sabato 16 novembre 2024

Il gladiatore II

Ridley Scott

Giacché invecchiando Ridley Scott è calato in forza e capacità… “La voce del cantor non è più quella”… è stata per lui una buona idea tornare ad abbeverarsi all’antica fonte (non che funzioni sempre: pensiamo ai ritorni ad Alien); così ci ha dato Il gladiatore II, il suo miglior film da anni (dove, per inciso, già dispongono bene i titoli di testa di Pierluigi Toccafondo). Non è un cupo capolavoro come Il gladiatore del 2000, di cui è il sequel; ma è convincente e suggestivo. Certo, i tratti fondamentali che caratterizzavano il grande cinema di Ridley Scott appaiono solo in forma residuale. Il gladiatore era un dramma di ispirazione quasi shakespeariana e insieme una riflessione sul vedere. Qui siamo a un livello più basso.
Il sistema coloristico del film non ha l’agghiacciante coerenza (con i blu al posto dei rossi) del primo Il gladiatore. Scott però se ne ricorda in alcuni momenti: molto bello il salto di colore fra l’assolata città numidica e il grigiore temporalesco della flotta romana in avvicinamento; la battaglia che segue è una delle pagine migliori. Peccato che il protagonista Paul Mescal non valga Russell Crowe – sicché soffre nella vicinanza con l’ottimo Denzel Washington, che gli ruba invariabilmente la scena. O anche la sperimentata Connie Nielsen.
Arnone (Paul Mescal) è un guerriero della Numidia che vede morire la moglie arciere in battaglia contro i Romani; è logico che li odi, in particolare nella persona del generale Acacio (Pedro Pascal). Dopo la sconfitta diventa schiavo e gladiatore sotto l’ambizioso Macrino (Denzel Washington), che sogna addirittura l’Impero. Ma che qualcosa non torni nella nazionalità di Arnone, lo capiamo già all’inizio, quando in un discorso ai guerrieri numidi saccheggia Tacito ed Epicuro; più tardi, da gladiatore vittorioso, reciterà Virgilio in faccia ai due ignorantissimi imperatori. Infatti sul trono, al posto di Commodo, ora c’è un mostro doppio: la sadica coppia gay degli psicopatici imperatori gemelli Caracalla e Geta (Fred Echinger e Joseph Quinn).
Naturalmente nella realtà non erano neanche gemelli, per non dir del resto; ma la rievocazione storica del film è del tutto immaginaria. Non c’è ragione di preoccuparsene; anche il primo Gladiatore aveva un atteggiamento supremamente sfacciato nei riguardi della storia. Nel presente film, è delizioso vedere il senatore Thraex che aspetta la spia al tavolino di un bar (d’accordo, taberna) leggendo una specie di quotidiano; più tardi, assistiamo a una seduta del Senato storicamente folle, ma divertentissima.
Semmai spiace di più quando Il gladiatore II entra in contraddizione con se stesso. Nel film, perfino un graffito osceno che vediamo di sfuggita su un muro (“Irrumabo”: l’ispirazione non viene da Pompei ma da Catullo) è, giustamente, in latino; quindi è assurdo che sia in inglese l’iscrizione sopra la tomba dell’eroe Massimo Decimo Meridio del primo film.
Con bei tocchi visuali, come una Roma notturna popolata di homeless, con i classici giochi di potere e tradimenti e inevitabili agnizioni, Il gladiatore II ci offre da un lato un tocco di piacevole melodramma in puro stile peplum, dall’altro (ecco il suo pezzo forte) deliranti e spettacolari combattimenti nell’arena – citiamo solo la naumachia (battaglia navale) nel Colosseo allagato, con aggiunta di squali. Sono così belli da farci pensare che è un bene che esista il cinema per offrirceli senza bisogno di averli dal vero. Perché, ammettiamolo, le nostre emozioni guardandoli sono le stesse del pubblico romano sulle gradinate.

