Alessandro
Comodin
Il
cinema di Alessandro Comodin va seguito con attenzione. Se L'estate
di Giacomo era bello, I tempi felici verranno presto
(anch'esso distribuito dalla Tucker Film) è bellissimo. Comodin
persegue un'idea radicale – e incredibilmente fisica – di
cinema, che, visti i due lungometraggi e il corto Jagdfieber
(La febbre della caccia) che li precedeva, possiamo prendere
come un dato di fatto autoriale. Del presente film, Comodin oltre che
regista e co-sceneggiatore con Milena Magnani è montatore assieme a
João Nicolau, nonché operatore alla macchina per la fotografia di
Tristan Bordmann. Merita aggiungere che una caratteristica dei suoi
film è un uso notevolissimo e quasi ipnotico del sonoro.
Il
tema è una doppia fantasia sulla fuga. Doppia perché il film si
articola in due episodi; due storie collegate da rime e richiami,
come lo scavare, gli animali sventrati nella logica crudele della
caccia, i fucili; ed è anche da notare come la fuga dei due giovani
all'inizio del primo episodio e la corsa del ragazzo e della ragazza
nel secondo si rispecchino sia dal punto di vista spaziale sia da
quello del linguaggio cinematografico, con un carrello laterale che
elegantemente crea un angolo, e non una parallela, col movimento.
Il
primo episodio si svolge in qualche momento durante l'ultima guerra,
fra il 1943 e il 1945- Due giovani sono in fuga in un bosco; appena
scappati si liberano di cappotti di foggia militare, e questo è
l'unico tenue accenno di backstory. Diceva l'autore in un
incontro che Robert Bresson è il suo regista numero uno. Comodin non
imita Bresson – non usa i suoi attori, quasi tutti non
professionisti, come “modelli” in senso bressoniano: tutto il
contrario – ma nel suo film c'è qualcosa di assolutamente
bressoniano: la fatica del corpo, del movimento. Perché in Bresson i
corpi sono pesanti, lourds –
e qui, segnatamente nella sequenza iniziale della fuga ma pure in
tutto il film, c'è una sensazione fisica della gravezza; i corpi non
sono agili, non sono ballerini, si muovono soggetti alla forza di
gravità.
“Ti
ammazzo. Ti butto nel buco e ciao”, sentiamo fra i due giovani in
una rissa scherzosa, da amici, ma non del tutto. C'era qualcosa di
simile ne L'estate di Giacomo.
Si direbbe sia un tratto ricorrente in Comodin questo che
l'amore/l'affetto/il desiderio si colori di un elemento di minaccia
(e vedi nello stesso episodio il gioco pericoloso di puntarsi contro
il fucile). Il secondo episodio, poi, circa quest'aspetto è
paradigmatico e letale.
Anche
nella seconda storia sta al centro il bosco, dove una ragazza,
Ariane, si inoltra, e incontra il lupo – il lupo che raggiunge la
dimensione mitica e umanizzata del lupo mannaro delle fiabe. Ariane
vuole uscire dal quotidiano e ritrovarsi (è il termine usato
nel film) nella natura; ma attenzione, la natura in Comodin è panica
e spietata, e bene lo mostrava già Jagdfieber.
E'
un essere dentro la natura in entrambi i casi. Se il primo
episodio si basa su un realismo di fondo, pur nella voluta
indefinitezza del contesto, il secondo vira su una dimensione onirica
e fiabesca, ma senza perdere di quella materialità che è un tratto
costante di Comodin.
Perché,
cosa notevolissima, Comodin non raggiunge questa indefinitezza
attraverso i mezzi dell'astrazione; al contrario, qui come nei suoi
film precedenti mostra un'assoluta consistenza, un'immediatezza
del reale. I suoi boschi sono così
concreti che il film trasmette una sensazione di sinestesia –
l'umidità, la tattilità del legno e della pietra, l'odore del
terriccio e delle foglie morte sembrano passare attraverso lo schermo
in sintonia con l'elemento visivo.
Il
racconto è criptico, allusivo, si muove su più piani, lascia molto
alla “cooperazione interpretativa” dello spettatore; non è
ricezione passiva di una storia, a tale that's told, ma
piuttosto conoscenza per empatia: come già ne L'estate di
Giacomo, ma in misura maggiore. Esagerando ma nel senso giusto,
potremmo paragonare il film alle macchie di Rorschach, in cui il
nostro inconscio può guardare se stesso. Prendiamo la caverna
onirica in cui si avventura Ariane, uscendone infine come Tom Sawyer
da un piccolo pertugio luminoso: chi scrive ci vede una profondità
ctonia, per cui il passaggio alla luce e all'aperto attraverso quel
pertugio è una ri/nascita; e viene a coincidere con
l'entrata della sessualità; ma attenzione, è una rinascita
crudele, perché è un'entrata nel mondo delle favole – il mondo
del lupo. Che appare nelle forme di un ragazzo che le gira intorno
nel fiume dal fondo fangoso dove lei si bagna, nuotandole intorno in
una sorta di corteggiamento animale. Questa è una storia d'amore e
di sangue. Breve nota in margine: chissà se Comodin ha letto André
Pieyre de Mandiargues (sto pensando ai racconti de Il museo nero)
– c'è nelle sue storie qualcosa che lo ricorda. C'è una
scomparsa, una esplosione di sessualità, una ricerca collettiva, una
morte – e c'è un epilogo in prigione che ridefinisce la storia; ma
non la “spiega” nel senso tradizionale, anzi, aggiunge dell'altro
a questa affascinante, elusiva disponibilità.
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