Poiché
sono potuto andare solo per due giorni al Trieste Film Festival 2017,
questa noterella non pretende di fornire un quadro complessivo del
festival – la
cui raison d'être
è, com'è noto, l'attenzione al cinema dell'est europeo. Ricordo
solo a titolo d'informazione che questo
bel festival, ricco anche di
iniziative a latere,
presentava accanto ai film di
fiction e documentari in
competizione (principalmente, ma non solo, dell'est europeo)
una personale del grande
documentarista russo Vitalij Manskij, il premio Corso Salani per il
documentarismo italiano, e
una quantità
di importanti sezioni collaterali. Fra gli eventi speciali ricordo
l'ultimo film, purtroppo, del maestro polacco Andrzej Wajda, il Padre
padrone dei Taviani nell'ambito
di un omaggio a Omero Antonutti, nonché
l'ultimo (brutto) film di Emir Kusturica, già visto a Venezia.
Mi
limito quindi a qualche annotazione sui film visti, usando per
comodità del lettore il titolo internazionale. E parto con il
potente film rumeno Scarred Hearts di Radu Jude. Storia del
soggiorno in sanatorio e della morte di un giovane intellettuale
malato di tubercolosi ossea, negli anni trenta, Scarred Hearts
è tratto – anche con molte citazioni dirette – dal romanzo
autobiografico dello scrittore e poeta Max Blecher, scritto prima di
morire. Mentre il film delinea la psicologia del protagonista e dei
suoi amici ed il clima intellettuale e politico romeno (sono gli anni
del fascismo montante di Codreanu e della Guardia di Ferro), emerge
con forza indimenticabile l'affresco impietoso della malattia. Ed
ecco, nella gabbia della malattia e del trattamento ospedaliero, la
quotidianità, i sogni, perfino il sesso di questi giovani
intellettuali malati, creature febbrili e rassegnate insieme, fra il
sogno della guarigione e la coscienza sotterranea della sua
impossibilità. Il film è sorprendente nella capacità di sostituire
alla normalità che conosciamo l'altra normalità della vita
in sanatorio – ed è inevitabile pensare a La montagna incantata
di Thomas Mann.
Mentre
non è una sorpresa la bellezza di
Afterimage di Andrzej
Wajda. Wajda è stato uno dei
pochi registi capaci
di fare grande cinema storico mantenendo la stessa semplicità
“illustrativa” del cinema comune, eppure raggiungendo un alto e
commovente livello artistico. Il
film narra gli ultimi anni
del grande pittore
Wladislaw Strzeminski,
perseguitato dal regime
comunista polacco (siamo
nell'epoca buia dello stalinismo)
perché non
si piega all'imperativo del “realismo socialista”. Strzeminski
viene cacciato dall'insegnamento, espulso dall'unione dei pittori,
non trova lavoro e soffre la fame; ciò affretta indubbiamente
la sua morte per
tubercolosi. In una scena
all'inizio del film
Strzeminski
sta per cominciare a dipingere, e la tela bianca diventa rossa:
perché la
luce della finestra passa attraverso un
enorme ritratto di Stalin appena issato sulla
facciata della casa; un
esempio fra tanti della capacità di Wajda
di far scaturire l'immagine metaforica dalla vita stessa, anziché
sovrapporcela.
Parlato
in rumeno ma di produzione moldava è il notevole Anishoara
di Ana-Felicia Scutelnicu.
film lento e meditabondo, come sospeso, scandito in quattro stagioni
che raccontano le
stagioni della vita di Anishoara,
una ragazza di villaggio che passa dall'adolescenza all'età adulta
anche tramite un amore infelice. Lento, poco parlato, impegnativo ma
capace di conquistare, il
film è eccellente nel trasmettere la sensazione del tempo: sia
quello immediato del momento sia quello “lungo” del passare delle
stagioni, e nel
suggerire senza drammaturgia, quasi con oggettività da documentario,
la vita segreta dei sentimenti.
Il
film vincitore del concorso
lungometraggi, il serbo A
Good Wife, è l'opera prima come
regista della famosa attrice Mirjana Karanović
– un
buon film, ma che soffre di una sceneggiatura troppo prevedibile. Una
casalinga di buon livello economico si vede crollare il mondo
addosso: scopre di doversi sottoporre a una mastectomia e scopre una
videocassetta che mostra crimini di guerra commessi dal marito su
prigionieri bosniaci. E' certo una riflessione sulla Serbia e il
passato che non passa perché non è riconosciuto (nella
scena
in cui la vicina di casa butta nella
spazzatura
la vecchia giubba militare di suo marito si
può vedere una
metafora della Serbia che rimuove il proprio recente passato anziché affrontarlo),
ma si focalizza sui rapporti umani all'interno della famiglia e sulla
psicologia della protagonista. Con ottime interpretazioni, fra cui in
primis
quella dell'attrice-regista.
Infine,
due importanti documentari a dimensione di lungometraggio. Il primo è
Like Dew in the Sun di Peter Entell. Il regista, figlio di
emigrati ebrei ucraini, va alla ricerca della memoria e delle tombe
dei suoi bisnonni in Ucraina, una terra (dicono racconti e canzoni
che sentiamo nel film) imbevuta di sangue – dove da sempre è un
“tutti contro tutti” etnico. Così l'odio feroce dell'attuale
guerra civile, di cui Entell ci dà un reportage impressionante, si
inserisce nel ricordo di una spirale inestinguibile di antichi odî
e antichi dolori – gli ebrei, certo, ma anche i tatari ucraini, già
deportati da Stalin e poi ritornati (i sopravvissuti).
Il
secondo è Doomed Beauty
di Helena Treštikova
e Jakub Hejna, prodotto
dalla televisione ceca, che
ripercorre – intervistando
la vecchia attrice prima
della morte a 86
anni nel 2000 – la storia di Lida Baarova. Lei
fu negli anni trenta una
diva del cinema ceco e di
quello tedesco, respinse una
carriera
a Hollywood, e dopo la sua disgrazia lavorò anche in Italia (appare
ne I vitelloni di
Fellini). La sua disgrazia, perché naturalmente oggi Lida Baarova è
ricordata non per la sua carriera artistica
ma per essere stata l'amante del
gerarca nazista Josef
Goebbels. Ciò
la trasformò in Cecoslovacchia
nel simbolo del
collaborazionismo; dopo
la guerra fu imprigionata, poi liberata, e dopo il colpo di stato
comunista del 1948 fuggì avventurosamente in Austria per non essere
arrestata di nuovo. Nel
documentario ammette con l'intervistatrice che nessuno dei suoi ruoli
è stato tanto drammatico quanto la sua vita. Un film sulla storia
della vita di Lida Baarova (è il sottotitolo) – ma anche un film
sulla cecità. Fra tutte le immagini che vediamo, footage
storico e schegge di film, la
più sconvolgente è questa donna vecchia, ancora con la traccia
dell'antica bellezza, piena di amarezza (“I giorni non mi portano
più niente… Non desidero niente, niente del tutto”), che fuma
una sigaretta dietro l'altra e a volte si commuove e si mette a
piangere sulla rovina della sua vita – che ha attraversato senza
capire ciò che le succedeva intorno.
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