sabato 9 novembre 2024

Megalopolis

Francis Ford Coppola

Il 2024 ha visto l'uscita di due film importanti, nonché flop colossali. Il primo è l'“eroico suicidio” di Joker: Folie à Deux di Todd Phillips – che sul piano artistico è più bello del precedente Joker, ma sul piano commerciale era a tal punto destinato al fallimento che sembra impossibile non sia stato fatto apposta. Il secondo ovviamente è Megalopolis: A Fable di Francis Ford Coppola.
Se muoio, tu finirai questo film – e se muori anche tu, lo farà Lucas”. Questa ingiunzione da patriarca biblico, o da eroe di John Huston, che Coppola rivolge a John Milius sul set di Apocalypse Now, dice tutto. È addirittura offensivo pensare a Megalopolis come a un film riassuntivo di fine carriera. A parte che Megalopolis è un suo vecchio progetto di sempre, la tendenza di Coppola al gigantismo, la sua volontà di sorpassare il cinema della propria epoca (le “citazioni” in Megalopolis più che omaggi sono cannibalizzazioni), la sua sperimentazione continua, tutto ciò non è un frutto della vecchiaia ma l'anima coppoliana di sempre. Parlando, anni fa, proprio di Apocalypse Now Massimo Caprara definiva Coppola come l'ultimo dei grandi registi visionari di Hollywood (Griffith, von Stroheim, Welles). E sui suoi progetti Coppola è disposto a scommettere la camicia: la sua storia produttiva è una storia di trionfi e rovinose cadute, come Un sogno lungo un giorno – che con Megalopolis ha qualcosa in comune. Coppola è genio solitario, costruttore/distruttore, profeta. La sua figura, il Grande Artefice visionario, si rispecchia nell'architetto Cesare Catilina, che vuole costruire la città del sogno per tutti; ed è (quasi) inutile ripetere che alla base c'è l'architetto de La fonte meravigliosa, sorto prima che nel cinema di King Vidor dalla fantasia anarchica di Ayn Rand.

Megalopolis – il cui sottotitolo A Fable riporta la passione di Coppola per la favola e il mito – si articola su due linee base. La prima è la grande metafora con cui l’America d’oggi si fonde con l’antica Roma (un’idea che nella sua semplicità spettacolare ha qualcosa di cormaniano, se ci va di evocare gli esordi del regista). Nel film, quel concetto di crisi e caduta della civiltà occidentale che ha sempre ossessionato Coppola si pettina con la frangetta dei romani. C’è un vero divertimento del Coppola sceneggiatore nel tracciare corrispondenze (Clodio, il travestimento e lo scandalo della Bona Dea). I nomi/personaggi sono scelti con accuratezza, confermando “l’intrinseca letterarietà che regola l’opera di Coppola nell’insieme” (Franco La Polla). Soprattutto è importante notare che il protagonista, interpretato da Adam Driver, non si chiama Catilina ma Cesare Catilina: non semplicemente l'aspirante eversore della (corrottissima) Repubblica romana, l'uomo contro il quale Cicerone pronunciò le Catilinarie (qui puntualmente citate), ma anche l'autentico eversore di quella Repubblica, colui che passò il Rubicone – e fece bene (del resto, se leggiamo Sallustio, vediamo che i rapporti fra Cesare e Catilina erano tutt’altro che indifferenti, benché abilmente nascosti).
Lo scontro fra il costruttore Cesare Catilina e il sindaco Cicerone è lo scontro fra l'amministratore della quotidianità e l'artista geniale e incontrollabile. Coppola nella sua opera ama ragionato per opposizioni. L’oggi in lotta contro il domani, il buon senso quotidiano contro l'utopia – ma, direbbe Coppola, in un momento di crisi in cui l’oggi sta crollando, solo l'utopia del domani indica la salvezza.

La seconda linea base di Megalopolis, che corre all’interno della prima, quasi nascosta nelle sue pieghe, è un discorso vagamente metafisico sul tempo. Coppola ha sempre nutrito una fascinazione verso il tempo e il futuro. “Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, dice famosamente Dracula a Mina, entro un concetto di reincarnazione; nel tempo viaggia materialmente la protagonista di Peggy Sue si è sposata; un viaggio simbolico nel fiume del tempo, non solo sul piano geografico, è quello di Apocalypse Now Redux; il tempo corre e uccide in Jack; ma pensiamo anche alla complessa tessitura temporale de Il padrino – Parte II. È quasi disperata la domanda, che risuona in Megalopolis, di “costruire un futuro per noi”. Ora, l’architettura e la politica sono precisamente due modi di modellare il tempo costruendo il futuro. Questo è il nodo dello scontro fra Cicerone e Catilina. Su questo Coppola innesta un’idea sorprendente (ma discutibile): Catilina possiede una sorta di superpotere, quello di fermare il tempo a piacimento in segreto.

