Questo
piccolo saggio è stato pubblicato solo in traduzione spagnola nel
2008 in Antología
del cine fantastico italiano,
numero speciale della rivista Quatermass,
a cura di Javier G. Romero. Forse ha qualche interesse ripubblicarlo
in italiano, anche se si ferma a quell'anno (come mostra per esempio
l'assenza di Lorenzo Bianchini). Il modo riassuntivo con cui sono
esaminati i grandi nomi dell'horror italiano è dovuto al fatto che a
ciascuno di essi era dedicato un saggio specifico nel volume.
Non
si può parlare di una tradizione fantastica nella letteratura
italiana dell’Ottocento: l’Italia non partecipa alla grande
fioritura del fantastico europeo. Il peso del classicismo, del
razionalismo illuminista, della tradizione cattolica, di un
romanticismo ancorato a temi morali e politici (è il secolo
dell’unificazione nazionale) e dell’idealismo danno alla
letteratura italiana un’impronta concreto-pedagogica. Questa
tuttavia ha un’origine più antica: da secoli la cultura italiana
non è propensa a riconoscere come valore quello che Roland Barthes
chiamerà il piacere
del testo. Conviene
ricordare questo sospetto verso il principio di piacere per
comprendere l’ostilità sprezzante con cui la critica
cinematografica degli anni ‘50/’60, marxista o cattolica,
accoglierà la grande stagione del cinema di genere italiano.
Nondimeno, esiste,
come un fiume sotterraneo, una corrente notturna e gotica nella
letteratura italiana. E’ ben visibile l’elemento gotico e crudele
nel romanzo storico ottocentesco, un genere largamente frequentato,
che volentieri guarda agli angoli più inquieti e crudeli della
storia italiana, come il sacco di Roma o il caso di Beatrice Cenci.
Perfino I promessi
sposi di Alessandro
Manzoni presenta un elemento romantico-gotico, via via attenuato (ma
mai scomparso) nelle tre redazioni (1823, 1825-27, 1842).
Più
tardi nel secolo, elementi “neri” verranno dal movimento
letterario della Scapigliatura e dal decadentismo. Bisogna ricordare
in questo periodo il romanzo Malombra
di Antonio Fogazzaro (destinato a due importanti riduzioni
cinematografiche). E’ forte infine nell’Ottocento letterario
italiano una presenza del fiabesco, che sarà tra le componenti del
capolavoro fantastico del secolo, il Pinocchio
di Carlo Collodi.
A
livello di “pratiche basse” della letteratura questa corrente
notturna rispunta nel feuilleton,
dove Carolina Invernizio è il nome più importante se non il più
valido: dai suoi romanzi il cinema popolare trarrà spesso linfa (in
particolare da Il bacio
di una morta). Anche
il grande autore avventuroso Emilio Salgari (morto suicida nel 1911),
benché frequenti limitatamente il fantastico stricto
sensu, costruisce una
specie di universo onirico, scandito da descrizioni
antropologiche/biologiche/botaniche tanto accurate in apparenza
quanto improbabili, in un delirio surreale di accumulazione
onomastica. Non si potrebbe sopravvalutare il peso che ebbe Salgari
nel formare l’immaginario collettivo dell’Italia
post-unificazione, nonché la sua influenza sul cinema italiano.
Bisogna infine tener
conto di una forza profondissima, fondamentale nel formare la cultura
italiana dell’Ottocento e conseguentemente del Novecento: il
melodramma operistico, dove l’elemento gotico è fortemente
presente. Se non si capisce questa tradizione sotterranea, non è
possibile comprendere come mai, a fine anni ’50, il cinema
fantastico in Italia sembri nascere all’improvviso come Minerva
dalla testa di Giove.
