venerdì 28 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Giappone


 

C’è poco da dire, il Giappone resta la miglior cinematografia asiatica; e alla pattuglia giapponese al Far East Film Festival dobbiamo il miglior drappello di film del FEFF 2024.

Ichiko

Sappiamo veramente chi sono le persone che amiamo? È la stessa domanda di Vertigo di Hitchcock, al quale lo splendido Ichiko di Toda Akihiro (a mio parere il più bello del festival) può farci pensare, non per la trama thriller ma per come in una storia d’amore rende in modo assoluto il dolore. Ichiko, la giovane donna del titolo, convive felicemente da tre anni col fidanzato. Un giorno, dopo che questi le ha fatto una proposta di matrimonio (ma c’entra anche una notizia in tv?), Ichiko inspiegabilmente si allontana in gran fretta da casa e scompare. Rivoltosi alla polizia, il giovane si sente dire che Ichiko non esiste. E qui parte la sua ricerca, che scava nel passato per ricostruire – attraverso le scarne testimonianze di chi l’aveva conosciuta in epoche diverse la realtà di questa persona sempre avvolta nel mistero, che da bambina e da adolescente si faceva chiamare Tsukiko. Lei appartiene, si scopre, a quel consistente numero di giapponesi di cui non c’è traccia ufficiale perché non sono stati registrati alla nascita; ma non è questo il vero segreto nascosto dietro le stranezze (tanto sue quanto di altri che gravitano intorno a lei) che costellano la sua vita.
È stato paragonato a Rashomon ma non è Rashomon perché non parla dell’ambiguità della verità secondo i vari punti di vista opportunisti. Ichiko è una ricerca per trovare i tasselli di un mistero nell'arco del tempo; a occhi italiani più vicino al nostro Pirandello. C’è la stessa tragicità esistenziale de Il fu Mattia Pascal, ma senza neppure l’elemento della scelta presente in Pirandello. Ichiko è una potentissima descrizione della tragicità del destino (non in senso metafisico ma radicato nella realtà) e di come una persona, nonostante tutti i suoi sforzi, ne venga determinata. Un dolore infinito – che solo nelle immagini conclusive tocca (quindi non come presupposizione narrativa ma come commento) i confini linguistici del mélo.

Voice

Si potrebbe considerare un’escursione del Far East Film Festival nei territori del cinema d’essai l’ottimo Voice, della regista giapponese Mishima Yukiko. È una meditazione in tre episodi (più un breve epilogo) con personaggi differenti, in eccellenti interpretazioni. Il tema sotteso ai tre episodi è il rapporto dell’essere umano con la morte, il dolore e soprattutto il ricordo, con una centralità della donna secondo una forte prospettiva di sguardo femminile. Al fondo stanno l’esperienza traumatica e la sofferenza derivata da una violenza sessuale in età infantile – qualcosa che per la regista Mishima ha un aspetto dolorosamente autobiografico.
In estrema sintesi: nel primo episodio un uomo anziano diventato donna riceve i familiari per Capodanno, sotto l’ombra del suicidio di una figlia anni prima. Nota in margine: questo episodio si apre con una bella pagina di preparazione “rituale” del cibo (i credits finali listano un food stylist) visivamente notevole: bellezza di un’erba messa trasversalmente su un gambero in una ciotola!
Nel secondo episodio, una ragazza torna al paese d’origine e suo padre equivoca sul motivo della sua depressione, a rischio che la storia finisca male. Nel terzo episodio, quello più lungo, che è in b/n, dopo il funerale di un ex fidanzato del passato una ragazza compulsivamente incapace di avere sesso incontra un giovane gigolò.
Per inciso, in questo episodio, il giovane gigolò essendone appassionato, ci sono moltissimi riferimenti all’Italia (il “comedian Totò”, Nanni Moretti e La stanza del figlio, la Nutella, oltre a una canzone e alcune frasi in italiano).
Comune alla struttura dei tre episodi è una costruzione a forma di mistero: c’è sempre un “perché?” Nel primo e nel terzo (non nel secondo, peraltro meno potente) il motivo viene svelato in una “scena madre” che naturalmente porta in primo piano la capacità attoriale; indimenticabile l’attrice Maeda Atsuko nel climax del terzo e più lungo episodio.

Takano Tofu

Takano Tofu di Mihara Mitsuhiro è il film vincitore del Gelso d’Oro, il massimo premio del festival, attribuito per votazione del pubblico (mentre Confetti di Fujita Naoya è arrivato secondo, Gelso d’Argento). Film familiare, molto amabile, su un vecchio maestro della fabbricazione artigianale del tofu e sua figlia, vi è ovvio il riferimento (sempre molto usato nel campo del cinema gastronomico) fra la qualità e la sottigliezza del cibo e quella della vita – e implicitamente del film. Grandi le interpretazioni non solo dei due protagonisti ma anche dei caratteristi – per esempio la moglie del barbiere, in una scena a due col protagonista, si mangia la scena.
È interessante, nel film, la presenza di Ozu come punto di ispirazione (non come livello estetico, si capisce). Naturalmente c’è nel concetto base del padre che vuole che la figlia si sposi, raddoppiato dal romance del protagonista con una donna anziana – un topos ozuiano rimodellato come un retelling with tofu, quasi un’affettuosa parodia. Ma oltre ad esso (e come strizzata d'occhio agli spettatori) vi sono alcune cose che producono autentici soprassalti di riconoscimento ozuiano: quindi sempre nel segno di una gentile (auto)ironia. In primo luogo, proprio in apertura del film, vediamo una delle tipiche lanterne di pietra di Ozu: ma non in primo piano, che sarebbe stata una citazione troppo diretta, bensì ben visibile nel quadro. Di lì a poco vediamo un treno, ed è inevitabile che le due immagini si fondano per noi. Poi, quando il protagonista è ubriaco, portato a casa dalla figlia, pronuncia la tipica battuta dei bevitori ozuiani: “Come mi sento bene”. C’è, poi, un’altra immagine, che ricorda molto il finale di Viaggio a Tokyo, ed è l'inquadratura del fiume con un solo battello – che in Ozu alludeva alla morte della moglie. Invero Takano Tofu è un film in cui la minaccia della morte è molto presente (i problemi di cuore del protagonista, l’operazione della sua amica) anche se l'inquadratura, molto riconoscibile, sul fiume non è il triste suggello di Ozu. Bisogna ricordare, infine, un altro teina molto presente nel film, questo non ozuiano: è quello della memoria e degli effetti del bombardamento atomico, che pesano ancora sulle vite dei giapponesi.