La monumentalità formale che contraddistingue Coppola, vero figlio della New Hollywood, è ben riconoscibile in Megalopolis. Coppola come autore ha una concezione totalizzante del cinema, una concezione wagneriana (gesammelte Kunstwerk) che gli viene dall'amato Ejzenštejn. Ma è, la realizzazione, pari alla grandezza del progetto? Si sarebbe, temo, imbarazzati a rispondere di sì. Beninteso, a onta dei molti che si sono affrettati a liquidarlo, Megalopolis è un film fascinoso, una grande esperienza sulla quale spesso torneremo con la memoria. Sarebbe sleale obiettare che è meglio un Coppola disordinato che un Muccino ordinatissimo. Ma certamente Megalopolis è un grande film flawed: un grande film fallato (che non significa fallito). Il titanismo della concezione, del grande disegno, non si rispecchia in un corrispondente titanismo delle singole pagine. Ma la contraddizione principale è un’altra, ed emerge nella dualità delle due linee generatrici del film. Quella capacità che ha Catilina di intervenire sul tempo (“Time, stop!”) a mia opinione rende confusa l'architettura della metafora. La metafora di Megalopolis si realizza attraverso un semi-realismo che male si accorda all'irrealismo fiabesco della dote segreta di Catilina. Il modo in cui essa è esposta è allo stesso tempo (no pun intended) troppo debole per dare sufficiente rilevanza alla seconda linea base del film e troppo forte per non incidere sulla metafora. Si crea una discrasia che danneggia il film – anche se, come vedremo, quella dote misteriosa torna utile a Coppola per un bel finale.


Infatti, Megalopolis è Metropolis. Il capolavoro di Fritz Lang è un modello (inarrivabile) per il film di Coppola. Lo può suggerire anche un dettaglio minimo come le statue allegoriche che si animano – ove Coppola può essersi ricordato delle statue della Cattedrale in una delle pagine meno note del gran film langhiano. Dettagli a parte, però, è il concetto base a unificare i due film.
Metropolis di Lang si fonda sulla contraddizione fra Capitale e Lavoro. Ma alla fine questa contraddizione si risolve in una conciliazione (qui entra in gioco l'ideologia “nazionale” di Thea von Harbou, che per inciso non piaceva a Lang; ma il film è quello). Dalla conciliazione nasce il mondo futuro, l'alleanza delle forze produttive alte e basse, che è simboleggiato dall’unione (desessualizzata) tra Freder e Maria.
Megalopolis di Coppola si articola a sua volta su una contraddizione. I suoi due protagonisti maschili, il sindaco e l'architetto, rappresentano, come già detto, l'Amministrazione e l'Utopia (mi preme dire che – “germanicamente” per Lang, “langhianamente” per Coppola – non si tratta della rappacificazione fra due individui bensì della sintesi dialettica di due concetti ipostatizzati in due individui – anche se Coppola è più americano di Lang nella preoccupazione di vestirli di carne realistica). Non per nulla Cicero ammonisce Catilina che l'utopia facilmente si rovescia in distopia. Ma l'ultima scena rappresenta una conciliazione fra questi opposti, che trova la sua espressione nelle parole del sindaco. In entrambi i casi la riconciliazione avviene dopo un disastro, in Metropolis la rivolta e l'inondazione, in Megalopolis l’esplosione violenta del trumpismo (Coppola è chiarissimo nel connettere le folle agitate da Clodio alla folla trumpiana che invase il Campidoglio nel gennaio 2021).
Chi ha trovato che questo accordo finale – del quale va notata la solennità – entri male nel contesto e indebolisca il film, a mio parere non ha capito il senso dell'opera. In Megalopolis più che in Metropolis (et pour cause, essendo in quel film la visione della sessualità connessa alla “falsa Maria” diabolica), la grande conciliazione viene confermata attraverso il corpo e il sangue: la nascita di una bambina (che calma il dolore di Catilina risarcendo la scomparsa della sua prima moglie): la fondazione di una famiglia che riunisce gli opposti nell’unione fra Cesare Catilina e la figlia di Cicerone, Julia – il cui nome porta in sé la promessa di una dinastia.
Proprio a questo punto torna utile a Coppola quella che continuo però a ritenere una disfunzione del film, la capacità di fermare il tempo. Nel finale, infatti, quando Catilina ferma il tempo l'ultima immagine ci mostra la bambina che si muove; su di lei la dote di Catilina non ha efficacia; che ciò sia importante, Coppola lo sottolinea chiudendo in iride sulla piccola. La centralità finale di questa bambina a sua volta padrona del tempo… una bambina che rappresenta fisicamente la sintesi degli opposti e un’America nuova (“E giustizia per tutti” inscritto nella solennità del marmo)... non fa pensare, più in piccolo, a un altro bambino che rappresentava il futuro – e compariva solennemente alla fine di 2001: Odissea nello spazio?


