Non privo di difetti ma
interessante, certo inferiore all'ottimo Easy di Andrea
Magnani che in qualche modo è analogo, Hotel Gagarin di
Simone Spada inizia in Italia con una italianissima coppia di
magliari. Un politico cialtrone incontra un piccolo imbroglione suo
amico, Maurizio Paradiso (Tommaso Ragno), e gli propone una truffa:
ottenere un finanziamento europeo (di cui lui si terrà una fetta)
per un film italiano da girare in Armenia; intascati i primi soldi,
la produzione sparirà lasciando al suo destino la troupe. Così
Paradiso assume i primi dilettanti senz'arte né parte che trova per
strada, fra cui una prostituta che dovrebbe diventare la star, li
affida a una sua complice (che peraltro conta di fregare) e li
spedisce fra le nevi armene. Il regista sarà un innocente professore
cinefilo (Giuseppe Battiston), gustosa vignetta di insegnante barbuto
e capelluto che cerca di interessare alla storia e al cinema i suoi
studenti demotivati costringendoli a vedere Sokurov e i fratelli
Taviani, con deprecabili risultati. Viene riempito di complimenti per
una sceneggiatura che in realtà nessuno ha letto, e ci casca come
una pera; non per nulla il suo nome è Nicola Speranza.
Sempre sensibile nelle
sue interpretazioni, Giuseppe Battiston ha un'imponenza fisica che
gioca a fini espressivi: ora giganteggia come una nave, nei momenti
di confidenza (o auto-illusione), ora sembrare stringersi in un
accesso di timidezza. E da quel corpaccione fa uscire una voce tutta
di testa, flautata, ad effetti comici perfino chioccia, che
“ritaglia” le battute e le mette in rilievo. Nota in margine: qui
è perfetto per la parte, però si vorrebbe che il cinema italiano
usasse quest'eccellente attore in tutta la sua gamma, quale si può
vedere in teatro (ricordo per esempio un suo memorabile Macbeth).
Tutti questi
sciamannati (un'Armata Brancaleone del cinema se mai ne abbiamo vista
una) sono accomunati dal desiderio della fuga oppure dall'illusione –
ma sono poi due cose così diverse? E così finiscono in mezzo al
nulla, a millanta gradi sotto zero, nel deserto Hotel Gagarin; dove
però resteranno imprevedibilmente bloccati per due mesi da una
guerra scoppiata fra l'Armenia e l'Azerbaigian.
Il film si articola su
due linee narrative. La prima è tradizionale, ed è la descrizione
ironica delle vittime della truffa e della loro reazione. Sono,
queste, figure tradizionali della commedia italiana: in primo luogo
la prostituta ingenua e cuor d'oro, erede di una lunghissima
tradizione da Cabiria in poi; seguono un proletario triste e un
sottoproletario sfumazzato, che servono a fornire quel tanto di
romanesco senza di cui il nostro cinema pare non possa vivere;
abbiamo già detto della truffatrice truffata e dell'ingenuone
angelico perso fra le sue nuvole personali. Però bisogna aggiungere
che alla prevedibilità degli stereotipi si contrappongono, e in
qualche modo li salvano, delle belle interpretazioni: Silvia D'Amico,
la prostituta, Barbora Bobulova, la complice della truffa, e
naturalmente Battiston; cui possiamo aggiungere l'attrice bielorussa
Caterina Shulha nel ruolo di una metallara incinta che fa da autista
e interprete.
Com'è di regola in
questo genere di film (il cinismo di Risi o l'ironia acre di Germi e
di Salce appartengono al passato), allo sconcerto quando emerge la
realtà della truffa segue un processo di maturazione delle vittime.
Ciascuno di loro ne esce trasformato in meglio: in un paio di casi la
fuga si trasforma in una nuova vita, e anche gli altri ripartiranno
per l'Italia più forti e più saggi di quand'erano arrivati.
L'aspetto intelligente
del film è che questa crescita personale delle “vittime” non si
deve direttamente alla loro disgrazia. C'è un motivo concreto, che
introduce un particolare senso di umanità; e infatti è qui che
Hotel Gagarin prende ala. Nella solitudine dell'hotel fra le
nevi emerge, come già accennato, una seconda, più originale linea
narrativa. Complice un amabile fantasma (Philippe Leroy), l'argomento
del film si rovescia in un altro: diventa un'esaltazione del cinema
stesso come produzione di magia. Ispirato dall'antica fama del cinema
italiano, si presenta un vecchietto del paese vicino, che da sempre
ha un sogno: vorrebbe diventare Yuri Gagarin: filmare un re-enacting
del volo di Gagarin del 1961 con lui stesso nella parte dell'eroe. In
uno sbocco di gentilezza, nato magari dalla disperazione, lo
accontentano, ricostruendo con mezzi poveri, fra l'artigianale e il
simbolico, il suo volo sulla Vostok 1. Ed ecco che si presenta
all'albergo un fiume di paesani del villaggio vicino, ciascuno col
suo sogno nel cassetto: chi vuole rifare scene e personaggi
cinematografici, dai duelli di Sergio Leone a Humphrey Bogart; chi
vuole trasferire su pellicola il desiderio della sua vita: una
ragazzina vuol essere un'étoile del balletto, un bambino andare a
New York, due vecchietti vogliono registrare su pellicola l'amore
eterno, e così via.
Il film gioca con
abilità sul grottesco della situazione con questi visi estremamente
autentici (evidentemente locali non professionisti) – volti
contadini, vissuti, barbuti, vecchie contadine col fazzoletto in
testa – e col metodo ultra-artigianale con cui i nostri
cinematografari improvvisati realizzano i sogni richiesti, mettendoli
in scena con delle costruzioni scenografiche elementari che avrebbero
fatto vergognare Méliès, ma che servono allo scopo. C'è certamente
il ricordo di Fellini qui; però riguardo a questa scelta di evocare
il cinema riproducendolo con mezzi elementari, e però che
paradossalmente non lo negano ma ne riproducono la magia, mi sembra
si possa richiamare il film di Michel Gondry Be Kind Rewind.
Il
peggior difetto di Hotel Gagarin
salta fuori in alcuni dialoghi: ogni tanto rispunta il solito
elemento oratorio, edificante, confessionale del cinema italiano,
tipo “Io ho sempre vissuto una vita fredda e senza cuore, priva
d'amore e di considerazione verso il prossimo” - “Anch'io, ma
oggi finalmente abbiamo preso coscienza” (questa è parodia,
beninteso, ma non così distante dal vero). Per fortuna questi
momenti sono rari, e si perdono nel flusso del racconto; però quando
spuntano si avvertono come stonature. Ma questo vizio del cinema
italiano si perdona, ed arriva un'autentica commozione, quando –
molto ben gestite, nella loro enunciazione inframmezzata ai titoli di
coda – appaiono le immagini, in tutta la loro poetica naïveté,
di questi filmati che hanno resa felice la gente del villaggio.
Davvero il cinema, per parafrasare il Bardo, è fatto della materia
di cui son fatti i sogni.
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