Il
cinema muto italiano (1)
è
molto legato
all’eredità del romanzo, del teatro, del melodramma, nonché alla
tradizione pittorica; per esempio il peplum
(ma il nome sarà coniato dalla critica francese negli anni ’50),
un punto di forza di questo cinema, deve la sua imagerie
ad Alma-Tadema e alla pittura accademica di fine secolo. Non risponde
al vero la diffusa affermazione che da questo cinema sia
sostanzialmente
assente il fantastico. Il proto-film fantastico La
malia dell’oro
(1905), del pioniere del cinema italiano Filoteo Alberini, è una
pantomima (nel quadro “L’antro del Genio del Male” assistiamo a
una “Danza delle passioni”). Sono diffuse le storie morali con
fantasma accusatore quale simbolo della coscienza: Lo
spettro (1907)
di Gaston Velle,
girato per la Cines di Roma, dà il via a un filone di melodrammi con
fantasma che appare al proprio assassino (L’ombra,
Il fantasma,
L’ombra del morto,
La valanga di
fuoco...).
Va
menzionata l’importante figura di Arrigo Frusta, soggettista e
sceneggiatore dal 1908 al 1923, per lo più per la casa produttrice
Ambrosio di Torino. Anche attore, regista dei primi documentari di
alta montagna del cinema italiano, Frusta è noto per l’attenzione
alla scenografia, dove pretende la realtà invece dei fondali. Ha un
penchant
per il fantastico e scrive numerosi film del genere, fra cui La
madre e la morte e La
fanciulla di neve. Da
La maschera della Morte
Rossa di Edgar A. Poe
Frusta sceneggia Maschera
tragica (1911),
spostando l’azione a Napoli e inserendovi una conclusione
religiosa. Nel coevo Il
pozzo e il pendolo (non
suo) è una rivolta popolare ad aver ragione dell’Inquisizione.
Il
cinema italiano offre trascrizioni di poemi e leggende, racconti
mitologici e religiosi, film fiabeschi, allegorie; non si può non
ricordare qui Satana
(1912) di Luigi Maggi che, col Satanas
di Murnau, influenzerà Pagine
dal libro di Satana di
Dreyer. Ma
incontriamo anche morti rianimati, mummie che rivivono, bizzarri
trapianti, uomini invisibili, ipnotizzatori. C’è una tendenza a
declinare il fantastico in tono morale o sentimentale, o come spunto
per un mero svolgimento avventuroso; però per esempio viene
francamente pubblicizzato come “il dramma che impressiona”
L’altro io,
1917, di Mario Bonnard, che si dichiara ispirato a Oscar Wilde: la
sostituzione di un pezzo di cervello con quello di un delinquente
modifica il comportamento di un uomo. Spesso questi film ricorrono
all’espediente del sogno.
Rapsodia satanica
(1917) di Nino Oxilia,
con Lyda Borelli, pregiato per le sue scene di ispirazione pittorica,
è una riscrittura al femminile della storia di Faust: una baronessa
fa un patto col diavolo per tornare giovane e bella. Questa scelta di
sesso anticipa quel protagonismo femminile che poi sarà
caratteristico dell’horror italiano, e che infatti trova nella
tradizione melodrammatica del muto una delle sue ragioni. A tal
proposito, conviene citare, sempre del 1917, La
vergine dei veleni di
Enrico Vidali (da Carolina Invernizio) dove uno scienziato geloso
trasforma una ragazza, a sua insaputa, in una avvelenatrice tramite
il bacio: ecco spuntare qui il mito della Giftmädchen - anche se per ovvii motivi l’organo avvelenatore è la bocca e
non la vagina.
Il
cinema avventuroso presenta supercriminali e società segrete (è
molto diffuso lo spunto dei club di stravaganti, stile Il
club dei suicidi di
Stevenson). “Deraglia” nell’avventuroso nella seconda parte,
dopo una prima parte fedele a Collodi, il bel Pinocchio
(1911) di Giulio Antamoro, dove il burattino è interpretato da
Polidor. In vari film si ritrova un tocco fantascientifico in
mirabolanti invenzioni il cui furto scatena lo sviluppo; ne La
città di vetro è un
raggio che fa vedere dentro gli edifici, ne Il
fantasma dei laghi il
raggio Z che è in grado di fermare i motori, ne
Il mistero dello scafandro grigio
la smaterializzazione. A parte una forte componente futuristica nelle
comiche, la fantascienza è meno frequentata, ma non assente;
ricordiamo qui l’eccellente commedia Matrimonio
interplanetario (1910)
diretta dallo scrittore Enrico Novelli, alias Yambo.