giovedì 31 ottobre 2024

Parthenope

Paolo Sorrentino

Parthenope, la protagonista del film di Paolo Sorrentino... Parthenope che ha lo stesso nome della sirena suicida il cui corpo fu trovato là dove sorge la città di Napoli... Parthenope, dicevo, all'inizio del film viene partorita nell'acqua. Questo è l'elemento che contraddistingue il film di Sorrentino: Parthenope è un film d'acqua. Dell'acqua ha la fluidità, l'irriducibilità a una forma, nella quale si allarga, e così la nega.
Parthenope segue la vita di Parthenope (Celeste Dalla Porta), misteriosa e bellissima come la Gioconda, tanto sguardo irraggiungibile quanto oggetto dello sguardo amoroso (il film ha un momento bellissimo sulle ragazze che camminano, decise, sorridenti, solari, e gli occhi degli uomini le accarezzano). C'è una sorta di castità di Sorrentino, per il quale il sesso si identifica con lo sguardo, in modo quasi mistico. Basta ricordare i nudi meravigliosi di Madalina Ghenea in Youth o di Luisa Ranieri in È stata la mano di Dio (un film che per molti versi assomiglia a questo). La bellezza di Parthenope si diffonde nell'aria come il fumo delle sigarette, che sono molto presenti in questo film; e Sorrentino è uno dei pochi registi (ecco che mi torna in mente lo splendido cameo di Shu Qi in Just One Look di Riley Ip) a riconoscere e trasmettere la bellezza di una giovane donna che fuma.
A parte una parentesi in cui medita di fare l'attrice (nel che, peraltro, sempre lo sguardo e gli occhi sono chiamati in causa!), la sua scelta di vita è l'antropologia, sotto l'ala del caustico professor Marotta (Silvio Orlando), che emerge come vero padre putativo – mentre altre figure del film, come il padre vero, sono troppo umbratili per lasciare traccia. La domanda che come un tormentone attraversa il film, “che cos'è l'antropologia?”, trova alfine per bocca del professore la perfetta definizione: l'antropologia è vedere. Precisamente questo è lo sguardo di Parthenope: uno sguardo che vede e ci fa vedere: onde Parthenope diventa attraverso i suoi occhi un grande ritratto della città di Napoli. Nella sua bellezza solare (ancora l'acqua) e nel suo ventre – il grottesco sorrentiniano, che traspare nel matrimonio camorrista consumato sotto gli occhi di tutti ed esplode nell'episodio del “mostrino”.
La letterarietà dei dialoghi, molto sorrentiniana, è generalmente ben costruita e ben gestita (ora dirò una bestemmia: bizzarramente, il solo a uscirne con un'aria trombonesca è il personaggio di Gary Oldman). Vediamo la storia di Parthenope nel corso del tempo – l'uomo davanti al tempo è un caposaldo del cinema di Sorrentino – e Celeste Dalla Porta è bravissima nel fondare e trasmettere le sfaccettature della vita che scorre, non semplicemente come mimica del volto, ma nel senso esistenziale che si riflette nel corpo intero. Questo adottare la forma biografica, per cui gli avvenimenti, come per una locomotiva in corsa, balzano incontro “da soli”, dà a Sorrentino la possibilità di svincolarsi da una costruzione drammaturgica.
Beninteso, ha diritto Sorrentino, come ha rivendicato, di non nutrire un eccessivo interesse per la trama, in senso appunto drammaturgico; abbiamo diritto noi spettatori di giudicare il risultato. Il costo dell'operazione è che il film appare episodico, perfino un po' slegato. Parthenope è fatto di pezzi assai alti, fra i migliori del cinema di Sorrentino, frammisti a momenti (specie nella prima parte) che lasciano una sensazione di incertezza sul piano artistico. Ciò non toglie che il film, per quanto faticoso nell'articolazione del racconto, componga un grande affresco pieno di fascino sulla città di Napoli. Il suo impatto emotivo è indubitabile.
Menziono solo il capitolo che a mio parere è il vertice del film: l'incontro di Parthenope, antropologa che studia il miracolo di San Gennaro, con l'arcivescovo Tesorone (Peppe Lanzetta). Capitolo perfetto ed enigmatico (altro che il forzato The Young Pope!), culminante nella soluzione geniale per cui il sangue di San Gennaro – che non aveva voluto sciogliersi nella cattedrale affollata e isterica – si scioglie in segreto al momento nell'orgasmo nel rapporto a due nella cattedrale deserta.
La melancholia sorrentiniana, che ben conosciamo, attraversa il film, dove al fondo resta la consapevolezza amara del carattere transeunte della gioventù e dell'amore. Interpretati da tre eccellenti giovani attori, i tre personaggi giovani – Parthenope, il fratello Raimondo (Daniele Rienzo) e il primo fidanzato Sandrino (Dario Aita) – partono tutti per l'esilio; e l'esilio è sempre stato un filo rosso del cinema di Sorrentino, incrociandosi – senza contraddizione – con un altro, quello della persona che si è costruita intorno una barriera, in un “tempo bloccato”. Forse questo primo tema è diventato, col tempo, prevalente rispetto al secondo? Ma forse neanche tanto, se pensiamo alla grigia predizione che Parthenope fa a Sandrino quando questi le rivela la sua decisione di partire per andare al Nord (un'osservazione molto interessante fatta dell'attore in sede di presentazione del film: a Napoli sarebbe sempre rimasto un diminutivo). Per Raimondo, invece, è l'amarezza dell'amore. La scena “bertolucciana” dell'abbraccio a tre a Capri fissa il personaggio come in un bassorilievo. È innamorato della sorella? È innamorato di Sandrino? È troppo sensibile in assoluto? Comunque, non diversamente dalla sirena, muore suicida; sceglie l'esilio più totale e definitivo (unde negant redire quemquam). Poi, all'improvviso, senza spiegazioni, la stessa Parthenope – che è andata a insegnare antropologia a Trento dov'è previsto che resti un paio d'anni per poi vincere la cattedra a Napoli – rimane a Trento fino alla pensione. Senza spiegazioni: il suo “Mi sono innamorata dello speck” ha la stessa potenza enigmatica e ironica del “Sono andato a letto presto” di Proust/Medioli/Leone (C'era una volta in America). Ma quando ritorna a Napoli a 73 anni, col volto di Stefania Sandrelli, al confronto imprevisto con l'allegra chiassosità dei tifosi napoletani, sorride.

