menzionato il melodramma The 8-Year Engagement di Zeze
Takahisa. Basato su una storia vera, è un tearjerker (“preparate
i fazzoletti”) dichiarato e assoluto: è una macchina per strappare
le lacrime, perfettamente costruita. E infatti, vi assicuro,
funziona! E' la storia di due innamorati; lei poco prima del
matrimonio ha un ictus (non esattamente, ma qui non importano i
dettagli medici) che la manda in coma. Lui la aspetta. Lei si
risveglia, dopo molto tempo, ma ha dimenticato tutto, è come una
neonata, e deve ripartire da zero (eccellente l'interpretazione
naturalistica di Tsuchiya Tao); lui, Hiroshi, continua ad aspettarla,
seguendola durante la riabilitazione. Un dettaglio molto indovinato:
all'inizio della “rinascita” lei riconosce Hisashi in una foto
mostratale dalla madre – ma lo chiama Hisashi-san, e l'uso della
particella onorifica ci fa sentire in modo palmare come non ricordi
il rapporto d'amore che c'era prima.
The Blood of
Wolves di Shiraishi Kazuka è una versione deviante del genere
poliziesco buddy-buddy (due che si odiano e poi cooperando
diventano amici): i personaggi sono quelli canonici (il vecchio
piedipiatti cinico, non alieno dalle bustarelle, e la recluta appena
uscita dall'università); ma in primo luogo questa alchimia non si
forma se non a posteriori, e inoltre sia i personaggi sia lo
svolgimento sono esagerati in modo barocco (non senza un adorabile
humour gaglioffo). Basta dire che il film si apre col culo di un
maiale che defeca per capire che siamo fuori dal solito thriller
elegante: il film si caratterizza per un gusto eccessivo (puro Dick
Tracy, direbbe Orson Welles), e il grottesco è la forma sotto la
quale sviluppa con rigore un plot noir che di passaggio accenna a un
tema politico: il legame dei gangster con l'estrema destra
giapponese.
Infine, il
fanta-horror Yocho (Foreboding) di Kurosawa Kiyoshi: l'editing
per il grande schermo di una serie televisiva di 200 minuti. I tagli
si sentono, in una certa secchezza narrativa e di montaggio; l'ironia
poi salta fuori solo nella parte finale; una battuta del micidiale
alieno, quando tentano di ucciderlo, è divertentissima ma essendo il
film mortalmente serio rischia di fare un effetto di anticlimax.
Gli alieni stanno
preparando l'invasione della Terra e la distruzione dell'umanità.
Uno di loro è sceso sulla Terra in avanguardia, appropriandosi del
corpo di un medico giapponese (Higashibe Masahiro, ottimo): ha lo
scopo di impadronirsi dei “concetti” degli umani (famiglia,
paura, odio ecc.), che “ruba” telepaticamente lasciandone prive
le vittime.
Kurosawa Kiyoshi ha
sempre avuto un sottofondo “filosofico”. E' affascinante
quest'idea dei “concetti” come strutture conoscitive base degli
esseri umani. Molto bello lo sviluppo iniziale sulla famiglia, che è
il primo concetto a essere rubato: ricorda (a rovescio) L'invasione
degli ultracorpi. E' invece un'ingenuità, benché necessaria al
plot, che fra questi concetti l'amore venga scoperto per ultimo.
Ritorna la capacità di Kurosawa di creare un senso di ambiguità e
suspense nella normalità, e di trasferirne l'effetto sugli
spettatori. La fotografia è molto buona, ossessivamente piena di
framing, in una sorta di estetizzazione della paura.
Due delusioni sono
The Name di Toda Akihiro, un esercizio di pirandellismo di
serie C, e ancor più il puerile Inuyashiki di Sato Shinsuke.
Spostiamoci in
Corea. L'ottimo Little Forest di Yim Soon-rye è un
delicato film sentimentale, che ricorda in piccolo i film di Eric
Rohmer degli anni Ottanta. Dopo aver fallito gli esami a Seoul una
ragazza torna alla casa di campagna dove viveva con la madre; quando
lei era andata via per studiare, anche la madre se n'è andata per
vivere la propria vita, e il tema sotteso è appunto il rapporto di
lei col ricordo della madre dalla quale si sente abbandonata.