Fra
i film d’argomento criminale, si trovano anche “gialli” con
venature di tipo grandguignolesco. Ne sono esempio Rigenerato
(1920) di Giulio Donadio, con un impiccato che torna a vivere, o Il
cadavere scomparso
(1916) di Telemaco Ruggeri, in cui uno scultore nasconde il corpo
dell’uomo assassinato dentro una statua: sembra un’anticipazione
de La maschera di cera!
La critica dell’epoca rilevò l’implausibilità della messa in
scena: quando il cadavere viene scoperto, non c’è traccia di
decomposizione.
In
quella derivazione dal peplum
che è il cinema dei
“forzuti” (Maciste, Ursus, Sansone, Ajax, Saetta, Galaor), attivo
anche durante la crisi del cinema muto italiano negli anni ‘20,
rientra Il
mostro di Frankenstein
(1920) di Eugenio Testa. Che si presenta come tratto dal romanzo di
Mary Shelley (anche se la costruzione del mostro avviene per via
chimica e non chirurgica), ma sintomaticamente è Sansone che
sconfigge il mostro. Osserva una critica dell’epoca: le didascalie
sottolineano il carattere totalmente bestiale del mostro, ma quando
si viene allo scontro, costui mostra di possedere nozioni di lotta
greco-romana! Ma il capolavoro fantastico del genere è Maciste
all’inferno (1926)
di Guido Brignone. Maciste
all’inferno è, per
citare ancora una critica di allora, “un impasto di grottesco, di
gentile, di sentimentale, di fantastico, di comico e di tragico [...]
col concorso di una serie impressionante di trucchi”. Gli effetti
speciali erano di Segundo de Chomòn, il quale dopo essere stato un
fondatore del fantastico spagnolo diede un grandissimo apporto al
cinema italiano, collaborando con Giovanni Pastrone (Cabiria,
Tigre reale,
Hedda Gabler);
tra i pochi film diretti da de Chomòn, è da ricordare qui La
guerra e il sogno di Momi
(1917). Anche Maciste
all’inferno - con la
sua esibizione di bellezze infernali in un contesto dantesco - ebbe i
suoi problemi con la censura.
Infatti il cinema
muto italiano è sottoposto alla fortissima presenza di una censura
particolarmente ottusa. Si ritrova spesso nelle recensioni del tempo
la constatazione di come i tagli rendano i film incomprensibili. La
censura impone alla produzione di tagliare o attenuare (un termine
ricorrente nel linguaggio censorio è: ridurre a “fugace visione”)
non soltanto l’erotismo e la violenza esplicita, ma anche la
rappresentazione esplicita di atti di delinquenza (in un caso fa
togliere l’immagine di una mano che falsifica una cambiale!), di
qualsiasi situazione imbarazzante per le istituzioni e le autorità
anche estere, nonché naturalmente di riferimenti politici sgraditi,
come la lotta di classe. Fra i film delle cui scene la censura chiede
l’attenuazione troviamo Il
demone occulto (1918,
di Valentino Soldani), antenato dell’Esorcista,
con un’ossessa
liberata alfine dall’apparizione della Madonna, o L’incubo
(1922, di Giuseppe Sterni), una storia di reincarnazione. Perfino la
spiritosa commedia L’uomo
che dormì 130 anni
(1922, di Arturo Rosenfeld) - dove un nobile disgustato dalle
crudeltà della rivoluzione francese grazie al mago Cagliostro dorme
fino ai nostri giorni, scoprendo però che anche oggi non c’è da
stare allegri - ebbe a che fare con la censura che vedeva toni
politici in alcune didascalie.
Il
ventennio della dittatura fascista vede dopo il 1930 una rinascita
del cinema italiano, che aveva attraversato una disastrosa crisi
negli anni ’20. Tuttavia in questa rinascita non c’è posto per
il fantastico; censura a parte, in generale il fantastico non fa
appello allo spirito del cinema italiano dell’epoca, dove la
produzione prevalente come successo di pubblico sono le commedie.