lunedì 28 ottobre 2024

The Dead Don't Hurt - I morti non soffrono

Viggo Mortensen

Qual è il tema fondamentale del western? La giustizia, materializzata nella pistola appesa al fianco (cioè la possibilità di uccidere istantaneamente), che o crea il torto o afferma il diritto. Non c’è giustizia invece nel buon western The Dead Don’t Hurt – I morti non soffrono, che Viggo Mortensen ha scritto, diretto, musicato, nonché interpretato con Vicky Krieps. Olsen e Vivienne si trasferiscono nel Nevada per lavorare onestamente. Ma in paese spadroneggia il potente Jeffries e suo figlio Weston (Solly McLeod), uno psicopatico che da lui protetto, terrorizza tutti. Quando Olsen si arruola nella guerra di secessione, Weston prende a perseguitare Vivienne… Inutile svelare il seguito, anche se il racconto è anacronico, va avanti e indietro, e parte – non senza potenza – dalla morte di lei.
Lo hanno già scritto tutti: questo è un western “al femminile” (non un'assoluta novità come pure è stato detto), centrato sulla figura di Vivienne. Interessante la sua definizione a partire da un'infanzia nel Québec modellata dalle storie su Giovanna d'Arco (però sono una pessima idea le inquadrature immaginarie del cavaliere medievale nel bosco, girate in modo realistico). Tutti i western implicano due modelli narrativi, diciamo l'Eneide e le Georgiche, quello guerriero (il viaggio, la vendetta, la conquista) e quello quotidiano e agreste (la colonizzazione) – di cui il secondo è generalmente subordinato al primo. Vale anche per il presente film; ma alcuni dettagli rendono in modo assai efficace l'aspetto quotidiano, come gli alberi trapiantati e i fiori attorno alla capanna. E la cura del bambino naturalmente. Con una buona messa in scena, interpretazioni convinte, e una bella fotografia di Marcel Zyskin, il pessimistico The Dead Don’t Hurt si inserisce dignitosamente fra i western “revisionisti”. Il modello non è Clint Eastwood come qualcuno ha detto ma I cancelli del cielo di Michael Cimino (anche se ovviamente il film non si avvicina a quel capolavoro).
Sul piano della verosimiglianza psicologica ci sarebbe molto da dire, prima su Vivienne che – con motivazioni “femministe” assai novecentesche – cerca lavoro al saloon e poi su Olsen che follemente la lascia sola per andar soldato, il tutto in un film dove Solly McLeod praticamente va in giro con una scritta al neon sopra la testa che dice “Sono la carogna potentissima del paese”. Era psicologicamente più fondato un altro simil-western con un villain psicopatico, uscito l'anno scorso, La terra promessa di Nikolaj Arcel, con Mads Mikkelsen.
La seconda parte, interlineata alla prima sul piano narrativo, segue Olsen e il bambino in viaggio dopo la morte di Vivienne. Resta nella memoria, in questa parte, una bella scena in cui padre e figlio bivaccando sentono ululare un lupo e per gioco si mettono a ululare insieme.
La giustizia, come dicevamo, non sta di casa in questo film dove spadroneggiano il boss spietato, il sindaco corrotto e l'assassino in libertà. John Wayne avrebbe fatto piazza pulita e avrebbe vinto; Clint Eastwood avrebbe fatto piazza pulita e si sarebbe fatto ammazzare; comunque tutti i malvagi avrebbero morso ila polvere. Invece Olsen, lungo il film, rappresenta la figura dell'“uomo che se ne va” (e meno male che Weston lo segue per ammazzarlo, altrimenti se la sarebbe cavata pure lui).