Confetti

Affascinante e impalpabile, Confetti (che com’è noto in inglese significa “coriandoli”) è un film di adolescenti, opera prima del trentatreenne Fujita Naoya: apparentemente semplice, aereo, in realtà ricchissimo di suggestioni e significato. Lo potremmo chiamare un Bildungsroman senza angoscia. Il protagonista è Yuki, che lavora con una compagnia itinerante di teatro popolare detto taishu engeki, e sul palcoscenico interpreta parti femminili. Durante la sosta di un mese della troupe in un luogo, Yuki, frequentando la scuola locale, crea un rapporto di amicizia a volte intensa a volte scontrosa con un ragazzo e due ragazze entrando nelle loro vite, mentre in secondo piano vediamo un interscambio anche fra gli adulti. Il teatro che si riflette nella vita (il dramma che mettono in scena alla fine parla di una madre a lungo cercata e infine incontrata), le vite personali che si riflettono l’una nell’altra, la ricerca del futuro con l’urgenza angosciosa dell’adolescenza, la sensazione agrodolce per cui ciascuno invidia quello che non ha mentre chi lo possiede magari non se ne cura. Psicologicamente acuto, ben giocato sul linguaggio del corpo, nonché sull’effetto scenografico di palco e costumi, Confetti è un film sull’adolescenza e il teatro, e non direttamente sullo scambio dei ruoli sessuali che deriva dalla recitazione en travesti – quest’ultimo è ovviamente importante ma non ha i soprassalti psicologici, o i brufoli ideologici, che ci si aspetterebbe in Occidente. Senza adagiarsi in un ottimismo programmatico, ma tuttavia restando sicuro della speranza, è un film pieno di umanità e di un sentimento che potemmo ben chiamare serenità.

Motion Picture: Choke

Un eccellente film, scritto e diretto da Nagao Gen, in b/n e muto – non nel senso che non sentiamo quello che dicono i personaggi (i rumori si sentono) ma che essi proprio non hanno la dote del linguaggio, e comunicano a gesti. Siamo in quello che potrebbe essere un paesaggio postatomico: la protagonista (l'eccezionale Wada Misa) vive in un relitto di costruzione moderna nel mezzo di un bosco e vediamo in “casa” oggetti d'oggi arrugginiti; vive come una donna delle caverne, cacciando, andando al ruscello per prendere l’acqua in una zucca, scambiando pezzi di carne secca con un mercante girovago. In realtà, l’assoluta scomparsa del linguaggio è un’indicazione che il realismo sfocia impercettibilmente sul piano simbolico.
Per capire Motion Picture: Choke è opportuno ripensare all’inizio di 2001 – Odissea nello spazio. Come l'inizio di 2001 (l’osso in mano all'uomo-scimmia) ci mostrava l’inizio dell’umanità attraverso l’invenzione delle armi, in questo panorama muto da nuova “alba del mondo” (lo stupore di lei per la lente che accende un focherello di foglie secche!) è giusto usare per ciò che viene scoperto lungo il film il termine invenzione. L'invenzione del sesso, col giovane catturato, del ballo, del gioco. L’invenzione della tecnica (l’acquedotto). L'invenzione della guerra, contro i tre banditi. L'invenzione della schiavitù. Come ha scritto Mark Schilling in una bellissima recensione ripubblicata sul catalogo del festival, Motion Picture: Choke ripercorre la storia del mondo.
Fino allo sconvolgente sviluppo finale, che credo si possa ancora interpretare in termini di prima volta: c’è nella narrazione un passaggio dall'oggettivo al soggettivo, con una bolla di silenzio in cui anche la protagonista non riesce a sentire il suo urlo; un nero alle sue spalle cancella la “casa”; sguardo in macchina di lei. Siamo spostati definitivamente dal realistico al simboli. L’invenzione della dimensione religiosa.
Anche se fra gli altri interpreti Hiba Daiki (il ragazzo) e Nishina Takashi (il bandito) sono più che notevoli, è eccezionale l’interpretazione di Wada Misa nel ruolo muto e mimico della protagonista, con una capacità “magnetica” di convogliare i sentimenti e rappresentarli, quasi telepaticamente, al pubblico.

Bushido

Il regista Shiraishi Kazuya, che di solito si fa notare per una narrazione enfatica (The Blood of Wolves, Last of the Wolves), in questo period drama vira invece sull’atmosferico, e consegna un film indubbiamente intenso. Il titolo internazionale Bushido non fa niente per dissipare un equivoco: molti confondono ancora i film di samurai con i chambara (scontro fra samurai all’arma bianca), oppure in mancanza di duelli si aspettano un film sentimentale. Non è così col presente film (che al FEFF ha vinto il premio dei Black Dragons, gli abbonati sostenitori).
Yanagida è un samurai ridotto in povertà dopo aver lasciato il castello del suo signore per una falsa accusa. Vedovo, vive con sua figlia Okinu. È un campione di go, e in questa veste fa amicizia con il ricco mercante Genbei (le interpretazioni dei due, rispettivamente Kusanagi Tsuyoshi e Kunimura Jun, sono veramente eccellenti). Quasi tutta la prima ora trascorre in una quieta costruzione dell'atmosfera psicologica (e storica), con una forte attenzione sul gioco del go – il quale naturalmente ha nelle sue mosse addentellati metaforici che a noi occidentali sfuggono.
L’improvviso arrivo di un altro samurai con notizie importanti cambia in profondità il corso della narrazione. Liberato dall'accusa, Yanagida si mette in cerca del vero colpevole per vendicarsi; ma la questione è complicata dalla sparizione misteriosa di una forte somma in casa di Genbei. La seconda parte del film è più sincopata, contiene una dose di suspense (relativa al destino di Okinu che rischia di finire a lavorare in un bordello) e culmina in un momento di duello – anche se questo non conclude la narrazione.

The Yin Yang Master 0

Quando nel lontano 2002, al quarto FEFF, ci siamo deliziati con il fantasy-horror in costume The Yin-Yang Master di Takita Rojiiro (2001), poco sapevamo del fatto che il suo protagonista Abe no Seimei sia una figura importante del mito giapponese, un famoso onmyoji, astrologo e difensore magico dell'Imperatore e della corte imperiale nell’epoca Heian. Abe no Seimei è apparso in più di un film, e gli inizi della sua carriera sono drammatizzati in The Yin Yang Master 0 di Sato Shimako, fantasy con il giovane Abe agli inizi della carriera in una scuola di onmyoji piena di intrighi. Il film ha degli aspetti affascinanti (il danzatore mascherato che crea danzando la magia nera) ma andando avanti si perde un po’. C’è davvero da riflettere su quanto il cinema abbia perso nel suo patto faustiano con la CGI. Come che sia, pur privo della magia dei vecchi fantasy giapponesi e hongkonghesi, The Yin Yang Master 0 si lascia vedere; si apprezza l’impegno dei tre interpreti principali; e si ammira per tutto il film la grande bellezza dei costumi.