Fa
eccezione - come sempre - la vulcanica personalità di Alessandro
Blasetti, eterno rivoluzionario del cinema nazionale. Non solo nei
suoi film spuntano elementi di crudeltà ed erotismo che richiamano
la corrente “notturna” della cultura italiana, ma Blasetti non è
alieno dal fantastico. Tratta di uno sdoppiamento di personalità Il
caso Haller del 1934,
ma soprattutto è un unicum
per il cinema italiano dell’epoca La
corona di ferro (1941).
In questo film prodotto dalla innovativa Lux di Riccardo Gualino,
Blasetti reinventa suggestioni e motivi della mitologia, del
melodramma, del film storico, concretizzando un Medioevo immaginario
in una dimensione che oggi definiremmo fantasy.
Oltre all’estremismo tipicamente blasettiano del film, si fa notare
il suo spirito pacifista. E’ presentato, in piena guerra, alla
Mostra del Cinema di Venezia, dove lo vede Josef Goebbels e commenta
che se il film fosse stato di un regista tedesco lo avrebbe fatto
fucilare. Anche nel dopoguerra Blasetti continuerà una carriera di
inventivo innovatore.
Negli ultimi anni
del fascismo, troviamo un elemento gotico e perturbante in alcune
delle raffinate opere del gruppo dei cosiddetti “calligrafici”
(Poggioli, Soldati, Chiarini, Castellani, Lattuada), particolarmente
dediti alla trascrizione cinematografica di opere letterarie e
teatrali, e quindi in grado di riallacciarsi alla dimensione oscura e
decadente della letteratura italiana: Gelosia
e Il cappello da prete
di Pier Ferdinando
Poggioli e in particolare Malombra
(1942) di Mario Soldati. Anche nel dopoguerra rari saranno gli esempi
di fantastico; Miracolo
a Milano (1951) di
Vittorio De Sica, col suo tono fiabesco, è un caso isolato.
Dopo la pesante
crisi del 1955-56, il cinema italiano conosce la sua epoca d’oro
dal punto di vista produttivo. E’ l’epoca dei film
americani girati in
Italia, dove i costi sono minori, e del boom delle coproduzioni.
L’ossatura di questo sviluppo è il cinema di genere girato a basso
costo. Il meccanismo su cui si regge principalmente questa produzione
è quello del “minimo garantito”. In pratica, i distributori
anticipano ai produttori una copertura preventiva per il film
(accollandosi il rischio, hanno molta voce in capitolo sulle scelte
produttive). L’aspetto negativo è che quando gli incassi tardano
ad arrivare molti produttori utilizzano i nuovi finanziamenti per
coprire vecchi costi. Il sistema si regge sulle vendite all’estero
e su una distribuzione capillare nel mercato italiano, che consta di
oltre 10.000 sale, fra sale di prima visione e sale di serie B e di
prosecuzione della visione (il ciclo di sfruttamento di un film può
durare cinque anni), molto distribuite sul territorio (2).
In parte però sono sale parrocchiali appartenenti alla Chiesa, e
non programmano film con contenuti erotici o violenti.
Il
cinema di genere non è disdegnato dalla grande produzione come la
Lux e la Titanus; capita anche che produttori dagli spiccati
interessi per il cinema d’autore fondino appositamente case di
produzione per il cinema di genere. Ai livelli bassi, è tutto un
sottobosco di piccole società che possono durare lo spazio di un
mattino. Si tratta di un cinema che per sopravvivere deve “andare
sul sicuro”: battere strade già battute, nella forma del prodotto
di serie oppure della parodia (che fin dagli anni ’40 replicava
questo o quel successo, funzionando anche come apripista: i primi
western italiani sono parodie). Riprende i successi esteri, si accoda
ai generi consolidati. C’è anche un uso opportunistico dei titoli:
nel 1966 lo sciocco titolo Operazione
paura per la grande
storia di spettri di Mario Bava ammicca ai thriller spionistici. E’
una produzione imitativa a costo più basso; però non si tratta di
modelli rifatti meccanicamente. Si regge su un principio che possiamo
chiamare imitazione
creativa. Gli elementi
di richiamo vengono riscritti in modo originale e fantasioso,
adattandoli ai gusti del pubblico italiano, alle ovvie esigenze di
risparmio, ai trends
locali già stabiliti; e naturalmente su questo pesano consciamente o
inconsciamente tutto il cinema e la cultura nazionali.