È chiaro che in un western questo lascia l’amaro in bocca… ma saremo gli ultimi a dire che non sia realistico.

domenica 6 ottobre 2024

Vittoria

Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman

Il cinema di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman (Butterfly, Californie) cammina su una lama di coltello, si basa sul discrimine impalpabile fra documentario e fiction; i personaggi ripropongono nel racconto se stessi e la loro vita. Vittoria, parlato in napoletano con sottotitoli italiani, ritorna a Torre Annunziata; ora Jasmine, già apparsa in Californie, è sulla quarantina, sposata con tre figli, di cui uno già grande. Lei ha un sogno ricorrente: il padre morto (la storia tocca lateralmente l’ILVA e l'amianto) le consegna una bambina; e una figlia femmina è il suo desiderio di sempre. Jasmine, che ha avuto tre parti cesarei, non vuole un’altra gravidanza; decide di adottare una bambina in Bielorussia. Questo causa un litigio immediato e poi un tiramolla di frizioni col marito Rino. In alcuni momenti sembra che Jasmine si comprenda meglio col figlio maggiore Vincenzo; ma il rapporto è forte con l’intera famiglia (“Voi siete la vita mia”).
Marilena “Jasmine” Amato “recita” se stessa come gli altri, ripercorrendo – liberamente ispirato”, dice una didascalia – il racconto vero della sua adozione nel 2016; e i suoi primissimi piani ricevono un'indubitabile potenza dalla particolare natura del film. Jasmine è incrollabile («‘na capa tosta» come suo padre, sentiamo nel film). I problemi familiari, la macchina burocratica, i costi spropositati necessari per adottare, niente la ferma. Il montaggio di Alessandro Cassigoli è legato ai sentimenti, tanto elegante quanto significativo.
Una bella ellissi, non l’unica del film, ci porta alfine da Torre Annunziata in Bielorussia, dove Jasmine e Rino incontrano la piccola Vittoria; ed è una splendida scena dove l'enunciazione visiva della bambina è ritardata (prima un dettaglio, il braccio, poi la piccola è tenuta fuori fuoco) fino al “Le posso andare vicino?” di Jasmine. Ma i problemi non sono finiti. Vittoria, che non reagisce nel primo incontro, ha un disturbo cognitivo, non si sa quanto grave. La crisi, anche personale di Jasmine, raggiunge il suo apice in una tesa sequenza in cui la bambina dovrebbe disegnare un cerchio (è un test per capire la gravità del disturbo) e non vuole. La scandiscono in modo drammatico le frasi in bielorusso non tradotte (fra cui si capisce davaj, “avanti!”). E questo dramma è risolto, imprevedibilmente, dal marito, con un autentico coup de théâtre, però radicato nella realtà, che realizza un alto momento commovente. Nella scena seguente coi palloncini per la prima volta vediamo la bambina ridere. La serie di foto con didascalie che appare alla fine (ove, naturalmente, la bambina è un’altra: quella vera)
ci conferma che il titolo Vittoria ha un doppio significato.

