Senza
dubbio non è il Jurassic World
del 2015 di Colin Trevorrow ma il presente Jurassic
World – Il regno distrutto
di J.A. Bayona a introdurre un netto cambiamento d'indirizzo nella
franchise creata da
Steven Spielberg, ora produttore esecutivo. Il titolo Jurassic
World, che nel film precedente
era solo un ampliamento retorico di Jurassic Park,
ora assume un vero significato.
E' pur vero che la
spinta propulsiva della serie sembrava essersi esaurita – sebbene
vedere un uomo inseguito da un dinosauro carnivoro sia
invariabilmente divertente per lo spettatore – e niente lo mostra
con maggiore evidenza della necessità di introdurvi nuovi dinosauri
d'invenzione (nella diegesi creati da manipolazioni genetiche):
l'Indominus Rex nell'episodio precedente e qui l'Indoraptor, che
sembra una via di mezzo fra Alien e un
velociraptor gigante.
Nota in margine: con
tutti i soldi che ha, Spielberg non poteva assumere qualcuno che
conosca il latino e i principi della classificazione linneana?
Per l'appunto, bisogna
riconoscere al presente film, sceneggiato da Colin Trevorrow e Derek
Connolly, il coraggio di cambiare le carte in tavola. Adesso...
attenzione, col thump thump thump dei passi pesanti dei dinosauri in
avvicinamento (che sono sempre stati l'effetto sonoro clou della
serie) non sentite arrivare gli spoiler? Questa recensione
può essere letta solo dopo la visione del film.
Adesso,
dico, l'isola dei dinosauri viene distrutta da un'eruzione vulcanica
(molto spettacolare, per inciso) e un gruppo di dinosauri
viene portato via in
extremis sotto specie
di salvarli. Finisce nell'enorme villa della tenuta Lockwood, fra i boschi americani,
dove, all'insaputa del moribondo Lockwood (James Cromwell), il
villain della
situazione – un appropriatamente viscido Rafe Spall – ha
intenzione di metterli all'asta fra criminali politici e non. E
all'asta finisce anche la nuova creazione genetica. Naturalmente i
buoni – gli eroi del film precedente più una bambina che
rappresenta il prolungamento del protagonismo infantile
spielberghiano, con sorpresa finale – riescono a sventare i loro
piani, con un tripudio di dinosauri a piede libero che si avventano
sulle canaglie (è un vero piacere vedere la demise
di Rafe Spall in bocca a un tirannosauro, che per la seconda volta
sembra incarnare la giustizia giurassica). Dopodiché i dinosauri si
danno, è il caso di dirlo, alla macchia. Bellissima l'inquadratura
nel finale di surfisti californiani con un animalaccio marino
gigantesco che si presenta in mare pronto a papparli... Tutta la
serie si basava sul concetto di hybris,
ed ecco che ora la frittata è fatta. Tutto ciò è anche in accordo
con uno spirito animalista che attraversa il film. Gli orgogliosi
dinosauri si trovano retrocessi a specie in pericolo. Come tutti i
commentatori hanno già osservato, il vero cattivo, qui, è l'uomo.
Tuttavia, resta da
vedere se questo cambiamento si rivelerà utile; resta da dar conto
di un vago senso di mancanza, se non proprio di delusione. Da dove
viene?
La
serie Jurassic Park
metteva in scena, semplicemente, i dinosauri. In mancanza della
giungla del Pleistocene prendeva la foresta vergine contemporanea
(l'Isla Nublar) e ci inseriva i bestioni. Erano film di caccia grossa
rovesciati – nei quali cioè è l'uomo che viene cacciato quando si
avventura fra gli alberi. Il dinosauro e il suo ambiente
selvaggio erano intimamente legati. Fra le immagini più memorabili
dell'intera serie si annoverano quelle dei velociraptor
minacciosamente celati nell'erba alta (il secondo film, Il
mondo perduto, mostrava la loro
corsa all'attacco attraverso le erbe della giungla che si piegavano
in linee convergenti). C'era una particolarissima magia in questo
matrimonio della vegetazione e dei mostri.
Nel presente film, dopo
la veloce prima parte, ci troviamo in una situazione del tutto
differente, il cui succo è: dinosauro d'invenzione che si aggira
dentro un castello vagamente gotico. Ci sentiamo più vicini a un
film come The Relic (nemmeno al vecchio Il risveglio del
dinosauro, che si svolgeva all'esterno in città) che alla magica
illusione di ritrovarci proiettati nel Cretaceo.
Sul piano positivo, va
detto che la regia trae il meglio da questa situazione. In una delle
scene più interessanti, la bambina si è rifugiata terrorizzata a
letto (pessima scelta) e l'ombra minacciosa dell'Indoraptor in caccia
si proietta sulle pareti della sua camera come in un incubo
infantile. Del resto, Bayona aveva esordito con un bell'horror quale
The Orphanage.
J.A. Bayona è molto
abile proprio nell'uso di ombre, schermi, profondità di campo.
Citiamo dall'apertura una memorabile inquadratura subacquea: vediamo
in primissimo piano i denti, come una palizzata, del teschio
dell'Indominus, morto nell'episodio precedente; dietro in campo
mediano c'è il mini-sommergibile degli uomini venuti a recuperarne
uno per prenderne il DNA; e dietro ancora, sul fondo, si spalanca
l'immersa bocca zannuta del mostro acquatico. Da segnalare anche
un'altra bella inquadratura in cui un gioco di riflessi sovrimprime
sul visetto della bambina il muso feroce del dinosauro.
Peraltro il film soffre
tanto di una sceneggiatura alquanto traballante quanto di tagli
notoriamente effettuati in vari paesi, fra cui l'Italia, allo scopo
di renderlo più “adatto” a un pubblico infantile. Basta vedere
come scompaia improvvisamente il personaggio di Geraldine Chaplin.
Ammettiamolo: ci sentiamo vedovi dell'Isla Nublar. Può essere però che i film futuri della
serie sapranno trarre il meglio da questo cambiamento radicale, che
certo apre un ventaglio di possibilità. Per parafrasare il vecchio
Marx, i dinosauri hanno perso solo lo loro catene – e hanno un
mondo da conquistare.
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