Gold Boy

Oggi gli adolescenti assassini sono un fenomeno sociologico – è quello che l’Occidente ottiene, e si merita, per aver distrutto il sistema educativo – ma il bel Gold Boy di Kaneko Shusuke ci riporta all’antico concetto del ragazzino come mostro, mosca bianca in un universo che non se lo aspetta - e tanto più inquietante per questo.
In verità i mostri del film sono due. Il primo è un adulto che ha ucciso i genitori della moglie come vendetta per un suo tradimento, fingendo un incidente (bisogna vederlo quando, attore consumato, piange davanti alla polizia). Il secondo è il tredicenne Asahi che, essendo venuto per caso in possesso di una prova contro l’assassino, cerca di ricattarlo con l'aiuto di due non tanto intelligenti amici (molto più vittime che colpevoli). Uno penserebbe che fra un adulto astuto quanto spietato e un trio di adolescenti non c’è partita, ma Asahi è un vero genietto del male (e in segreto ha già un curriculum criminale di tutto rispetto). L’abile regista di Death Note (anche quello, in fondo, era una battaglia di ingegni...) è al suo meglio nel descrivere questa “gara a fregarsi” senza esclusione di colpi, e descrive la totale, agghiacciante amoralità di Asahi senza mai cedere al buonismo che avrebbe attratto un regista italiano. Alla fine muoiono tutti, come nell'Amleto, ed è l'unica soluzione possibile.

sabato 22 giugno 2024

Fuga in Normandia

Oliver Parker

Fuga in Normandia di Oliver Parker è tratto da una storia vera. Il veterano della Royal Navy Bernie Jordan (Michael Caine), 89 anni, non è riuscito a trovare un posto nel viaggio collettivo in Normandia per le celebrazioni del settantesimo anniversario del D-Day, lo sbarco che sconfisse Hitler. Abbandona la casa di riposo dove sta con la moglie Rene (Glenda Jackson) – la complicità amorosa fra i due è l’aspetto più bello del film – e parte per fare, con successo, il viaggio da solo. Come tanti veterani, fra cui quello con cui fa amicizia nel viaggio, Bernie ha un dolore nascosto, relativo alla morte di un giovane soldato impaurito, che lui aveva appena rassicurato, durante lo sbarco; di questo dolore lo curerà, non il viaggio, ma le parole della saggia Rene al ritorno. L’impresa di Bernie suscita un clamore mediatico, che non gli fa perdere la testa; alla fine lo ritroviamo a tranquillo passeggio con la moglie – che sgonfia di nascosto le gomme a un gruppo di maleducati stronzetti ciclisti.
Lo spettatore non deve aspettarsi né la grandezza con un respiro simbolico del "viaggio del vegliardo" come in Una storia vera di David Lynch né la commozione del discorso sui reduci e i cimiteri di guerra come in Giardini di pietra di Francis Ford Coppola. La regia di Oliver Parker è corretta ma piatta; Fuga in Normandia è un onesto piccolo dramma, che rimarrà nella memoria per i due protagonisti al loro last bow (Glenda Jackson è morta pochi mesi dopo la fine delle riprese, Michael Caine si è ritirato dalle scene). È una gara fra due mostri sacri, con due stili recitativi a confronto. Glenda Jackson ha una recitazione conscia del pubblico, con piccoli tocchi mimici o mutamenti nell'inflessione di voce che entrano all’improvviso, come consapevole variazione. Michael Caine invece ha una recitazione minimalista, tutta trattenuta, dove l’elemento emotivo viene scatenato tramite un’espressività controllata e un’intensità degli occhi.
Inframmezzato da brevi flashback, tanto sullo sbarco quanto sul rapporto fra Bernie e Rene nel periodo bellico, Fuga in Normandia è naturalmente un film sulla guerra. In un momento in cui essa si riaffaccia in Europa, il film pone in risalto i due volti della guerra, la sua disastrosa ingiustizia (“Che spreco”, mormora Bernie nel cimitero di guerra) e la sua tragica necessità (“Merci, monsieur”, gli sussurra un'anziana signora francese per strada). C’è sempre un Hitler, o un Putin, da fermare. Ma soprattutto è un film sulla vecchiaia e sull’amore da vecchi; ed è qui che trova i suoi momenti di particolare umanità.

venerdì 21 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Filippine Indonesia Thailandia Malaysia


Far East Film Festival 2024: segue qualche nota su tre film filippini, due indonesiani, uno thailandese e uno (poco convincente) malaysiano.

Becky and Badette

L’intelligente commedia un po’ almodovariana Becky and Badette, firmata dal bravo Jun Robles Lana (Bwakaw, Barber’s Tales, Die Beautiful), deve molto alle sue due eccellenti interpreti: Eugene Domingo, già nota al pubblico del festival come ottima attrice tanto nei ruoli comici quanto in quelli drammatici, e la comica Pokwang, una scoperta per noi. Becky e Badette, amiche fin dalle elementari, da adulte vivono insieme e sono due losers, l’una musicista fallita, l’altra aspirante attrice fallita. Una ex compagna perfida le invita alla rimpatriata del liceo solo per farsi beffe di loro (dice anche che tutti devono presentarsi col costume più sgargiante possibile mentre non è vero). Tenute in disparte da tutti, le due si ubriacano e, soltanto per scandalizzare, vanno al microfono e si inventano di essere una coppia lesbica. Il giorno dopo, passata la sbronza, scoprono che la loro scenata, filmata, è diventata virale, e che sono diventate eroine del mondo queer (bellissima la gag relativa alle loro mamme). La carriera di entrambi decolla e raggiunge livelli stratosferici. Nel film compaiono diverse figure dello spettacolo filippino nel ruolo di se stesse, come la regista Sigrid Bernardo o il cantante Ice Segundo. Ma la finzione comincia a pesare, e l’eterosessualità a esigere buffamente i suoi diritti, quando si rifà vivo il bellone di cui erano innamorate entrambe al liceo.
Piccola nota spoilerante (attenzione!): lo scrivo per mostrare un tratto intelligente della sceneggiatura. Una situazione simile, nove film sui dieci l’avrebbero risolta inventando che le due si innamorano davvero, così la finzione diventa realtà e si salva tutto l’impianto. Qui invece restano etero, anche se c’è una scena ambigua che suggerisce vagamente un possibile sviluppo in quel senso (ma riguarda una sola delle due). La conclusione infatti è agrodolce: allegra ma non trionfale.