sabato 28 settembre 2024

Vermiglio

Maura Delpero

È stato detto unanimemente, quando il film è passato alla Mostra di Venezia vincendo il Leone d’Argento - Gran Premio della Giuria, che Vermiglio di Maura Delpero si inserisce nella linea di Ermanno Olmi (L’albero degli zoccoli, Torneranno i prati). Ma non nel senso di derivativo o imitativo: questo notevole film, recitato in dialetto trentino coi sottotitoli, è un apporto attivo e vitale.
Vermiglio è un paese povero e isolato della Val di Sole; l’epoca è la fine della seconda guerra mondiale e subito dopo. Il maestro Graziadei ha dieci tra figli e figlie; è in freddo col maschio maggiore ma affettuoso verso le tre figlie più grandi: la sfortunata Lucia, l’inquieta Ada e la piccola Flavia che è la più brillante nella scuola elementare. In questa famiglia di dignitosa povertà (i due figli maschi dormono nello stesso letto in posizione invertita), solo Flavia potrà continuare gli studi, con dispiacere di Ada che l’avrebbe voluto. Lucia si innamora di un soldato siciliano rifugiato, Pietro, e lo sposa; il matrimonio avrà una svolta drammatica.
Attorno a queste figure, Vermiglio è un film corale. Ogni personaggio ha diritto all’attenzione; ogni personaggio ha un’autenticità profonda, che viene convogliata da un’eccellente direzione degli attori, professionisti e non professionisti. Non c’è né arcadia sciocca né naturalismo brutale nella descrizione attenta della vita del paese nel suo svolgersi, il lavoro, le chiacchiere, le feste, la trasgressione segreta nella “ribelle” del paese, i battesimi e i funerali, gli interrogativi dei più piccoli sulla morte, la religione: le preghiere, la confessione, i riti, con la pregnanza del latino ecclesiastico, con le sue formule conosciute da tutti. Maura Delpero viene dal documentarismo, una lezione che si vedeva anche nel suo primo film di fiction, Maternal; la vivezza con cui emerge la vita collettiva d’allora a Vermiglio (che poi è il paese di nascita del padre della regista) è debitrice a un occhio “antropologico”. In un rito popolare nella parte iniziale del film, è Lucia a impersonare Santa Lucia, la portatrice di doni, condotta sull’asino con un velo sul viso che la “acceca” come la santa senza occhi (curiosità: la melodia del canto su Santa Lucia che sentiamo nella scena è la stessa della ninnananna friulana Sdrindulaile). Verso la fine del film, quando è incinta ed emerge che il matrimonio è stato una disgrazia, la donne anziane commentano, fra dispiacere e malignità: “A forza di fare Santa Lucia è diventata orba anche lei”.
È tempo di guerra, che non compare direttamente ma è una presenza costante col suo carico di dolore, da cui si torna sconvolti. “Quelli che tornano dalla guerra hanno i segreti”, dicono le donne del paese, e Pietro parlando della vita dei soldati: è “come se sei vivo, però non proprio”. L’accuratezza storica ripesca, per l’aereo “nemico” che ronza sopra il paese, il nome “Pippo”, che con impaurita familiarità veniva popolarmente dato (anche in Friuli) ai solitari ricognitori alleati.
Mentre nella maggior parte del cinema italiano i personaggi sono portatori di giudizi fin dal primo apparire, l’adesione al concreto di Maura Delpero introduce figure autentiche, cioè complesse. Il miglior esempio è la figura del maestro (Tommaso Ragno), patriarca in tutti i sensi che impone ai paesani la linea morale sulla guerra (per cui Pietro non viene denunciato) e in famiglia è la figura patriarcale in tutti i sensi (superbo uno scambio di battute fra lui e la moglie Adele subito dopo il parto di lei). Vediamo la sua interiorità e le sue contraddizioni; acquista dei dischi di musica classica anche se non gira denaro in famiglia (“pane per l’anima”, e li userà anche per le sue lezioni) e quando Ada va a rubare le sigarette nel suo cassetto vi scopre un album di fotografie di donne nude, che la turbano, e a cui ritorna più volte, punendosi poi con inconsuete penitenze.
Nella fotografia di Michail Kričman l’aspetto visuale del film si basa su una sorta di contrappunto fra la quotidianità dei volti e degli ambienti in dialogo con i grandi paesaggi della montagna - però, questi, non alieni ma egualmente familiari ai viventi. 
È la stessa familiare conoscenza di cui parla Manzoni (ciò non toglie che una panoramica ascendente lungo una cascata possa rappresentare l'idea del suicidio).
Vermiglio è una storia sul fluire del tempo, e sui drammi e dolori che vi si incistano, come ferite destinate forse a cicatrizzarsi e forse no. Come (e anche più che) in Maternal, Delpero coglie in modo potente la densità dei gesti, degli sguardi, delle parole espresse – in una parola, l’immediatezza assoluta delle cose.