In
questi film girati in velocità, a frequenti limiti di sceneggiatura
e di continuity
e ad evidenti limiti di recitazione (tutto ciò peraltro spesso
incrementa l’effetto surreale dell’insieme) si oppone un
estremismo visionario sia sul piano narrativo sia su quello visuale.
Così questi generi assumono una valenza autonoma e creativa (ma non
sempre: per esempio, resta piuttosto piatto il filone delle
imitazioni dei film di 007 con vaghi spunti fantascientifici, spesso
con sigle ingannevoli: agente 008, agente 077, agente 070, agente
segreto 777...). Al punto di rimbalzare come modelli originali
all’estero; è il caso del western italiano, col suo approccio
picaresco e barocco. Sarebbe interessante paragonare questa capacità
creativa alla capacità innovativa sul piano industriale che l’Italia
presenta nello stesso periodo: sono gli anni del “miracolo
economico” e della definitiva trasformazione in paese industriale.
Alla base di questo
meccanismo sta l’arte di arrangiarsi: a livello produttivo, a
livello di sceneggiatura, a livello di realizzazione e di effetti
speciali. Mario Bava - che per Terrore
nello spazio (1965)
costruisce il paesaggio del pianeta spostando qua e là due massi di
gomma, residuo di un film di Maciste, e con molti fumogeni - è un
esempio limite, ma l’arrangiarsi
è il vero minimo comun denominatore dell’epoca. E’ un cinema
fondato sulla regola del molto
con poco - o spesso
del poco con quasi
niente. Per questo è
segnato dall’ossessione del riciclo. Si riciclano costumi e
scenografie (Danza
macabra di Antonio
Margheriti, 1963, viene girato per approfittare delle scenografie
medievali costruite per il film di Totò Il
monaco di Monza di
Sergio Corbucci). Si ricicla materiale girato: i peplum
spesso incorporano brani di altri film, specie battaglie.
Sono film realizzati
nell’aperta ostilità della critica italiana (assai diverso il caso
per quella francese) e senza rapporti col “cinema d’autore”,
che anche quando tocca argomenti fantastici (Damiano Damiani, La
strega in amore, 1966)
o fantascientifici (Elio Petri, La
decima vittima, 1965)
sta bene attento a marcare la sua diversità. Il solo Fellini cita, o
meglio plagia, Mario Bava con il demonio-bambina di Toby
Dammit, episodio
di Tre passi nel
delirio (1967).
La
prima ondata dà l’impressione di una frenesia di ricerca, di
voglia di sperimentare i filoni più promettenti. Nello stesso
periodo 1957-59 appaiono il peplum
mitologico (nato, come
il precedente cinema dei “forzuti”, da una costola del film
storico), inventato da Ennio De Concini con Le
fatiche di Ercole di
Piero Francisci; l’horror con I
vampiri di Riccardo
Freda (e il parodistico Tempi
duri per i vampiri di
Steno); la fantascienza con La
morte viene dallo spazio
di Paolo Heusch e il fanta-horror Caltiki
di Freda (e Bava), oltre alla parodia Totò
nella luna di Steno; e
anche un interessante tentativo “nibelungico”, Sigfrido
di Giacomo Gentilomo.
La
vera esplosione dell’horror si ha nel 1960 con La
maschera del demonio
di Bava; lo stesso anno vede l’inizio di una breve serie senza
successo di film di vampiri più vicini alla mitologia Hammer. Sempre
del 1960 è un magnifico horror alquanto laterale
nel panorama italiano, Il
mulino delle donne di pietra
di Giorgio Ferroni. Di lì a poco arriveranno i capolavori di Freda
L’orribile segreto
del dr. Hichcock
(1962) e Lo spettro
(1963) e i grandi film di Antonio Margheriti/Anthony M. Dawson.