Contemporaneamente il film racconta con leggerezza della sua nuova
vita sentimentale al villaggio: un legame tra lei, la sua migliore
amica e un giovane agricoltore da cui sono entrambe attratte. Però
senza drammaticità, sia perché la loro antica amicizia vince su
tutto sia perché nessuno dei tre fa la mossa di dichiararsi
apertamente. C'è quindi un'“apertura” che rifugge da soluzioni
drammaturgiche, e dà al film un che di aereo.
Questo è il plot,
ma il filo rosso del film è il cibo: la preparazione accuratamente
descritta di varie pietanze, tutte vegetariane, provvede uno
“scheletro” che sorregge tutta la storia. Anche al di là di
questo elemento strutturale il film possiede un forte senso della
natura e della concretezza delle cose, che trova una significazione
morale nel suo discorso sull'agricoltura come metafora della vita.
Notevolissimo è
Last Child di Shin Dong-seok (vedi scheda sotto), al
pari di The Running Actress, confessione
privata con un umorismo venato di amarezza della diva coreana Moon
So-ri (l'indimenticabile interprete di Oasis,
per citare un solo titolo) alla sua prima regia. In tre
episodi l'attrice riflette, tra fiction e autobiografismo, sulla sua
condizione nel cinema e nella società – per esempio sulla tensione
di conciliare lavoro e maternità e sulla difficoltà di trovare
parti importanti quando non si è più giovanissime.
Il film vincitore
del premio del pubblico, 1987: When the Day Comes di Jang
Joon-hwang, è un dramma politico alla Z – L'orgia del potere su
fatti reali. Dopo la morte sotto waterboarding di uno studente
al tempo della dittatura militare di Chun Doo-hwan, il tentativo di
insabbiare l'assassinio fallisce e le manifestazioni per la
democrazia scuotono le fondamenta del regime. Sorretto da buone
interpretazioni, il film ha un forte contenuto empatico, anche se lo
indebolisce l'inserimento forzato di una storia sentimentale.
The Battleship
Island – Director's Cut di Ryoo Seung-wan, terzo premio del
pubblico, è un super-blockbuster ambientato durante la guerra su un
episodio di crudele sfruttamento della manodopera coreana da parte
dei giapponesi e la successiva rivolta: indubbiamente sovraccarico ma
emozionante. Opportunamente il FEFF ha approfittato per recuperare
l'eccellente Veteran, dello stesso regista, del 2015.
Altro blockbuster,
Steel Rain di Yang Woo-seok sviluppa con vigore una trama di
action fantapolitica (divertenti i trucchi per non mostrare il
viso di Kim Jong-un, portato ferito e in coma a Seoul dopo un
tentativo di colpo di stato da parte di militari nordcoreani più
pericolosi di lui). Da citare un
tocco assai bello: in un film che – "coreanamente" –
sulla violenza non fa sconti (la scena dello scoppio del missile
lanciato dai cattivi è quasi intollerabile), quando nel finale il
co-protagonista nordcoreano si fa tracciare affinché un missile
possa distruggere con lui il super-cattivo a capo del golpe, ci
aspettiamo di vedere una mega-esplosione e invece il film va in una
solenne ellissi. Così rende ancora più commovente il suo
sacrificio, che permette l'instaurarsi di un processo di pace fra i
due paesi.
Fra
i vari polizieschi e gangster
movies
cito innanzitutto A
Special Lady
di Lee An-gyu (vedi
recensione)
con la splendida Kim Hye-soo. E poi il bizzarro, piacevole The
Chase
di Kim
Hong-sun: di solito i gialli hanno come protagonisti dei giovani o
degli anziani di aspetto giovanile; qui abbiamo un'improbabile coppia
di vecchietti; il protagonista è malridotto anche a prima vista,
mentre il secondo, un ex poliziotto, è un duro ma anche lui non
risalta come fiore di gioventù. Nonostante
l'età dei due, il film è pieno di mazzate. A proposito di età:
delizioso un inseguimento a piedi (un topos
dei polizieschi coreani) fatto camminando, perché il vecchio non ce
la fa più e il giovane inseguito ha una gamba azzoppata – che
verrà ripreso in toni più drammatici verso la fine.
Meno
interessante The
Outlaws
di Kang Yoon-sung, nonostante la simpatia dell'interprete Ma
Dong-seok (Train
to Busan).