venerdì 27 settembre 2024

Finalement - Storia di una tromba che si innamora di un pianoforte

Claude Lelouch

Ci sono nel cinema i registi che invecchiando si appannano o si perdono. E poi per fortuna ci sono i grandi vecchi, che hanno raggiunto una pienezza artistica che è anche (coincidenza interessante) pienezza di comprensione morale e umana. Un esempio famoso è Clint Eastwood. Un altro, qui in Europa, è Claude Lelouch.
Nella “fiaba musicale”, come scrive Lelouch nei titoli di testa, Finalement – Storia di una tromba che si innamora di un pianoforte Kad Merad è Lino Massaro, un avvocato che soffre di una malattia al cervello – quella di dire la verità parlando “senza filtri” – si aggira per la Francia suonando la tromba e sparando panzane a chi gli offre un passaggio in auto (perché si identifica con i suoi clienti e fa propria la loro storia). Nelle sue peregrinazioni incontra anche Gesù con gli Apostoli e Dio in persona: ma è un'allucinazione probabilmente. Intanto una famiglia allargata e complicata si dispera e lo cerca.
Turbinare di musica, di umorismo, di cinema, è un film che si può solo amare. Come in tanto Lelouch, penso a Ci sono dei giorni… e delle lune, è una delizia assoluta il montaggio/narrazione sfavillante, musicale (e infatti qui la musica entra abbondantemente), dove si può intravedere la lezione di Sacha Guitry.
È anche, Finalement, un monumento che Lelouch eleva a Lino Ventura, il quale appare in flashbacks (in realtà frammenti dei suoi film col regista) nel ruolo “retrospettivo” del padre gangster del protagonista, morto in carcere. Ed è un monumento al cinema, con una serie di riferimenti innamorati. E in questa vena è anche un monumento di Lelouch a se stesso, che si autocita non senza ironia.
L’inesplicabile fecondità del caso”, sono parole di Lino Massaro alla fine, determina i fatti e i destini. Finalement è un’esaltazione del caso, della libertà e dell'amore (anche quando è mercenario). Come tutti i grandi vecchi, Lelouch esalta la vita.