sabato 5 maggio 2018

Far East Film Festival 2018



Per la consueta (mega)recensione del Far East Film Festival 2018, parto dal Giappone, cinematografia cui appartengono alcuni dei migliori film visti – tra i quali il più bello del festival: Side Job. di Hiroki Ryuichi (vedi scheda sotto). Il secondo miglior film della pattuglia giapponese è The Scythian Lamb di Yoshida Daihachi. Per ridurre le spese carcerarie il governo manda sei condannati per omicidio a vivere in libertà condizionata in una cittadina di mare (ciascuno all'insaputa dell'altro); un giovane impiegato deve occuparsi di loro. Tratto da un manga, è un film estremamente intelligente (con memorabili caratterizzazioni/interpretazioni del sestetto); è un film del sospetto, in tutti i sensi, che anche gioca con gli spettatori (esempio, l'inganno dei finti flashback sui sei in una scena). Non tanto un thriller quanto un'analisi dell'essere umano.
Il vero elemento metaforico del film più che il leggendario agnus scythicus è il pericoloso dio marino Nororo, la cui statua gigantesca incombe sul paese. Guardarla è tabù perché porta sfortuna – il che rispecchia la questione “filosofica” del film, che è sul guardare/non guardare, oltre che sull'ingannarsi; mentre per quella morale si può riprendere il sottotitolo di un precedente film di Yoshida, Funuke – Show Some Love, You Losers!
Tremble All You Want di Ooku Akiko è una commedia sentimentale assai piacevole su un'impiegata ventiquattrenne ancora vergine, incerta fra l'amore non corrisposto risalente agli anni del liceo per un belloccio che chiama Uno e quello ossessivo di un goffo collega d'ufficio che chiama Due. Il film è molto moderno, veloce e capriccioso nel suo svolgimento; lo spettatore deve passare per vari gradi di spaesamento. Matsuoka Mayu è memorabile nel ruolo protagonista, una figura femminile che potrebbe appartenere a un film di Woody Allen; ruba completamente l'attenzione del pubblico, ma bisogna menzionare almeno Watanabe Daichi (Due) che appare come un autentico Jerry Lewis giapponese. La messa in scena è dettagliata e spiritosa, con tocchi indovinati e volti formidabili fra i quali va menzionata almeno la vicina di casa che suona sempre l'ocarina (e si chiama Oka Rina – come spiega alla protagonista, il nome è destino).
Un film gustosissimo ha vinto a sorpresa il secondo posto nei premi del pubblico: One Cut of the Dead di Ueda Shinichiro (vedi scheda sotto). Va poi menzionato il melodramma The 8-Year Engagement di Zeze Takahisa. Basato su una storia vera, è un tearjerker (“preparate i fazzoletti”) dichiarato e assoluto: è una macchina per strappare le lacrime, perfettamente costruita. E infatti, vi assicuro, funziona! E' la storia di due innamorati; lei poco prima del matrimonio ha un ictus (non esattamente, ma qui non importano i dettagli medici) che la manda in coma. Lui la aspetta. Lei si risveglia, dopo molto tempo, ma ha dimenticato tutto, è come una neonata, e deve ripartire da zero (eccellente l'interpretazione naturalistica di Tsuchiya Tao); lui, Hiroshi, continua ad aspettarla, seguendola durante la riabilitazione. Un dettaglio molto indovinato: all'inizio della “rinascita” lei riconosce Hisashi in una foto mostratale dalla madre – ma lo chiama Hisashi-san, e l'uso della particella onorifica ci fa sentire in modo palmare come non ricordi il rapporto d'amore che c'era prima.