L'horror lo rappresentava Gonijam:
Haunted Asylum
di Jung Bum-shik. Tre
ragazzi e tre ragazze, col regista che li dirige da una tenda vicina,
esplorano un luogo infestato, un manicomio abbandonato, in diretta
online. E' ovvio che nei film POV, detti anche found
footage,
la questione è sempre “chi filma?”; Gonijam
risponde abbastanza bene a questo problema che crocifigge il
(sotto)genere. A un certo punto il regista, vedendo il monitor, si
chiede terrificato “Sono tutti lì insieme... ma allora chi sta
filmando?” – un modo per ammettere l'ambiguità portandola in
primo piano. Fra l'altro il “chi filma?” si applica anche a
quello (“non POV”) che vediamo accadere dentro la tenda di regia.
C'è
poi un'ambiguità che si riferisce alla recitazione: vediamo fenomeni
misteriosi e paurosi – solo che i
tre maschi sono d'accordo col regista per imbrogliare fabbricando
false manifestazioni all'insaputa delle ragazze, che servono solo a
terrorizzarsi. Questa verità è gestita abilmente dalla
sceneggiatura, per cui sul momento non sappiamo mai cosa sia
imbroglio e cosa sia autentica manifestazione spettrale.
Esiste
certo un problema di originalità, non solo rispetto a Il
mistero della strega di Blair,
che suggerisce alcuni topoi
visuali.
In realtà il film è talmente, come dire, “ispirato” da essere
quasi un remake non autorizzato da ESP
– Fenomeni paranormali dei
Vicious
Brothers (Colin Minihan & Stuart Ortiz), e probabilmente lo
ammette in un'inquadratura che sembra una citazione diretta. Comunque
ci si diverte molto.
Il
terzo grande cinema del Far East è Hong
Kong –
purtroppo quest'anno sottorappresentato. Commuove il piccolo film in
b/n No.
1 Chung Ying Street
di Derek Chiu che mettendo insieme le manifestazioni pro-Cina e
anti-inglesi del 1967 e un'ipotetica protesta del 2019 contro la
speculazione edilizia sostenuta dal governo rende omaggio al popolo
hongkonghese e porta avanti una coraggiosa protesta politica. Mi
spiace di non avere ancora visto The
Empty Hands di
Chapman To. Ma per gli spettatori del FEFF il cinema hongkonghese è
legato per sempre al nome del grande Johnnie To, di cui il FEFF ha
presentato il restauro di un film immeritatamente poco noto quale
Throw
Down.
Com'è
noto, nel cinema di Hong Kong hanno sempre più peso le coproduzioni
Hong
Kong-Cina.
In questo campo segnalo il notevole Out
Time Will Come:
in genere si pensa ad
Ann Hui come a una regista di drammi intimisti ma nella sua carriera
questa grande regista si è cimentata con vari generi. Questo è un
dramma di guerra sulla resistenza anti-giapponese a Hong Kong. Anche
su questo piano, non dico epico, ma patriottico Ann Hui mostra la sua
capacità di attenzione ai piccoli dettagli: e il rapporto fra la
protagonista e sua madre (l'ottima
Deanie Ip), che è il filo conduttore, illustra assai
bene l'abilità della regista nel fare un cinema di sfumature
psicologiche. Pure le classiche battute patriottiche proprie di
questo genere di film suonano vive e autentiche sulla bocca dei
personaggi di Ann Hui.
Operation Red Sea
di Dante Lam, un action con un pugno di soldati della Marina
cinese contro terroristi mediorientali, non è al livello del suo
precedente Operation Mekong. Le sequenze di combattimento sono
buone, abbastanza emozionanti e passabilmente crudeli, ma il problema
è che questo gruppo eroico è anonimo. Nonostante qualche sforzo
della sceneggiatura, il film non riesce a dare ai soldati una reale
identità: gli interludi di chiacchiera fra un combattimento e
l'altro sono disastrosi. Ma perché ciò danneggia il film, posto che
allo spettatore interessano gli scontri e non le psicologie?
Semplice: questi soldati cinesi sono iper-eroici (7 contro 150) e
siccome la loro potenza in combattimento sorpassa i limiti del
plausibile, la nostra “sospensione dell'incredulità” avrebbe
bisogno, per attivarsi, di figure dotate di concretezza umana (e
questa è la lezione del cinema action americano, anche il più
fanfarone).
