“Siamo
così limitati dal tempo, dal suo ordine”. La bella frase che
risuona all'inizio di Arrival
di Denis Villeneuve ci
avverte subito che non assisteremo a un comune film di invasione
aliena (con tutto il rispetto per questa categoria) ma a un'opera
poetico-filosofica, che non nasconde la
sua ambizione
di proporsi come l'Incontri ravvicinati
del terzo tipo del XXI
secolo – anche se i suoi riferimenti appaiono più kubrickiani che
spielberghiani.
In
sostanza: dodici astronavi compaiono improvvisamente, sparse in modo
casuale su tutto il globo (meglio avvertire subito che questa
recensione è spoilerante: si può leggere solo dopo visto il film).
Visivamente
assai bello, Arrival
contiene delle immagini memorabili che di certo
entreranno a far parte dell'imagerie
classica della fantascienza cinematografica. In particolare
l’invenzione dell’astronave a forma di baccello sospesa
verticalmente a mezz'aria (c'è un ricordo di Magritte qui).
La
protagonista Louise Banks
(Amy Adams) insegna
linguistica all’università. Eccellente la
pagina in cui apprende, con noi,
dell'arrival delle
astronavi, con lei che
non ne sa nulla
e si presenta tranquillamente in aula per la sua lezione – dove
trova pochi studenti tesissimi che seguono le notizie in
diretta. Bella anche la
scena
dell'evacuazione ordinata per
sicurezza subito dopo, con l’elemento drammatico dei caccia che
sfrecciano in cielo. Ben presto Louise
viene chiamata dal governo americano a utilizzare la sua competenza
di linguista nei tentativi di
comunicare con gli alieni dell’astronave atterrata (il termine non
è esatto perché, come già detto, levita a pochi metri dal suolo)
sul territorio degli Stati Uniti, nel Montana.
Laddove
gli extraterrestri del cinema
di solito sono molto umani sotto la scorza, quelli del film – gli
eptapodi, simili a enormi polipi – hanno un'alienità
totale, ben
caratterizzata, come il cinema l’ha saputa rendere di
rado. Il loro linguaggio
sembra sfidare qualsiasi possibilità di comunicazione. Nel primo
incontro di Louise con i due
alieni sull'astronave, è
impressionante il paradosso della gravità che s'inverte nel
corridoio che si apre; e ovviamente questo spiazzamento è solo
l'anticipazione fisica del déplacement
sperimentato nell'incontro con la lingua aliena. Nondimeno,
Louise
riesce a porre le basi per
instaurare la comunicazione con
gli eptapodi.
La
forma grafica della loro scrittura è un cerchio variamente
modificato da quelle che ai nostri occhi sembrano sbavature
d'inchiostro. Detto per
inciso: forse è un'osservazione oziosa, ma mi viene in mente che ci
sia un rapporto fra il nostro determinismo segnico e le nostre
superfici lisce vs.
questo modo di scrivere degli alieni e le superfici ruvide, per noi
“innaturali”, delle loro astronavi. Apprendiamo che la
loro lingua/scrittura
(il film sembra unificare i due concetti) non è temporalmente
vettoriale come le nostre ma è
(cito
dal film) “svincolata”
dal tempo, per cui si rivolge allo stesso modo al passato e al
futuro. Il suo modello
metaforico è il palindromo, che si può leggere nei due sensi.
Mentre
l’umanità comincia a comunicare con gli eptapodi, cresce
l’urgenza, perché gli alieni sembrano dirci che sono venuti a
portaci un’“arma”.
Non sarà che vogliono che ci distruggiamo l’un l’altro, come nel
vecchio film di William Asher
I 27 giorni del pianeta Sigma?