The Blood of Wolves di Shiraishi Kazuka è una versione deviante del genere poliziesco buddy-buddy (due che si odiano e poi cooperando diventano amici): i personaggi sono quelli canonici (il vecchio piedipiatti cinico, non alieno dalle bustarelle, e la recluta appena uscita dall'università); ma in primo luogo questa alchimia non si forma se non a posteriori, e inoltre sia i personaggi sia lo svolgimento sono esagerati in modo barocco (non senza un adorabile humour gaglioffo). Basta dire che il film si apre col culo di un maiale che defeca per capire che siamo fuori dal solito thriller elegante: il film si caratterizza per un gusto eccessivo (puro Dick Tracy, direbbe Orson Welles), e il grottesco è la forma sotto la quale sviluppa con rigore un plot noir che di passaggio accenna a un tema politico: il legame dei gangster con l'estrema destra giapponese.
Infine, il fanta-horror Yocho (Foreboding) di Kurosawa Kiyoshi: l'editing per il grande schermo di una serie televisiva di 200 minuti. I tagli si sentono, in una certa secchezza narrativa e di montaggio; l'ironia poi salta fuori solo nella parte finale; una battuta del micidiale alieno, quando tentano di ucciderlo, è divertentissima ma essendo il film mortalmente serio rischia di fare un effetto di anticlimax.
Gli alieni stanno preparando l'invasione della Terra e la distruzione dell'umanità. Uno di loro è sceso sulla Terra in avanguardia, appropriandosi del corpo di un medico giapponese (Higashibe Masahiro, ottimo): ha lo scopo di impadronirsi dei “concetti” degli umani (famiglia, paura, odio ecc.), che “ruba” telepaticamente lasciandone prive le vittime.
Kurosawa Kiyoshi ha sempre avuto un sottofondo “filosofico”. E' affascinante quest'idea dei “concetti” come strutture conoscitive base degli esseri umani. Molto bello lo sviluppo iniziale sulla famiglia, che è il primo concetto a essere rubato: ricorda (a rovescio) L'invasione degli ultracorpi. E' invece un'ingenuità, benché necessaria al plot, che fra questi concetti l'amore venga scoperto per ultimo. Ritorna la capacità di Kurosawa di creare un senso di ambiguità e suspense nella normalità, e di trasferirne l'effetto sugli spettatori. La fotografia è molto buona, ossessivamente piena di framing, in una sorta di estetizzazione della paura.
Due delusioni sono The Name di Toda Akihiro, un esercizio di pirandellismo di serie C, e ancor più il puerile Inuyashiki di Sato Shinsuke.

Spostiamoci in Corea. L'ottimo Little Forest di Yim Soon-rye è un delicato film sentimentale, che ricorda in piccolo i film di Eric Rohmer degli anni Ottanta. Dopo aver fallito gli esami a Seoul una ragazza torna alla casa di campagna dove viveva con la madre; quando lei era andata via per studiare, anche la madre se n'è andata per vivere la propria vita, e il tema sotteso è appunto il rapporto di lei col ricordo della madre dalla quale si sente abbandonata. Contemporaneamente il film racconta con leggerezza della sua nuova vita sentimentale al villaggio: un legame tra lei, la sua migliore amica e un giovane agricoltore da cui sono entrambe attratte. Però senza drammaticità, sia perché la loro antica amicizia vince su tutto sia perché nessuno dei tre fa la mossa di dichiararsi apertamente. C'è quindi un'“apertura” che rifugge da soluzioni drammaturgiche, e dà al film un che di aereo.
Questo è il plot, ma il filo rosso del film è il cibo: la preparazione accuratamente descritta di varie pietanze, tutte vegetariane, provvede uno “scheletro” che sorregge tutta la storia. Anche al di là di questo elemento strutturale il film possiede un forte senso della natura e della concretezza delle cose, che trova una significazione morale nel suo discorso sull'agricoltura come metafora della vita.