I difetti di
Operation Red Sea non si trovano in un film analogo, il
pomposo ma emozionante Wolf Warrior II di Wu Jing (vedi
scheda sotto) – con il
quale passiamo dai film China/Hong Kong a quelli della Cina
continentale. I film di
quest'anno mi sembrano confermare un momento danaroso ma non
eccessivamente felice del cinema cinese (mi spiace però di non aver
ancora visto l'apprezzato Wrath
of Silence di Xin
Yukun). Anche un grande come Feng Xiaogang con Youth
non raggiunge i risultati assai alti del suo recente I
Am Not Madame Bovary, e
nella prima parte, sugli anni della rivoluzione culturale, si
impantana alquanto, pur mantenendo un buon livello formale; il
lunghissimo film migliora nella seconda parte. Forse migliore, anche
se non eccezionale, Love
Education di Sylvia
Chang, un buon film sentimentale assai ben interpretato, con delle
belle idee (il “doppio spostamento” finale). Never
Say Die di Song Yang e
Zhang Chiyu è sicuramente divertente ma non brilla per originalità
(anche la parodia della scuola di kung fu, che è il momento
migliore, si rifà a modelli hongkonghesi). City
of Rock di Da Peng è
alquanto gonfio e tedioso.
Meglio
la buona vecchia strada dei film in costume. Brotherhood
of Blades II: The Infernal Battlefield
di Lu Yang è un buon wuxiapian
dal ritmo serrato, impreziosito dall'elegante fotografia. The
Legend of the Demon Cat
di Chen Kaige è molto bello, e riporta quella capacità di messa in
scena vigorosa ed estetizzante che caratterizza il regista. Sebbene
tratto da un romanzo (giapponese) contemporaneo, si libera delle
tentazioni “di aggiornamento” più o meno revisionistico
dell'horror-fantasy di oggi per ricollegarsi al puro fiabesco cinese
stile I racconti
fantastici di Liao. Il
monaco giapponese Kukai e il poeta cinese Bai Juyi (personaggi
storici) investigano sulle malefatte del demon cat e, di lì,
sulle circostanze della morte di una concubina dell'imperatore
trent'anni prima. Il sottofondo mélo del racconto, che emerge in
particolare nella seconda parte, è sottilmente espresso attraverso
le espressioni dei bravi Abe Hiroshi e Sandrine Pinna. Il
gatto-demone parlante del titolo è assai ben realizzato come
personaggio, attraverso un abile misto di effetto Kulešov
e di CGI.
Fra i film di Taiwan
sono riuscito a vedere solo Gatao 2: Rise of the King di Yen
Cheng Kuo, una buona gangster story dai colori acidi e
surreali molto taiwanesi invero.
Per
Singapore menziono Diamond Dogs di Gavin Lim: exploitation
pura e molto divertente, con un eroe prigioniero nutrito di cibo per
cani e costretto a battersi in combattimenti a morte da filmare per
il piacere dei ricchi del pianeta; con un supercattivo (Andie Chen)
che gigioneggia alla grande; e con una dottoressa sadica che sembra
la nipote rotondetta di Ilsa la belva delle SS, ed è interpretata
con gusto dalla pornostar Okita Anri. La trasformazione dell'uomo in
mostro attraverso le droghe offre l'occasione di un accenno a
Frankenstein (la scena in cui si avvicina a sua figlia legata sembra
un Terence Fisher delle “pratiche basse”). Niente di nuovo come
idee, naturalmente, ma una realizzazione “sinvergüenza”
che potrebbe ricordare il Roger Corman più estremo: darci dentro
senza vergogna e cogliere l'occasione per divertirsi: ogni tanto ci
scappa qualche esempio di humour perverso, di cui l'esempio migliore
è lo scherzo sui film di Tsai Ming-liang.
Dalle Filippine
arriva uno dei film più
belli del festival: The Portrait di Loy Arceñas (vedi
scheda sotto). L'interessante cinema filippino si difende bene
anche con Chedeng and Apple di Rae Red e Fatrick Tabada: una
sorta di Thelma & Louise omosessuale in chiave di commedia
nera, in cui due donne anziane diventano criminali (moralmente
giustificate) e fuggono alla ricerca della amante giovanile di una
di loro – portandosi dietro la testa del marito manesco dell'altra
in una borsa Louis Vuitton. Molto divertente e molto umano, si
conclude con un fermo immagine che allegramente paga il suo debito
rendendo omaggio in chiave scherzosa al film di Ridley Scott.