Rookie

Di solito il cinema sportivo ha un impianto prevedibile (difficoltà-crescita-vittoria), e il piacevole film di Samantha Lee non fa eccezione per quanto riguarda l’aspetto dello sport (il volleyball o pallavolo), che gli dà la struttura narrativa. La rookie Ace, appassionata di basket, arriva per trasferimento in una scuola superiore dove il basket non si gioca; la coach vede le sue capacità e insiste per inserirla nella squadra di volleyball. Ace è dapprima presa di mira dalla campionessa della scuola, Jana. Poi diventano amiche intime – e insieme affrontano il campionato regionale nella classica partita sul filo del rasoio, all’ultimo punto. Ma su questa struttura tutt’altro che nuova – però ben narrata – il film innesta altre due tematiche, che lo variano: un vice-coach molestatore e, soprattutto, l’omosessualità di Ace, che diventa un punto centrale del film senza diventare un tormentone didattico e lamentoso come spesso accade.
Il film è raccontato in modo assai pulito, nel senso di netto, fluido, senza sbavature, in una parola molto professionale, che dà forza alle atmosfere e che crea un'autentica adesione ai personaggi. Un punto di forza è l’eccellente recitazione delle due ragazze, la già nota Aya Fernandez nel ruolo di Jana e l’esordiente Pat Tingjuy in quello di Ace. La chimica fra i due caratteri, volitiva la prima, chiusa la seconda, è molto ben rappresentata – e le attrici sembrano davvero due adolescenti.

When This Is All Over

Questo film di Kevin Mayuga è una variazione sul tema del lockdown al tempo del Covid, che la fa da protagonista, e su come i poveri e i ricchi lo passavano diversamente (senza sorpresa, ai ricchi andava meglio). Durante il lockdown un giovane (chiamato solo The Guy) vive in un albergo di lusso, mantenuto dalla madre ricca che è a New York. Fa il piccolo spacciatore; il suo fornitore sta nello stesso albergo. Sogna di ottenere un visto per l'America; per questo si immischia con un quartetto di giovani stronzi ricchi, figli di gente potente, e li aiuta a organizzare una festa illegale (a causa delle restrizioni) sulla terrazza dell’albergo. Una giovane cameriera sua amica, Rosemarie, viene licenziata per colpa sua. Lui, espulso dall’albergo, scopre che i ricchi sono cattivi e ha una brutta sorpresa sulla madre. Complice un trip allucinogeno, ha una presa di coscienza che gli fa capire eccetera eccetera, come nel vecchio cinema italiano.
Questo film non eccelso ma scorrevole, è una dramedy, più drama che comedy, o forse meglio, è un drama (con un tocco buffo nel personaggio del fornitore) che d'improvviso sbocca in un momento di comedy alquanto incongruo, la scena in cui tutto il personale dell’albergo sviene per dei biscotti drogati.
Oltre all’ambientazione inusuale, il pregio del film è una certa sveltezza, che porta a un paio di scene riuscite. Non dico la sequenza del trip, che è di grande ingenuità (il contenuto è telegrafato e la messa in scena grossolana, con grande uso di cellofan sui volti durante l’allucinazione). Un problema è, non tanto che il protagonista è uno sfigato, ma che l’interprete (Juan Karlos) è privo di carisma. Molto meglio Jorrybell Agoto, che interpreta Rosemarie.

Train of Death

Il regista indonesiano Rizal Mantovani è uno specialista dell’horror, autore dei tre film della trilogia Kuntilanak e di Kerusupan: come mostra almeno quest’ultimo, è un cineasta influenzato da Sam Raimi. Train of Death è un horror senza infingimenti, sul disastroso viaggio inaugurale del treno eponimo Di questa film non si può dire, come qualcuno ha fatto, che sia un Train to Busan indonesiano (a parte l’ovvio fatto che svolgersi su un treno comporta una dimensione spaziale obbligata), ma certamente vi si vede l'influsso di Raimi, in certe soggettive “spettrali”, nella concezione degli spiriti e, fortemente, nel finale (che non vado a spoilerare, perché è passabilmente sorprendente).
Mentre in Train to Busan, infatti, la dimensione del male è orizzontale, umani vs. umani mutati in zombi, in Train of Death è verticale: umani contro démoni; ove dire “contro” non è nemmeno esatto perché non c’è alcun mezzo di difesa: i passeggeri del treno sono come pesci in una vasca di allevamento. Il concetto è che il viaggio inaugurale di un treno attraversa una foresta abitata dai démoni dove i soliti corrotti (che viaggiano sul treno nel vagone di testa) hanno abbattuto molti alberi per far passare la linea ferroviaria. La vendetta degli spiriti farebbe contento qualunque ecologista.
Il treno comprende cinque vagoni e ad ogni galleria un vagone, semplicemente, svanisce, attaccato dai démoni che massacrano i passeggeri. Questo crea per gli altri viaggiatori una sorta di macabro conto alla rovescia, che si concluderà nella cabina motrice. Il film mette in scena – in modo un po’ ovvio ma avvincente – tutta la consueta galleria di ritratti: i corrotti che prima nascondono i problemi e poi negano l'evidenza, i ricchi della classe VIP con la puzza sotto il naso, i poveri che sono i primi ad accorgersi del disastro soprannaturale, il personale di bordo diviso fra gli ordini del capotreno e la paura.

13 Bombs

Siamo a Giacarta, dove un’organizzazione terrorista avverte il gruppo antiterrorismo collocato 13 bombe che scoppieranno fra un certo lasso di tempo. Si crea la classica corsa contro il tempo, ed è particolarmente notevole, per un paese musulmano, che l'eroina sia una donna, la poliziotta Karin (Putri Adyudya), che domina con uno sguardo veramente d’acciaio il suo collega-oppositore maschilista e nascostamente invidioso. Fa parte della suspense del racconto la ricerca di una possibile talpa nelle file dell’antiterrorismo stesso.
Sul piano della messa in scena del disastro, dall’attacco iniziale a un furgone blindato all’esplosione di un treno e così via, il film non ha nulla da invidiare a cinematografie più paludate nella categoria action. Tuttavia il regista Angga Swimas Sasongko non si limita all’azione (stile Moscow Mission di Yau) ma trasforma il film in un dramma a sfondo politico, dove il risentimento dei terroristi si nutre tragicamente di un sentimento di odio e vendetta per la povertà e la corruzione che li hanno rovinati. Così, sebbene con qualche lungaggini nella parte finale (peraltro assai ben messa in scena, come il resto) il film crea qualcosa di molto vicino a un'ambivalenza morale. Il terrorismo spietato di questa organizzazione è orribile ma la tragedia personale del suo capo – che naturalmente apprendiamo tardi nel film – non si può dire che non lasci dentro un segno.