Notevolissimo è Last Child di Shin Dong-seok (vedi scheda sotto), al pari di The Running Actress, confessione privata con un umorismo venato di amarezza della diva coreana Moon So-ri (l'indimenticabile interprete di Oasis, per citare un solo titolo) alla sua prima regia. In tre episodi l'attrice riflette, tra fiction e autobiografismo, sulla sua condizione nel cinema e nella società – per esempio sulla tensione di conciliare lavoro e maternità e sulla difficoltà di trovare parti importanti quando non si è più giovanissime.
Il film vincitore del premio del pubblico, 1987: When the Day Comes di Jang Joon-hwang, è un dramma politico alla Z – L'orgia del potere su fatti reali. Dopo la morte sotto waterboarding di uno studente al tempo della dittatura militare di Chun Doo-hwan, il tentativo di insabbiare l'assassinio fallisce e le manifestazioni per la democrazia scuotono le fondamenta del regime. Sorretto da buone interpretazioni, il film ha un forte contenuto empatico, anche se lo indebolisce l'inserimento forzato di una storia sentimentale.
The Battleship Island – Director's Cut di Ryoo Seung-wan, terzo premio del pubblico, è un super-blockbuster ambientato durante la guerra su un episodio di crudele sfruttamento della manodopera coreana da parte dei giapponesi e la successiva rivolta: indubbiamente sovraccarico ma emozionante. Opportunamente il FEFF ha approfittato per recuperare l'eccellente Veteran, dello stesso regista, del 2015.
Altro blockbuster, Steel Rain di Yang Woo-seok sviluppa con vigore una trama di action fantapolitica (divertenti i trucchi per non mostrare il viso di Kim Jong-un, portato ferito e in coma a Seoul dopo un tentativo di colpo di stato da parte di militari nordcoreani più pericolosi di lui). Da citare un tocco assai bello: in un film che – "coreanamente" – sulla violenza non fa sconti (la scena dello scoppio del missile lanciato dai cattivi è quasi intollerabile), quando nel finale il co-protagonista nordcoreano si fa tracciare affinché un missile possa distruggere con lui il super-cattivo a capo del golpe, ci aspettiamo di vedere una mega-esplosione e invece il film va in una solenne ellissi. Così rende ancora più commovente il suo sacrificio, che permette l'instaurarsi di un processo di pace fra i due paesi.
Fra i vari polizieschi e gangster movies cito innanzitutto A Special Lady di Lee An-gyu (vedi recensione) con la splendida Kim Hye-soo. E poi il bizzarro, piacevole The Chase di Kim Hong-sun: di solito i gialli hanno come protagonisti dei giovani o degli anziani di aspetto giovanile; qui abbiamo un'improbabile coppia di vecchietti; il protagonista è malridotto anche a prima vista, mentre il secondo, un ex poliziotto, è un duro ma anche lui non risalta come fiore di gioventù. Nonostante l'età dei due, il film è pieno di mazzate. A proposito di età: delizioso un inseguimento a piedi (un topos dei polizieschi coreani) fatto camminando, perché il vecchio non ce la fa più e il giovane inseguito ha una gamba azzoppata – che verrà ripreso in toni più drammatici verso la fine.
Meno interessante The Outlaws di Kang Yoon-sung, nonostante la simpatia dell'interprete Ma Dong-seok (Train to Busan). L'horror lo rappresentava Gonijam: Haunted Asylum di Jung Bum-shik. Tre ragazzi e tre ragazze, col regista che li dirige da una tenda vicina, esplorano un luogo infestato, un manicomio abbandonato, in diretta online. E' ovvio che nei film POV, detti anche found footage, la questione è sempre “chi filma?”; Gonijam risponde abbastanza bene a questo problema che crocifigge il (sotto)genere. A un certo punto il regista, vedendo il monitor, si chiede terrificato “Sono tutti lì insieme... ma allora chi sta filmando?” – un modo per ammettere l'ambiguità portandola in primo piano. Fra l'altro il “chi filma?” si applica anche a quello (“non POV”) che vediamo accadere dentro la tenda di regia. C'è poi un'ambiguità che si riferisce alla recitazione: vediamo fenomeni misteriosi e paurosi – solo che i tre maschi sono d'accordo col regista per imbrogliare fabbricando false manifestazioni all'insaputa delle ragazze, che servono solo a terrorizzarsi. Questa verità è gestita abilmente dalla sceneggiatura, per cui sul momento non sappiamo mai cosa sia imbroglio e cosa sia autentica manifestazione spettrale.