Da menzionare poi
Smaller and Smaller Circles di Raya Martin, un buon thriller
cupo che ricorda l'atmosfera nerissima di certi film americani di
Friedkin e Fincher. Il fatto che i due investigatori (a caccia di un
serial killer) siano due gesuiti è di stimolo per introdurre
lateralmente il discorso dei preti pedofili: un viscido cardinale li
protegge spostandoli di zona. Non manca una descrizione sentita della
povertà nella capitale filippina.
Per la Thailandia
menziono Bad Genius di Nattawut Poonpiriya (un ingegnoso
metodo escogitato per imbrogliare agli esami universitari di inglese
si rovescia in un'atmosfera thriller) e il solido, convincente horror
The Promise di Sophon Sakdaphisit, che come molti buoni horror
ha per tema di fondo il dolore umano. E' anche interessante perché
introduce, in modo originale per una ghost story, il tema
della crisi economica thailandese di fine anni '90. La sceneggiatura
è attenta e la messa in scena accurata. Gli
elementi spettrali non sono inediti ma sono discretamente inquietanti
(da segnalare la sequenza del bambino-medium).
Ha un ruolo importante la location: il cuore dell'infestazione
è un vecchio enorme edificio la cui costruzione è stata interrotta
vent'anni prima, una torre di cemento piena di graffiti, che fornisce
uno scenario davvero memorabile.
E chiudiamo con
l'Indonesia, segnalando due film diversissimi ma entrambi
degni (ho perso My Generation di Upi). Satan's Slaves
di Joko Anwar, remake di un classico dell'horror indonesiano, specie
nella prima parte fa davvero paura. Merito di un plot ben intessuto
(bello come in un passaggio cruciale viene ripreso e rivitalizzato
l'elemento abusato del sogno) ma soprattutto dell'ottima regia di
Anwar – per esempio, l'uso del riquadro delle porte aperte come
“finestra” per l'azione, lungo tutto il film, è davvero
notevole. In sintesi: una cantante un tempo famosa è malata da anni
e giace a letto presso la propria famiglia impoverita; muore e fin da
subito cominciano fenomeni spettrali in questa casa in confronto alla
quale la casa di Psycho è Mulino Bianco. La scenografia è
eccellente; sto pensando in particolare a uno stretto corridoio con
appesa sul fondo una terrificante foto incorniciata della cantante,
che sembra guardare verso il basso: con buon effetto poiché fra i
protagonisti/vittime del terrore ci sono due bambini. Il film parte
dunque come una storia di fantasmi; in seguito si sviluppa come una
storia di satanismo e operazioni demoniache, con un grande finale di
invasione dei morti viventi ancora avvolti nei loro sudari come i
pocong.
Night Bus di
Emil Heradi, che non a caso ha avuto l'onore di chiudere il festival,
è un film assai importante. E' la cronaca di un autentico viaggio
all'inferno in forma del viaggio di un autobus in una regione
(immaginaria) devastata dalla guerra tra esercito e separatisti. Lo
attraversa una cupezza minacciosa (viene da pensare a Henri-Georges
Clouzot) con lampi di umorismo che si riducono e scompaiono man mano
che ci si addentra in quest'atmosfera di pura “notte dell'anima”.
E infatti è eccezionale l'uso del buio e della penombra, che riesce
a rendere delle impressioni sensoriali quasi inedite. La spietatezza
oppressiva della situazione non risparmia nessuno, in un film
assolutamente disperato.
E' un articolo
troppo lungo, questo, ma è un festival ricchissimo. Ne fanno parte
ancora i documentari, i film d'avanguardia cinesi, i corti dei
giovani hongkonghesi, e i restauri (come il
bellissimo Tampopo di Itami Juzo e il capolavoro Himala
di Ishmael Bernal). Il premio alla carriera alla grande Brigitte
Lin Ching Hsia è stato accompagnato da una retrospettiva che ci
ha permesso di vedere o rivedere grandi film... Wong Kar-wai,
naturalmente, Ronny Yu, Raymond Lee, ma in chiusura vorrei menzionare
una (personale) scoperta con lo splendido Red Dust di Yim Ho.
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