Quanto al peplum,
la contaminazione col fantastico è naturalmente iscritta nel suo
DNA. Meno
frequentata per ragioni di budget, la fantascienza vede nondimeno
alcune opere; l’autore che ci si dedica più assiduamente è
Margheriti, che nel 1965 prepara e gira contemporaneamente quattro
film di fantascienza a basso costo in dodici settimane. “Bisognava
ricorrere a ciak di colori diversi per sapere, poi, a che film
appartenevano le scene. Avevo un preventivo ridotto e bisognava fare
economia. Se avevo uno scenario della luna, bisognava girare lo
stesso giorno le scene di ogni film che avevano luogo sulla luna, per
approfittare dello scenario” (3)
(però Margheriti si dichiara più fiero di Space
Men del 1960). Sul
piano scenografico va notata l’utilizzazione in più d’un film
dell’Eur di Roma come manifestazione architettonica del futuribile.
E’ interessante sia nei film di Margheriti sia nel coevo capolavoro
di Bava Terrore nello
spazio una tendenza
alla deriva verso l’horror. Gli anni ’70 immettono nel cinema
italiano il giallo
alla Dario Argento (anticipato dal geniale Mario Bava nel decennio
precedente) col suo elemento surreale; e il giallo
sposta l’horror sempre più in una posizione di secondo piano.
Limitato come
produzione è invece il fantastico televisivo: la tv, all’epoca
monopolio statale, è molto prudente. I serial
più importanti sono Odissea
(1968) di Franco Rossi
(l’episodio di Polifemo è di Bava), Le
avventure di Pinocchio
(1972) di Luigi Comencini e Il
segno del comando (1971)
di Daniele D’Anza, che si rifà alla tradizione del feuilleton
ma che oggi ci sembra anticipare i thriller “a codice”
semifantastici alla Dan Brown.
In
quegli anni il cinema italiano di genere mette in scena la crudeltà
e la perversione con una libertà che non aveva mai osato: sadismo,
masochismo, necrofilia, satanismo, voyeurismo dell’omosessualità
femminile (quella maschile resta figura comica o indice di sospetto:
in vari gialli
tra omosessualità e assassinio non c’è che un passo).
Inizialmente ci sono pesanti interventi della censura (da L’orribile
segreto del dr. Hichcock
di Freda sono tolti i riferimenti espliciti alla necrofilia del
protagonista), nonché l’autocensura dei produttori: per esempio ne
I vampiri
salta una scena iniziale a tutto scapito della comprensibilità. Più
tardi ci sarà un attenuamento della censura, che però passa
all’azione repressiva dei singoli magistrati. Resta così una
tendenza all’autocensura a seconda del periodo da parte dei grossi
produttori (De Laurentiis su Diabolik
di Bava, 1968).
Al
centro dell’horror italiano sta l’ambiguità della donna, corpo
erotizzato (è assente la tradizionale polarizzazione
verginità/mostruosità) e figura catalizzatrice delle forze del male
e della perversione, come mostro o come vittima - o entrambi, in
figure di sdoppiamento non infrequenti. Tale centralità femminile si
spiega con l’influsso della tradizione melodrammatica del cinema
italiano, alla quale si può fare in parte risalire la predilezione
dell’horror per le storie in costume. Non stupisce pertanto che la
sola star dell’horror italiano sia l’inquietante e ambigua
Barbara Steele. Non possiamo parlare di divismo per altri nomi,
sebbene l’impiego di Walter Brandi nei film di vampiri più
tradizionali tradisse la speranza di costruire una sorta di
succedaneo italiano di Christopher Lee. Il peplum
nasce legato al corpo fisico (intercambiabile) dei culturisti
americani (Steve Reeves, Reg Park, Mickey Hargitay) ma quando si
impoverisce ripiega su attori italiani, come Kirk Morris/Adriano
Bellini. Ritornano nel cinema fantastico italiano i volti di attori
che attraversano l’intera gamma della produzione di genere, come
Klaus Kinski, Giorgio Ardisson, Erika Blanc, Dominique Boschero,
Adriana Ambesi, Margaret Lee, Edmund Purdom, Gordon Mitchell, Rosalba
Neri (che regala il suo magnetismo sessuale all’horror e al giallo
erotizzati degli anni ’70), più tardi David Warbeck; nonché
valorosi caratteristi come Paul Muller, Harriet-Medin White, Luciano
Pigozzi, Umberto Raho, Carlo Kechler. A livello di star
internazionali, appare più volte Christopher Lee quale volto-icona
dell’horror e garanzia per il pubblico; la coproduzione americana
porta nel cinema italiano Boris Karloff ne I
tre volti della paura di
Bava e Vincent Price ne L’ultimo
uomo della Terra
(firmato da Ubaldo Ragona, ma in realtà diretto dall’americano
Sidney Salkow). Più d’un attore americano in declino finisce nel
cinema di genere italiano come su un’ultima spiaggia della carriera
(4):
ad esempio Joseph Cotten (Gli
orrori del castello di Norimberga,
Lady
Frankenstein).