Esiste certo un problema di originalità, non solo rispetto a Il mistero della strega di Blair, che suggerisce alcuni topoi visuali. In realtà il film è talmente, come dire, “ispirato” da essere quasi un remake non autorizzato da ESP – Fenomeni paranormali dei Vicious Brothers (Colin Minihan & Stuart Ortiz), e probabilmente lo ammette in un'inquadratura che sembra una citazione diretta. Comunque ci si diverte molto.

Il terzo grande cinema del Far East è Hong Kong – purtroppo quest'anno sottorappresentato. Commuove il piccolo film in b/n No. 1 Chung Ying Street di Derek Chiu che mettendo insieme le manifestazioni pro-Cina e anti-inglesi del 1967 e un'ipotetica protesta del 2019 contro la speculazione edilizia sostenuta dal governo rende omaggio al popolo hongkonghese e porta avanti una coraggiosa protesta politica. Mi spiace di non avere ancora visto The Empty Hands di Chapman To. Ma per gli spettatori del FEFF il cinema hongkonghese è legato per sempre al nome del grande Johnnie To, di cui il FEFF ha presentato il restauro di un film immeritatamente poco noto quale Throw Down.
Com'è noto, nel cinema di Hong Kong hanno sempre più peso le coproduzioni Hong Kong-Cina. In questo campo segnalo il notevole Out Time Will Come: in genere si pensa ad Ann Hui come a una regista di drammi intimisti ma nella sua carriera questa grande regista si è cimentata con vari generi. Questo è un dramma di guerra sulla resistenza anti-giapponese a Hong Kong. Anche su questo piano, non dico epico, ma patriottico Ann Hui mostra la sua capacità di attenzione ai piccoli dettagli: e il rapporto fra la protagonista e sua madre (l'ottima Deanie Ip), che è il filo conduttore, illustra assai bene l'abilità della regista nel fare un cinema di sfumature psicologiche. Pure le classiche battute patriottiche proprie di questo genere di film suonano vive e autentiche sulla bocca dei personaggi di Ann Hui.
Operation Red Sea di Dante Lam, un action con un pugno di soldati della Marina cinese contro terroristi mediorientali, non è al livello del suo precedente Operation Mekong. Le sequenze di combattimento sono buone, abbastanza emozionanti e passabilmente crudeli, ma il problema è che questo gruppo eroico è anonimo. Nonostante qualche sforzo della sceneggiatura, il film non riesce a dare ai soldati una reale identità: gli interludi di chiacchiera fra un combattimento e l'altro sono disastrosi. Ma perché ciò danneggia il film, posto che allo spettatore interessano gli scontri e non le psicologie? Semplice: questi soldati cinesi sono iper-eroici (7 contro 150) e siccome la loro potenza in combattimento sorpassa i limiti del plausibile, la nostra “sospensione dell'incredulità” avrebbe bisogno, per attivarsi, di figure dotate di concretezza umana (e questa è la lezione del cinema action americano, anche il più fanfarone).

