Pablo Larraín
Fra
i tanti tiranni
sudamericani del Novecento, il
generale cileno Pinochet è quello che ha incarnato di più come
immagine, quasi come forma grafica, la rappresentazione del male. Per
questo i voli sopra la città di un Pinochet vampiro (inquadrato
di schiena e, come da tradizione, simile a un pipistrello nel suo
mantello di generale)
forniscono l'immagine generatrice del film di Pablo Larraín
El Conde, passato all’ultima
Mostra di Venezia e ora
su Netflix.
L’idea
satirica è bellissima, anche se il film non si può dire pienamente
riuscito. Pinochet è in
realtà un vampiro di
250 anni, che
ha solo messo in scena la sua morte e ora sta
in un ritiro nel
deserto – nel bellissimo
bianco e nero della fotografia fredda
e pittorica di Edward
Lachman – assieme alla
moglie che, ci informa la voce narrante, è “ancora più perversa
di lui” (e c’è tutto un macchinoso subplot su di lei che è
l’amante del maggiordomo-vampiro ma vorrebbe farsi vampirizzare dal
marito). Ancora Pinochet si
aggira in volo a caccia di cuori umani, da
mettere nel frullatore; ma
è stanco, è incerto, forse
vuol morire davvero, forse un’ambigua
giovane (una suora infiltrata
come complice)
gli farà
cambiare idea… Quel ch’è
certo è che intanto i
familiari,
come avvoltoi, si assiepano in
vista dell'eredità.
Secondo una metafora
che risale addirittura a Voltaire, i
succhiasangue esistono ma il sangue lo
succhiano
sfruttando
i poveri. Perché
Pinochet, anche se non vuole ammetterlo (“Chiamatemi assassino ma
non ladro!”), si è arricchito con la famiglia a spese
del
Cile, e questa gigantesca
corruzione sta al centro dei
maneggi familiari e del film
stesso.
Il
difetto numero uno del film è
una certa difficoltà a
organizzare il discorso. Basta
vedere la pesantissima intromissione di una voce narrante femminile
in inglese che
dopo averlo introdotto continua a rientrare continuamente
sostituendosi in
modo “radiofonico” all’azione scenica.
Ora: una
voce narrante può essere
astratta o può appartenere a un personaggio. Dall’inizio, El Conde trasmette la netta impressione che si dia il primo caso; e per questo tale voce
narrante è insopportabile. Nell’ultima parte del film arriva
la sorpresa: appartiene a un
personaggio che entra in scena (e ciò giustifica l’inglese, ma
inutile fare spoiler). Tuttavia dal punto di vista artistico questa
soluzione è sbilenca, perché si ha la stridula impressione di un
cambio di statuto (Larraín
avrebbe potuto facilmente
risolvere mettendo un'inflessione personale, bastava un “io”,
all’inizio).
Non
è l’unica pecca. Stranamente Larraín
(sceneggiatore con Guillermo
Calderón) dà l’impressione
di perdersi nelle minuzie; sfiora ma senza incidere i giganteschi
problemi che il presupposto consentirebbe, in primo luogo il rapporto
fra il potere e la storia, che dovrebbe essere centrale per l’autore
di Jackie. In verità la
parte finale è dinamica e
convincente (per
inciso, è bellissimo il
primo volo
della ragazza vampirizzata);
ma
per arrivarci Larraín
deve passare per una
laboriosa
preparazione, dove tengono
desta l'attenzione
soprattutto le belle immagini in b/n, non
prive di una
valenza citazionistica.
In ultima analisi, e
certamente contro
le intenzioni,
El Conde resta
un esercizio di stile.
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