Una
caratteristica è il largo uso di pseudonimi anglosassoni per dare
un’aria straniera al film a pro degli spettatori italiani, sempre
esterofili (ancora nel 1968 l’americanissimo La
notte dei morti viventi,
Night of the Living
Dead, di George A.
Romero verrà distribuito in Italia a firma George A. Kramer per
paura che il regista venga preso per italiano!). Esiste in alcuni di
questi pseudonimi una carica d’ironia molto romana, per cui
s’istituisce un gioco fra l’istanza enunciativa dei credits
e lo spettatore meno grezzo: pensiamo a Franco Fumagalli come Frank
Smokecocks (L’orribile
segreto del dr. Hichcock)
o Giorgio Simonelli come Johnny Seemonell (Metempsyco).
Dal
1975 comincia il declino inarrestabile del cinema di genere italiano
perché vanno in crisi le sue condizioni produttive e distributive:
moltiplicazione dell’offerta televisiva grazie alla diffusione
delle televisioni private, smantellamento di quella vasta rete di
sale popolari decentrate che avevano costituito il polmone della
distribuzione di genere, strapotere della produzione americana,
riduzione delle vendite estere (5).
Muta il concetto di imitazione; ora i filoni non nascono da un trend,
bensì da un singolo
film di successo (o incrociandone un paio), spesso con meno fantasia
e meno mezzi. Si formano così sottogeneri di natura fortemente
vicaria: una forma frenetica di exploitation,
com’è facile capire, di corto respiro.
Già
nel 1973 si vede come The
Exorcist di Friedkin
dia il via a una serie ossessiva di film correlati: nei due anni
seguenti ne esce mezza dozzina (compresa la gustosa parodia
L’esorciccio di
Ciccio Ingrassia), fra cui Lisa
e il diavolo di Mario
Bava, distribuito rimontato e con sequenze aggiunte col titolo La
casa dell’esorcismo
e Byleth, il démone
dell’incesto di
Leopoldo Savona, girato nel 1971 e distribuito solo ora spacciandolo
come exorcist movie.
Ogni successo estero
dà il via alla propria serie di imitazioni: film di heroic
fantasy da Conan,
preistorici da La
Guerre du feu,
postatomici da Escape
from New York e Mad
Max, di terrore
acquatico da Jaws,
fantastico-avventurosi dalla serie di Indiana Jones. Last
House on the Left
genera La casa sperduta
nel parco e L’ultimo
treno della notte.
Alien
genera Alien 2 - Sulla
terra (che si svolge
quasi tutto in una caverna). Star
Wars origina tutta una
serie di fantascienza povera (citiamo solo il divertente - per il suo
piglio cinefilo - Star
Crash di Luigi Cozzi).
The Omen rilancia
il tema della possessione demoniaca; Evil
Dead (in Italia La
casa) porta a tutta
una serie de La casa
con numero progressivo; Nosferatu
di Herzog apre la strada a Nosferatu
a Venezia, la cui
produzione crolla sotto i cambi di regista e i capricci di Klaus
Kinski. Per influsso di Dawn
of the Dead nasce
(non solo in Italia) un filone zombistico (il film più importante è
Zombi 2
di Lucio Fulci, già del 1979) che verrà incrociato successivamente
con spunti da Apocalypse
Now e dal filone dei
cannibali. Tentativi di produzione più impegnativi (Holocaust
2000, 1978, di Alberto
De Martino) restano casi isolati. Il filone cannibalistico ha una
propria individualità, ma anch’esso finisce per esaurirsi.