Sulla Terra si sviluppa l’isterismo; un dettaglio politico
interessante è che
chi in particolare vuole passare alle maniere forti siano due
dittature aggressive, Cina e Russia, seguite a ruota da stati
barbarici come il Pakistan e il Sudan. Si
verifica anche l'ammutinamento di alcuni soldati americani
– che il film tratta in modo un po' frettoloso, preferendo
concentrarsi sull'espediente di suspense un po' tradizionale della
bomba a tempo. Peraltro bisogna aggiungere che in generale la
narrazione nel film è ellittica, e che non è questa la
preoccupazione principale della sceneggiatura.
Arrival
è, naturalmente, un film sul linguaggio. Come tale sviluppa la più
radicale delle teorie linguistiche, non per nulla citata
didatticamente nel testo, l'ipotesi di Sapir-Whorf: la nostra
struttura conoscitiva dipende dal linguaggio che usiamo, e non
viceversa. Questo concetto,
portato
alle estreme conseguenze, è stato
molto sfruttato
nella narrativa di fantascienza (che non ha bisogno di andare a
cercare comunità marginali come gli Hopi e gli Inuit, come Sapir,
potendo postulare razze assolutamente non-umane con un tratto di
penna): penso a Jack Vance, Philip K. Dick, A.E. Van Vogt (mentre ci
ironizza sopra quell'intelligente autore satirico che è Robert
Sheckley). Nel presente film il concetto viene elevato a livelli di
estremismo, appunto, vanvogtiano: apprendendo il linguaggio degli
eptapodi anche la mente umana – quella della protagonista – si
modifica e lei diventa capace di viaggiare mentalmente nel futuro
allo stesso modo che nel passato; il
che provvede la soluzione di
quell'impasse che rischiava di provocare una guerra fra terrestri e
alieni. L'“arma” va
intesa come strumento, è
un dono: la lingua stessa.
Ed
ecco – se ne può parlare solo qui – il secondo punto nodale
del film. Arrival è
anche una dolorosa elegia della perdita. Noi
abbiamo visto, fin
dall’inizio, lo svolgimento
inframmezzato da scene di
vari periodi della vita di
Louise
con sua
figlia Hannah (nota
bene: il nome è un palindromo),
che si ammala e muore ancora
giovanissima. Con
un’impressionante svolta narrativa, nel
finale, dopo la modificazione
mentale di Louise, i
flashback si rivelano dei flashforward. Il film è diventato un
discorso sul tempo e sui
sentimenti nel
tempo – un raddoppiamento del dolore umano, o un suo alleviarsi
alla luce di una maggiore comprensione?
Come
cambia la percezione
del futuro, e della vita
stessa, se il nostro “sguardo
mentale” può muoversi nei
due sensi – esattamente come fa lo sguardo cinematografico? Vedere
il dolore futuro e tutto il suo svolgersi… ma depurato dalla
dimensione angosciosa dell'imprevisto e della speranza fallace… è
possibile che, senza togliere l'intensità dell'afflizione, ci renda
pacificati?
Sono
domande importanti, che rendono importante il film. Ah ma: tutto bene
dunque? Purtroppo no. Si direbbe
che lo sceneggiatore Eric
Heisserer (da un racconto di Ted Chiang) sia
stato troppo occupato a delineare i suoi alieni per aver tempo di
dedicarsi ai suoi umani. Al
di là della protagonista Louise
i personaggi sono esili (lo scienziato Ian) o, peggio,
insopportabilmente stereotipati: vedi il colonnello,
incarnazione del luogo comune
del militare americano duro, brusco e no-nonsense,
interpretato da un Forest Whitaker ridotto a manierismo puro. La
scena del suo primo incontro con la scienziata, tutto un ringhio
militaresco, è la peggiore del film, e ne sembra la parodia. Fa
sorridere il suo vice che
non esce mai di scena senza
lanciare uno sguardo duro alla “Vi tengo d'occhio, a voi”; idem
per l’infido agente della
CIA, che fra l’altro sembra un barista di Beirut. E'
ironico
che il più “tridimensionale” dei personaggi secondari
si riveli proprio quel
generale cinese che per un pelo non ha fatto scoppiare la guerra
dei mondi.
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