Death Whisperer

Il thailandese Death Whisperer di Taweewat Wantha è tratto dal romanzo Tee Yod di Krittanon Chaimin, come cerca di spiegare in pessimo inglese una didascalia iniziale. Spesso il pubblico del FEFF guarda un po’ dall’alto in basso gli horror thailandesi, ma a torto, e questo è senz’altro bello. Parla di una famiglia thailandese-cinese che viene perseguitata da uno spirito maligno potentissimo, che vuole possedere la sorella di mezzo, di nome Yam.
Dato il pessimo gusto della scelta dei nomi, che fa impallidire Qui Quo Qua, come aiuto al ricordo della visione mi sembra utile fornire – in ordine decrescente di età – i nomi dei sei figli della sorella perseguitata: i maschi sono Yak (un ex soldato), Yos e Yod; le femmine sono Yad, Yam e Yee (una bambina). I protagonisti sono il figlio e la figlia maggiori. Gli altri componenti della famiglia sono il padre (un imbecille autoritario) e la madre.
Anche se il film non rifugge da scene sanguinose (e pozioni ripugnanti tipiche della magia thailandese), la descrizione della possessione di Yam viene resa bene senza bisogno di effetti stile L’esorcista per impressionare: bastano occhi sbarrati che sembrano più grandi del normale, col bianco che passa a una strana tinta azzurrina, e naturalmente una buona recitazione.
Con una musica thrilling efficace ma troppo presente, il film descrive molto bene la progressiva disintegrazione della tranquillità familiare, anche mettendo in evidenza le tensioni latenti dentro questa famiglia (lo stupido padre, il fratello di mezzo ostile al primo). Per quanto riguarda il contenuto horror, ammetto che alcuni jump scares mi hanno fatto saltare sulla sedia; il racconto è adeguatamente pauroso nel suo svolgersi e l’elemento macabro non si pone freni – fino a sfociare in un pre-finale di puro delirio.


Reversi


Nel film malaysiano Reversi di Adrain Teh, Akid ha la capacità, un dono di famiglia, di tornare indietro nel tempo (però si avvicina alla morte, nel presente, di tanto tempo quanto ne trascorre nel passato): ma le misteriose regole spiegategli da suo padre impediscono sia di usare questa dote per arricchirsi sia, peggio, per cambiare il passato salvando la vita ai propri cari. È un po’ come in Final Destination: chi è predestinato deve morire comunque. Un elemento culturale interessante è vedere questo concetto dello sforzo di cambiare il destino alla luce della cultura islamica, basata su un monoteismo assoluto (il concetto delle leggi naturali come “abitudini di Dio”),  che è deterministica e fatalista – infatti a un certo punto sentiamo la tipica espressione musulmana “Era scritto”.
L’idea del film non è priva di attrattive ma la sua realizzazione è faticosa. Avverto subito che gioca più sull’aspetto mélo che su quella suspense. L’impressione è di un film ambizioso ma modesto, con una prima parte discutibile, con due figure sedute che chiacchierano interminabilmente rimandando a flashbacks vari mentre Akid racconta all’altro le sue vicissitudini, e una seconda parte che va per la tangente per la macchinosità di concezione.

giovedì 20 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Cina e Hong Kong


Il cinema di Hong Kong attraversa un periodo di transizione: dove i piccoli film intrisi di nostalgia hanno meno successo e le più ricche coproduzioni con la Cina continentale non sempre colgono nel segno. Fra i film interamente hongkonghesi, menziono solo un film.

Peg O’ My Heart

L’horror, lo sappiamo, si avventura volentieri nei territori del sogno (ombra di Freddy Krueger!). È una dimensione difficile da visualizzare, ma in Peg O’ My Heart Nick Cheung (regista, co-sceneggiatore e anche interprete) realizza un buon lavoro in questa immersione, e resteranno nella memoria alcuni lampi di paura (l'uomo che insegue il taxi a velocità impossibile battendo la testa contro il vetro del finestrino) o di magnifica bizzarria (la fuga del personaggio femminile interpretato da Fala Chen in ralenti, sulle note romantiche della canzone, inseguita dalle persone tutte uguali in volto – che a loro volta il ralenti fa muovere come un balletto).
Di disturbi del sonno soffrono entrambi i protagonisti, le cui storie vengono a intrecciarsi. Uno è il dottor Man (Terrance Lau), uno psichiatra che si interessa tanto ai suoi pazienti da improvvisarsi investigatore ai fini della terapia; l'altro è il tassista Choi (Nick Cheung), che non osa dormire per via degli incubi – di conseguenza, alla guida è pericoloso – e ha una moglie deranged in preda alle allucinazioni. Aggiungerei che mi par di vedere un ricordo di Kurosawa Kiyoshi nel concetto di “contagio” serpeggiante in questi sogni: quando viene fatto l’elettroshock a Nick Cheung, le immagini che vediamo lampeggiare non sono solo quelle dei suoi incubi ma anche quelle degli incubi (dimenticati) di Terrence Lau. Nota che nel film (e nei sogni in particolare) non c’è niente di casuale: non sembra, ma ogni tassello finisce per andare a posto, lasciandoci un’impressione di costruzione rigorosa.

Dust to Dust

Il raffinato Dust to Dust di Jonathan Li è un raro esempio di coproduzione Hong Kong-Cina interamente riuscita. Incrocia il thriller e il film procedural romanzando la storia realmente accaduta di una caccia all’uomo durata decenni. Da notare la bellissima apertura con un improvviso assassinio ripreso in campo lunghissimo (serve alla narrazione, è perché non si riconoscano i personaggi, ma è elegante comunque). In seguito l’inizio è un po’ lento, ma il film prende presto il volo con la prima delle due rapine della trama. C’è una scena intermedia fra queste due rapine, che si svolge attorno a un tavolo di ristorante, che è quasi Tarantino. Jonathan Li, che era stato anche aiuto regista di Infernal Affairs III, mostra dell’autentica capacità.
Dopo una grande rapina, con morti, in Cina, organizzata dal terribile industriale Chen Xinwen (Da Peng a.k.a. Dong Chengpeng), la polizia individua i rapinatori di secondo piano e Chen e suo cugino scappano in Birmania; lì Chen uccide un uomo, Mo Zhiqiang, per rubargli l’identità, sotto la quale ritorna in Cina e mette su famiglia, vivendo indisturbato per 18 anni. Ma il tignoso investigatore Wang (Lam Ka-tung, vale a dire Gordon Lam) non molla neppure dopo essere andato in pensione.
Mentre Gordon Lam è efficace ma tende un po’ a fare il Clint Eastwood con gli occhi a mandorla, Dong Chengpeng è veramente spettacoloso in un doppio ruolo (Chen giovane e grasso, il falso Mo di mezza età e magro). Come Chen, delinea un personaggio assolutamente spietato ma anche stranamente umano (non nel senso dell’umana bontà, beninteso) e assolutamente credibile. Come Mo, il suo gioco di comprensione reciproca con Wang, un gioco fra cacciatore e preda narrato matter of fact, è una delle eccellenze del film. Chiaramente, il contrasto fra i crimini di Chen, prima, e la vita di buon padre di famiglia del falso Mo, dopo, implica un lato mélo, con una famiglia che la caccia di Wang deve distruggere – in questo senso, nella sua spietatezza l’ultima parte ha qualcosa che ricorda Samuel Fuller.