Sono gli anni del
divismo degli effetti speciali e dello splatter,
sul quale gioca Joe D’Amato. E’ in questo periodo che si dispiega
pienamente la grande personalità di Lucio Fulci, che ai suoi
importanti gialli
degli anni ’70 aggiunge negli ’80 grandi horror deliranti e
onirici, basati sulla risonanza emotiva del dato visivo. Pupi Avati
crea nei geniali La
casa dalle finestre che ridono
(1976) e Zeder (1983)
atmosfere che si sostanziano di un’inedita connotazione regionale,
prima di dedicarsi alle commedie dolceamare (un tardo ritorno al
fantastico è L’arcano
incantatore,
1996).
La
televisione privata dapprima entra in aiuto al declinante cinema di
genere ma i risultati non sono ritenuti soddisfacenti; alcuni film
per la tv di Fulci e di Umberto Lenzi non vengono neppure trasmessi
perché troppo crudi; altri risultano al contrario alquanto anodini.
Alla fine i progetti di finanziamento vengono interrotti.
Mentre i vecchi
maestri incontrano sempre più difficoltà, si creano autentiche
interruzioni di carriera. Il caso più rilevante è quello di Michele
Soavi, sul quale, dopo alcuni film davvero notevoli, si poteva
scommettere come sul nuovo grande talento del fantastico italiano.
Idem per Giancarlo Giagni, che aveva destato interesse con Il
nido del ragno (1988).
Anche Lamberto Bava deve trasferirsi in campo televisivo, ma con
successo: dirigerà un fortunato serial
fiabesco in vari episodi, Fantaghirò.
Sebbene rimanga in
attività Dario Argento - ma meno amato di un tempo e con risultati
più discussi - il panorama del cinema fantastico italiano recente è
una serie di rari casi isolati. Possiamo citare Fatal
Frames (1996) di Al
Festa, il film fantascientifico di livello produttivo “alto”
Nirvana
(1997) di Gabriele Salvatores, M.D.C.
- Maschera di cera
(1996), ereditato alla regia da Sergio Stivaletti dopo la morte di
Fulci, Zora la vampira
(2000) dei Manetti Bros., che sarà un fallimento nonostante il
tentativo di aggiornare il mito di Dracula occhieggiando al pubblico
della protesta giovanile...
E
tuttavia, forse oggi la situazione è meno nera di quanto non
sembrasse dieci anni fa. Non è cambiato qualcosa nel sistema
produttivo o distributivo: è cambiato qualcosa nella tecnica di
realizzazione. Oggi le nuove tecnologie danno a un giovane regista la
possibilità di realizzare il proprio film a basso costo, e - senza
voler mitizzare una possibilità che poi comunque deve fare i conti
con la strozzatura della distribuzione - già si vedono i primi
esempi di una produzione “povera” autonoma, magari connotata a
livello regionale. Sarà il DVD la nuova frontiera del fantastico
italiano?
NOTE
(1)
Qualsiasi discorso sul cinema italiano dell’epoca non può che
basarsi sul fondamentale lavoro di Aldo Bernardini e Vittorio
Martinelli, Il cinema
muto italiano, in vari
volumi, Nuova ERI-Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma,
1991-1996.
(2)
Vedi Stefano Della Casa, I
generi di profondità,
in Storia del cinema
italiano, X,
1960/1964,
a cura di G. De Vincenti, Marsilio-Edizioni di Bianco e Nero,
Venezia-Roma, 2001. Si vedano anche nello stesso volume i saggi di
Della Casa L’estetica
povera del peplum e
L’horror.
(3)
Antonio Margheriti in L’avventurosa
storia del cinema
italiano raccontata dai suoi protagonisti. 1960-1969,
a cura di F. Faldini e G. Fofi, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 211.
(4)
Di questa condizione hanno realizzato una recente, definitiva parodia
Daniele Ciprì e Franco Maresco nel delirante Il
ritorno di Cagliostro.
(5)
Vedi Teo Mora, I
sopravvissuti della città morta, ovvero l’agonia del cinema
fantastico italiano,
in ScienceplusFiction.
La fantascienza tra antiche visioni e nuove tecnologie,
a cura di M. Spanu, Lindau, Torino, 2001.
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