I difetti di Operation Red Sea non si trovano in un film analogo, il pomposo ma emozionante Wolf Warrior II di Wu Jing (vedi scheda sotto) – con il quale passiamo dai film China/Hong Kong a quelli della Cina continentale. I film di quest'anno mi sembrano confermare un momento danaroso ma non eccessivamente felice del cinema cinese (mi spiace però di non aver ancora visto l'apprezzato Wrath of Silence di Xin Yukun). Anche un grande come Feng Xiaogang con Youth non raggiunge i risultati assai alti del suo recente I Am Not Madame Bovary, e nella prima parte, sugli anni della rivoluzione culturale, si impantana alquanto, pur mantenendo un buon livello formale; il lunghissimo film migliora nella seconda parte. Forse migliore, anche se non eccezionale, Love Education di Sylvia Chang, un buon film sentimentale assai ben interpretato, con delle belle idee (il “doppio spostamento” finale). Never Say Die di Song Yang e Zhang Chiyu è sicuramente divertente ma non brilla per originalità (anche la parodia della scuola di kung fu, che è il momento migliore, si rifà a modelli hongkonghesi). City of Rock di Da Peng è alquanto gonfio e tedioso.
Meglio la buona vecchia strada dei film in costume. Brotherhood of Blades II: The Infernal Battlefield di Lu Yang è un buon wuxiapian dal ritmo serrato, impreziosito dall'elegante fotografia. The Legend of the Demon Cat di Chen Kaige è molto bello, e riporta quella capacità di messa in scena vigorosa ed estetizzante che caratterizza il regista. Sebbene tratto da un romanzo (giapponese) contemporaneo, si libera delle tentazioni “di aggiornamento” più o meno revisionistico dell'horror-fantasy di oggi per ricollegarsi al puro fiabesco cinese stile I racconti fantastici di Liao. Il monaco giapponese Kukai e il poeta cinese Bai Juyi (personaggi storici) investigano sulle malefatte del demon cat e, di lì, sulle circostanze della morte di una concubina dell'imperatore trent'anni prima. Il sottofondo mélo del racconto, che emerge in particolare nella seconda parte, è sottilmente espresso attraverso le espressioni dei bravi Abe Hiroshi e Sandrine Pinna. Il gatto-demone parlante del titolo è assai ben realizzato come personaggio, attraverso un abile misto di effetto Kulešov e di CGI.

Fra i film di Taiwan sono riuscito a vedere solo Gatao 2: Rise of the King di Yen Cheng Kuo, una buona gangster story dai colori acidi e surreali molto taiwanesi invero.
Per Singapore menziono Diamond Dogs di Gavin Lim: exploitation pura e molto divertente, con un eroe prigioniero nutrito di cibo per cani e costretto a battersi in combattimenti a morte da filmare per il piacere dei ricchi del pianeta; con un supercattivo (Andie Chen) che gigioneggia alla grande; e con una dottoressa sadica che sembra la nipote rotondetta di Ilsa la belva delle SS, ed è interpretata con gusto dalla pornostar Okita Anri. La trasformazione dell'uomo in mostro attraverso le droghe offre l'occasione di un accenno a Frankenstein (la scena in cui si avvicina a sua figlia legata sembra un Terence Fisher delle “pratiche basse”). Niente di nuovo come idee, naturalmente, ma una realizzazione “sinvergüenza” che potrebbe ricordare il Roger Corman più estremo: darci dentro senza vergogna e cogliere l'occasione per divertirsi: ogni tanto ci scappa qualche esempio di humour perverso, di cui l'esempio migliore è lo scherzo sui film di Tsai Ming-liang.

Dalle Filippine arriva uno dei film più belli del festival: The Portrait di Loy Arceñas (vedi scheda sotto). L'interessante cinema filippino si difende bene anche con Chedeng and Apple di Rae Red e Fatrick Tabada: una sorta di Thelma & Louise omosessuale in chiave di commedia nera, in cui due donne anziane diventano criminali (moralmente giustificate) e fuggono alla ricerca della amante giovanile di una di loro – portandosi dietro la testa del marito manesco dell'altra in una borsa Louis Vuitton. Molto divertente e molto umano, si conclude con un fermo immagine che allegramente paga il suo debito rendendo omaggio in chiave scherzosa al film di Ridley Scott.