Raid on the Lethal Zone


Il prolifico (e vecchio amico del Festival) Herman Yau era presente al FEFF con tre film, tutti e tre, possiamo dire, che rappresentando un tratto di congiunzione tra Hong Kong e la Cina continentale, al di là dell’etichetta. Il migliore è Raid on the Lethal Zone, che incrocia i filoni del disaster movie e del film di combattimenti. Siamo nel mezzo di un’esplosione di maltempo che causa inondazioni e smottamenti sulle montagne. Una grande partita di droga sta per essere consegnata, approfittando del caos e del fatto che l’esercito è impegnato nei soccorsi; inoltre, un gruppo concorrente di banditi si prepara a tendere un agguato alla gang degli spacciatori; i protagonisti (polizia di frontiera) devono attaccare i due gruppi. Gli elementi naturali fanno sì che tutta l'operazione diventi un massacro da cui usciranno decimati (ma ai banditi, con soddisfacente severità narrativa, va anche peggio).
Herman Yau è sempre stato un regista enfatico, e dedicandosi con grandi mezzi a un genere di per sé enfatico, come si può prevedere, pompa a mille. Nel suo estremismo fracassone, il film ha delle scene visualmente sbalorditive: in primo luogo con i crolli di parte della montagna, le slavine di fango che travolgono uomini e cose, i fiumi in piena e l'allagamento che spazza la cittadina abbandonata dove si consuma la resa dei conti; ma anche con le semplici sparatorie, in mezzo alla natura e poi nella città abbandonata. Notevole alla fine un car chasing in cui i buoni inseguono il cattivo e l’acqua in piena insegue tutti loro.
Forse ancora più fracassone, ma meno efficace, il folle Moscow Mission, mentre Customs Frontline fa da fanalino di coda. Sono, questi due, film godibili più per qualche singola scena che per l’insieme, a differenza del precedente.

Venendo a parlare della Cina, non si può assolutamente mancar di menzionare il grandissimo Zhang Yimou, che ha ricevuto il Premio alla Carriera. Abbiamo potuto vedere i restauri, a cura del FEFF, di due suoi famosi capolavori, Lanterne rosse e l’ancor più bello Vivere! Abbiamo anche visto il suo recente film Under the Light: un dramma sulla corruzione che è uscito dopo quattro anni, massacrato dalla censura cinese (30 minuti di tagli). Che dire? Fondamentalmente il film che abbiamo visto è un torso, anche con prevedibili problemi di equilibrio narrativo, dove però chi conosce l’opera di Zhang ritrova le tracce del maestro (per esempio i neon di Keep Cool). Infine, Zhang Yimou ha tenuto una masterclass nell’affollatissimo Teatro Nuovo: un meraviglia di umanità, saggezza e modestia che forse resterà nel ricordo di tutti i presenti come il punto più alto del festival.

The Movie Emperor


Nel cinema orientale mi pare che si possa vedere, se non proprio come sottogenere, certo come micro-genere laterale una descrizione fra satirico e critico/autocritica di se stesso come meccanismo, incentrato sulla figura della star. Menziono il filippino Fan Girl di Antoinette Jadaone con Paulo Avelino, su un’ammiratrice che incontra il divo che adora, e anche Saving Mr. Wu di Ding Sheng (interpretato da Andy Lau, come il presente The Movie Emperor di Ning Hao) rientrava in questa linea pur avendo un plot da thriller. La cosa importante è che queste figure di star sono interpretate da star, in un ruolo o coincidente con se stessi o comunque molto vicino: il cortocircuito sarebbe inevitabile comunque, ma qui è previsto, dichiarato, è una vera enunciazione.
The Movie Emperor è il divo Lau Wa-chi (Andy Lau); è una superstar ma non ha la delusione di non vincere agli Hong Kong Awards (che vediamo nel film): gli ruba il premio Jackie Chan. Lau ha la solita vita privata scombinata delle star, con moglie divorziata e due figli piccoli. Vuole interpretare un film che piaccia ai festival; così per il suo nuovo film si butta nel realismo contadino, anche andando a visitare un villaggio per entrare nella parte – e di qui comincerà la sua rovina. Tutto questo è gustosamente satirico, coi discorsi sul contadino cinese povero in giacca di cotone imbottito come trademark per far invitare i film cinesi ai festival occidentali. Per inciso, Ning Hao si permette anche un paio di punture di spillo (ma coraggiose comunque, visti i tempi) rispetto al controllo poliziesco.
Tra l’arroganza da divo di Chi e la balordaggine dei suoi assistenti (e del regista, interpretato da Ning Hao stesso), le cose peggiorano sempre più – il film ci mette dentro con gusto la satira sui social e sugli imbecilli che vi polemizzano per cercare la sensazione di esistere. Nella parte finale, con un maiale che si aggira per i corridoi dell’albergo, mi pare che spunti addirittura un tono polanskiano.

Wonder Family

Molte commedie cinesi appartengono a quel genere che in Italia definiremmo “comico demenziale”. Ingentilito, e con un pizzico di moralismo molto cinese, questo è il carattere del divertente Wonder Family di Song Yang. Il protagonista Qiang (Ai Lun) ha rotto con la sua famiglia di pazzoidi, cinesi che abitano in un paese di fantasia simile alla Russia, e s’è trasferito in Cina, dove ha inventato una app che potrebbe renderlo ricco Torna a casa quando muore il nonno, eroe di guerra, per il funerale. Ma ecco che una meteora che cade sulla casa conferisce a tutti (tranne Qiang) dei superpoteri: il nonno risuscita e diventa immortale, il padre ubriacone diventa invisibile a comando, la sorella maggiore sa volare e una trovatella adottata (gustosa la parodia in flashback della storia della Piccola Fiammiferaia) ottiene il dono della superforza. Questi poteri, però, funzionano solo quando i familiari sono vicini (trasparente la metafora). Saranno necessari per lottare contro il cattivo della situazione, che vuole la app per fare operazioni sporche.
Alla base di questo film giocato sfacciatamente sull’accumulo sta un gruppo comico teatrale cinese al suo ventesimo anniversario, e infatti tutti gli interpreti sono molto bravi. Il migliore è probabilmente Shen Teng, che interpreta in modo esilarante il villain dal nome gogoliano di Cicikov, gustosissima parodia di mafioso russo in salsa cinese.

domenica 16 giugno 2024

Far East Film Festival 2024 - Corea

 

La Corea ha fatto la parte del leone nel lato “storico” del FEFF 2024, che è sempre più importante, con la stupenda retrospettiva 50/50: Celebrating 50 years of Korean film preservation (e non dimentichiamo il piccolo omaggio a Lee Myung-se). Ma ecco qualche nota su alcuni film coreani in concorso.

Citizen of a Kind

Citizen of a Kind della regista Park Young-ju è la drammatizzazione di una storia vera del 2016. Deok-hee è una donna qualunque di aspetto ordinario che, dopo aver perso la sua piccola lavanderia in un incendio, è stata vittima di voice phishing (truffa al telefono, spacciandosi per la sua banca) e ora è rovinata. La voce era del giovane Jae-min, costretto a farlo da un’organizzazione criminale (coreana) che lo tiene prigioniero a Qingdan in Cina con altri, picchiandoli e minacciando le loro famiglie. Come atto di ribellione, lui riesce a far pervenire alcuni messaggi alla disperata Deok-hee. Siccome la polizia coreana non la prende sul serio, la donna va di persona a Qingdan alla ricerca del covo della gang, insieme a tre amiche che forniscono il comic relief in una gustosa recitazione a quattro.
Da notare lo sguardo scettico sulla polizia, impacciatissima in contrapposizione all'organizzazione e alla gelida crudeltà del big boss della banda – circa la quale c’è una scena molto violenta nel finale. I poliziotti coreani sono benintenzionati e stupidi; quelli cinesi sono incapaci e arroganti. Sviluppandosi sulle linee narrative parallele dei due personaggi principali, il film elabora con successo una storia thriller su Jae-min (divenuto in pratica un undercover nel covo) ed una di tensione investigativa con tocchi di commedia su Deok-hee. La cosa importante è che riesce a “cucire” molto bene queste due linee che sulla carta rischiavano di andare ciascuna per la sua strada. L’interpretazione umanissima di Ra Mi-ran, come vittima attiva anziché piagnona, contribuisce a renderlo appassionante.

Exhuma

Com’è ovvio, nel campo dell’horror asiatico un film di ispirazione occidentale può essere comunque piacevole (penso ai bei film di vampiri para-hammeriani di Yamamoto Michio degli anni ‘70), ma quelli che attingono al patrimonio delle credenze e superstizioni orientali hanno in partenza qualcosa in più, perché ci introducono in un mondo meno conosciuto: una specie di esotismo dell’orrore.
Di solito questo tuffo nell’orrore locale si ha attraverso la figura del mostro (i film sulla krasue, sulla pontianak, sugli aswang e via dicendo), ma Exhuma di Jang Jae-hyun si situa un passo più in là, perché mette al centro i riti sciamanici, le superstizioni mortuarie e la stessa visione del mondo orientale, ovvero la teoria dei cinque elementi (proprio su di essa è costruito il finale).
Lee Hwa-rim (Kim Go-eun) è una sciamana ed è amica dell’esperto di feng shui relativo alle tombe Kim Sang-duk (il grande Choi Min-sik) - i cui interventi assieme all'operatore di pompe funebri Ko (Yoo Hai-jin) si muovono nella zona ambigua fra la serietà e l’imbroglio. I tre sono specialisti nel riesumare i morti per spostarli da sepolture “mal collocate”. Ma quando capitano davanti a un’antica tomba solitaria fra le montagne – la scena del rito celebrato dalla sciamana davanti alla tomba vale da sola il prezzo del biglietto – avranno modo di pentirsene.
Il regista Jang Jae-hyun è una vecchia conoscenza del FEFF (The Priests, Svaha). Mostra sempre una sorta di energia selvaggia che anche in Exhuma è molto efficace: non solo per la sua costruzione di fantasmi a scatole cinesi ma per la sensazione di minaccia che congegna e mantiene per tutto il film. L’uso del buio e la scelta di mostrare poco il mostro, fino alla deflagrazione del finale, rinforza quest'atmosfera.

AlienoidAlienoid: Return to the Future

Questa coppia di ambiziosi film di fantascienza, il cui successo è stato limitato dal Covid, è certamente spettacolare ed eccessiva al massimo, sebbene non trascini sempre “dentro” lo spettatore come vorrebbe. Il motivo non riguarda le singole sequenze, spesso eccellenti, ma l’impostazione narrativa: il film è basato sull’accumulo; sviluppi e personaggi sono introdotti in modo un po’ meccanico; è una sorta di “montaggio delle attrazioni” allo stato bruto che denuncia la scuola dei film Marvel (però c’è dentro anche qualcosa di Matrix) – sebbene con qualche tocco di crudeltà molto coreana.
Impossibile descrivere il plot perché c’è di tutto, dagli alieni buoni e cattivi, uno dei quali è un’automobile senziente, al disaster movie fantascientifico, ai viaggi nel tempo, che permettono di introdurre il fantasy in costume e le arti marziali. Un aspetto positivo è un certo sense of humour nelle figure di contorno (i due uomini-gatto e i due “Sorcerers of Twin Peaks”). Dopo che il primo film si interrompe su un cliffhanger, arriva il secondo episodio, o meglio la seconda metà, dove i fili della storia si ricongiungono ma sempre con quella proliferazione un po’ confusa e frenetica. Nuovamente il racconto si articola su due piani temporali, la Corea d’oggi e quella del 1380. Nella parte contemporanea ho trovato piuttosto insensato che in due film girati back to back il secondo film riprenda direttamente dal primo la sequenza dell’esplosione della capsula di atmosfera aliena (solo, aggiungendo in montaggio un personaggio femminile che osserva). Questo aspetto un po’ disappointing aumenta la sensazione di spaccatura già esistente fra la parte in costume, che è la migliore, e quella contemporanea. Fra l’altro, nella parte in costume c’è tutto l’elemento di humour del film. Le due tracce narrative si annodano alla fine, quando gli eroi del XIV secolo e quelli del XXI si uniscono assieme a combattere contro un mostro in CGI non nuovissimo come concezione. Ma almeno è una sequenza passabilmente indiavolata.