Da menzionare poi Smaller and Smaller Circles di Raya Martin, un buon thriller cupo che ricorda l'atmosfera nerissima di certi film americani di Friedkin e Fincher. Il fatto che i due investigatori (a caccia di un serial killer) siano due gesuiti è di stimolo per introdurre lateralmente il discorso dei preti pedofili: un viscido cardinale li protegge spostandoli di zona. Non manca una descrizione sentita della povertà nella capitale filippina.
Per la Thailandia menziono Bad Genius di Nattawut Poonpiriya (un ingegnoso metodo escogitato per imbrogliare agli esami universitari di inglese si rovescia in un'atmosfera thriller) e il solido, convincente horror The Promise di Sophon Sakdaphisit, che come molti buoni horror ha per tema di fondo il dolore umano. E' anche interessante perché introduce, in modo originale per una ghost story, il tema della crisi economica thailandese di fine anni '90. La sceneggiatura è attenta e la messa in scena accurata. Gli elementi spettrali non sono inediti ma sono discretamente inquietanti (da segnalare la sequenza del bambino-medium). Ha un ruolo importante la location: il cuore dell'infestazione è un vecchio enorme edificio la cui costruzione è stata interrotta vent'anni prima, una torre di cemento piena di graffiti, che fornisce uno scenario davvero memorabile.

E chiudiamo con l'Indonesia, segnalando due film diversissimi ma entrambi degni (ho perso My Generation di Upi). Satan's Slaves di Joko Anwar, remake di un classico dell'horror indonesiano, specie nella prima parte fa davvero paura. Merito di un plot ben intessuto (bello come in un passaggio cruciale viene ripreso e rivitalizzato l'elemento abusato del sogno) ma soprattutto dell'ottima regia di Anwar – per esempio, l'uso del riquadro delle porte aperte come “finestra” per l'azione, lungo tutto il film, è davvero notevole. In sintesi: una cantante un tempo famosa è malata da anni e giace a letto presso la propria famiglia impoverita; muore e fin da subito cominciano fenomeni spettrali in questa casa in confronto alla quale la casa di Psycho è Mulino Bianco. La scenografia è eccellente; sto pensando in particolare a uno stretto corridoio con appesa sul fondo una terrificante foto incorniciata della cantante, che sembra guardare verso il basso: con buon effetto poiché fra i protagonisti/vittime del terrore ci sono due bambini. Il film parte dunque come una storia di fantasmi; in seguito si sviluppa come una storia di satanismo e operazioni demoniache, con un grande finale di invasione dei morti viventi ancora avvolti nei loro sudari come i pocong.
Night Bus di Emil Heradi, che non a caso ha avuto l'onore di chiudere il festival, è un film assai importante. E' la cronaca di un autentico viaggio all'inferno in forma del viaggio di un autobus in una regione (immaginaria) devastata dalla guerra tra esercito e separatisti. Lo attraversa una cupezza minacciosa (viene da pensare a Henri-Georges Clouzot) con lampi di umorismo che si riducono e scompaiono man mano che ci si addentra in quest'atmosfera di pura “notte dell'anima”. E infatti è eccezionale l'uso del buio e della penombra, che riesce a rendere delle impressioni sensoriali quasi inedite. La spietatezza oppressiva della situazione non risparmia nessuno, in un film assolutamente disperato.

E' un articolo troppo lungo, questo, ma è un festival ricchissimo. Ne fanno parte ancora i documentari, i film d'avanguardia cinesi, i corti dei giovani hongkonghesi, e i restauri (come il bellissimo Tampopo di Itami Juzo e il capolavoro Himala di Ishmael Bernal). Il premio alla carriera alla grande Brigitte Lin Ching Hsia è stato accompagnato da una retrospettiva che ci ha permesso di vedere o rivedere grandi film... Wong Kar-wai, naturalmente, Ronny Yu, Raymond Lee, ma in chiusura vorrei menzionare una (personale) scoperta con lo splendido Red Dust di Yim Ho. 

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