12.12: The Day

In Italia non fa pensare a niente ma per i coreani il 12 dicembre è una di quelle date dal significato immediato come per gli italiani il 25 aprile o l’8 settembre. Il 12 dicembre 1979, poco dopo il famoso assassinio del presidente-dittatore Park Chun-hee, il generale Chun organizzò un colpo di stato in Corea. A opporsi fu il generale Jang Tae-wan (nel film, Lee Tae-shin), comandante della guarnigione di Seoul, ma perse. Sia Chun sia il suo amico e complice generale Roh sarebbero poi diventati presidenti della Corea.
L’immondo Malaparte scrisse nel 1931 un libro intitolato Tecnica del colpo di stato. Potrebbe essere il titolo di questo film di Kim Sung-su, che illustra con buona capacità narrativa ed eccellente tecnica della suspense il prepararsi del golpe (eseguito da una specie di P2 militare diretta da Chun), il suo svolgimento, favorito dall’intrico burocratico e dalla vigliaccheria della classe dirigente politico-militare coreana, e infine il suo trionfo. Il golpe minuto per minuto: non è una storia piacevole da contemplare – come sempre nella vita, i cattivi non si pongono regole mentre i buoni sono troppo buoni – ma questa è la storia accaduta. Senza sorpresa, è stato un grosso successo in Corea.

The Roundup: Punishment

I criminali, più sono cattivi più si sentono liberi di far male; la polizia è imbrigliata da leggi e regolamenti, e in fondo è giusto così (guai se no). Sull’innegabile frustrazione creata da questo stato di cose, mettono un cerotto psicologico per lo spettatore i cazzotti potentissimi di Don Lee, alias Ma Dong-seok. Dopo il suo successo personale in Train to Busan, quest’attore coreano è diventato un’icona cinematografica, in particolare con la serie Roundup, di cui The Roundup: Punishment è il quarto capitolo. L’eroe è Ma Seok-do (la somiglianza del nome con quello coreano dell'attore lo rende un marchio di fabbrica), poliziotto burbero e corpulento, dai pugni come mazzate e di poca pazienza con criminali e teppisti – come vediamo qui quando ne incontra un gruppo che sta devastando un ristorantino.
Il regista esordiente Heo Myeong-haeng ha alle spalle una carriera come stunt coordinator: non per nulla le scene di combattimento sono molto buone. In questo film semplice e veloce, il detective Ma riduce in pezzetti un'organizzazione illegale di gioco d’azzardo online. Ma nella vita, e ancor meno nei film polizieschi coreani, non esistono trionfi facili, e anche il colossale Ma dovrà prenderne quasi quante ne dà.


Altri film

Il piacevole Ransomed di Kim Seong-hun è vagamente ispirato a una storia vera. Il rapimento di un diplomatico coreano in Libano (per la gang dei rapitori, il regista ha fatto incetta delle facce più patibolari che si possano trovare in tutto l’Oriente!) viene risolto dall’alleanza fra un “pesce piccolo” della diplomazia scaraventato in loco e un tassista coreano espatriato, amico-nemico-amico, nel più classico buddy movie. Se la plausibilità è traballante (non che importi molto!), l'atmosfera è garantita, e questo Libano odioso e ostile – come nella scena notturna nel villaggio – non ce lo dimenticheremo.

Smugglers è un piacevole film di avventure, ispirato alla tradizione di quelle che in giapponese si chiamano ama (pescatrici subacquee) incrociata con una storia di contrabbando e di tradimenti, con una resa dei conti a distanza di anni. Si lascia vedere, ma certo è un’opera minore nell’importante panorama del cinema di Ryoo Seung-wan. Da notare la presenza della grande Kim Hye-soo, indimenticata ospite a Udine anni fa.

Infine, lasciamo perdere l’inutile e irritante thriller The Guest di Yeon Je-gwang. La prima mezzora potrebbe essere imbottigliata e venduta come rimedio contro l’insonnia; il resto è il più banale (e mal girato) rifacimento di film visti mille volte che si possa immaginare. Non si può pretendere sempre l’originalità, ma almeno, copiare con dignità! Non ci crederete, ma c’è perfino l’ascia di Jack Nicholson che sfonda la porta.

venerdì 14 giugno 2024

Noir Casablanca

Kamal Lazraq

Il titolo originale in francese del film marocchino Noir Casablanca, opera prima del regista e sceneggiatore Kamal Lazraq (di produzione Francia-Marocco), è Les Meutes, ossia le mute di cani. L’analogia fra uomini e cani – che appaiono nell’apertura e ritornano nel finale – è sottesa a tutto il film, come metafora della miseria ma anche di una sottomissione al destino (non sono i cani che scelgono di battersi nei combattimenti per scommessa visti all’inizio) che produce una sorta di dolorosa pietas che cala su tutto.
Il film è la cronaca di una sera e una notte d'angoscia in cui il piccolo criminale Hassan e suo figlio Issam, da lui coinvolto in un rapimento finito male, si trovano alle prese con un cadavere da far sparire. Più intelligente del padre, Issam è costretto ad aiutalo per devozione filiale – ma lo giudica. La stretta focalizzazione sui due crea un’inevitabile empatia. Gli uomini sono marionette della fatalità, in un mondo dominato dalla continua invocazione a Dio e da un impulso religioso parallelo alla terrestrità del racconto (il cadavere dev’essere lavato e composto nel sudario). È, il film, un correre frenetico da un luogo all’altro, con momenti da incubo (l’assalto dei contadini), e da una persona all'altra, in forti ritratti istantanei (citiamo solo il pescatore ubriaco Larbi, nel passaggio più tragico). Se vogliamo trovare un corrispondente occidentale, questo mix di tensione e disperazione potrebbe ricordare la suspense angosciosa dei racconti (e dei film tratti da) Cornell Woolrich. Quando arriva la vecchia auto rossa presa in prestito per il “lavoretto”, Issam osserva scontento che il rosso porta sfortuna. Anche al di là di questa superstizione, si osserva che lungo il film, nell’abile fotografia di Amine Berrada, i volti sono continuamente bagnati da una luce rossa di malaugurio, inquietante e infernale.
Kamal Lazraq ha usato interpreti non professionisti (nella vita l’interprete di Hassan, Abdellatif Masstouri,
vende cibo di strada) e il film è stato girato in sequenza per indirizzarli. Se tutti i visi hanno una loro evidenza profonda (gli occhi del “cattivo” Jellouta in un momento di disperazione!), in particolare quella dello sciocco e smarrito Hassan è una maschera tragica indimenticabile.