“Signore,
che pazzi sono questi mortali!”, se la ride Puck nel Sogno di
una notte di mezza estate, ma il termine fools vale anche
buffoni. Pazzi e buffoni: lo si potrebbe mettere in epigrafe a Un
piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza, film
magnifico, nerissimo e follemente spassoso, nonché più saggio di
quanto ci possa piacere di pensare; è opera del settantenne svedese
Roy Andersson. In apertura, un personaggio dal viso cereo (come
tutti) esamina gli uccelli imbalsamati in una sala di museo. Ma
questi uccelli non sono tanto imbalsamati quanto la donna che lo
attende immobile, o pure l'uomo stesso: perché nella loro fissità
tassidermica almeno mantengono un'apparenza di vita e di volo, mentre
questi personaggi viventi sono morti.
Bene,
abbiamo un uomo che guarda gli uccelli. Ma se vogliamo prestar fede
alle dichiarazioni del regista a Venezia, sono anche gli uccelli che
guardano l'uomo: il film nasce dalla fantasia che osservino gli
uomini dai loro rami e cerchino di immaginare cosa stanno facendo. Un
piccione... consta di una serie di quadretti (i colori sono
tenui, spenti) in piano sequenza, con un'inquadratura fissa frontale
e distanziata che concretizza una distanza anche emotiva. Roy
Andersson citava Brueghel il Vecchio; c'è poi chi ha menzionato Otto
Dix e chi Edward Hopper; io per conto mio vorrei allegare Magritte.
Sono episodi e personaggi comici e folli, sottilmente alieni; eppure,
in questo speculum ornithologicum li
riconosciamo benissimo come parte di noi.
“Cosa
sarebbe la vita senza un bicchierino”, dice un tale in un bar. A
giudicare dai loro volti raggelati e apatici, anche con un
bicchierino la loro vita non è un gran che. Impassibili come i
personaggi di Kaurismäki (ma
il primo Kaurismäki,
quello di Calamari Union
e Lemingrad Cowboys Go America),
sono rassegnati e tristi. “Sono
contento di sentire che state bene”, si ripetono di continuo al
telefono, ma questo non fa che aggiungere qualcosa alla loro tetra
comicità.
Storie
di poesie non recitate, di morti improvvise che colgono comiche e
surreali, di appuntamenti mancati con ridicola continuità, di minime
speranze e amare delusioni, di una grassa maestra di flamenco
che smanaccia un bell'allievo con la scusa della lezione, e lui
rassegnato seguita ad allontanarle le mani. Più tardi li rivedremo
come sfondo, che piangono, nella vetrina di un ristorante: in
Andersson è fondamentale la profondità di campo, perché come la
vita il suo cinema si svolge su differenti piani visivi.
E'
un universo nel quale, in un anonimo bar di periferia d'oggi, può
fermarsi l'esercito di Carlo XII (regale e autoritario, gay perso,
che parla solo per bocca del suo luogotenente) in marcia nel 1707 per
la battaglia di Poltava. Cantano la “Marcia di guerra” sulle note
di Glory Glory Hallelujah. Più tardi la scena ritorna:
l'esercito si trascina sconfitto e sfasciato, il re mezzo morto si
ferma di nuovo al bar perché ha bisogno di usare il bagno. Geniale
il collegamento oggettivo tra “Vostra Maestà, purtroppo il bagno è
occupato” e “Metà del regno è perduta”!
Il
ritorno di ambienti e di volti crea una geografia, un territorio
diegetico. I protagonisti - se si può usare questo termine per un
leggero filo conduttore - sono una coppia ultra-sfigata di
rappresentanti di giochi e scherzi di una tristezza capitale: una
maschera deprimente, un cuscino con risata incorporata che sembra
uscito da un film dell'orrore, e non possono mancare i denti di
Dracula di plastica, “sulla cresta dell'onda da tanto tempo”.
Jonathan e Sam, l'uno un piagnone, l'altro un debole capoccia, sono
un duo assolutamente beckettiano, come beckettiani sono il loro
misero campionario e le loro ripetizioni (“Domani dobbiamo fare
buoni affari”). E' importante ribadirlo perché Beckett – non
solo quello teatrale ma anche quello narrativo (Watt) – non
solo è alla base della coppia ma presiede al film.
Un
piccione... è mostruosamente divertente; però, anche se i due
sfigati ripetono di continuo che la loro missione è di aiutare la
gente a divertirsi, c'è nel film una dimensione assai amara
dell'esistenza. Chi sorride? Sorridono (compostamente) le bambine che
giocano sul balcone, gli amanti, e soprattutto i marinai che baciano
la taverniera Lotta la Zoppa in cambio di un bicchiere di acquavite,
in un flashback nel 1943, nel cono di luce lontana del passato –
memorabile scena di lontano calore cantata (ancora!) sulle note di
Glory Glory Hallelujah, ma sembra Kurt Weill. Poi ritorniamo
al presente, e il vecchio che ricordava si allontana faticosamente
mentre la canzone prosegue solo in flashback sonoro – col che
l'ironia distaccata dell'esposizione esplode in un folgorante momento
patetico.
Un
episodietto intitolato Homo Sapiens mostra una scimmia
orrendamente vivisezionata che dalla sua postazione di tortura
ascolta la sperimentatrice al telefono col solito “Sono
contenta di sentire che state bene”. Qui il film vira al nero più
cupo. Soldati dell'epoca coloniale costringono indigeni negri a
entrare in una gigantesca macchina rotante che emette suoni musicali
mentre li arrostisce vivi; qui ed ora, un gruppo di ricchi bianchi
vecchissimi guarda (o ricorda?) bevendo champagne. L'orrore e le
colpe dell'esistenza (e ci sarebbe qualcosa da dire sulla storia
dell'Occidente). Infine, mentre un gruppo di personaggi alla fermata
dell'autobus discutono follemente sul mercoledì, sentiamo fuori
campo il tubare dei piccioni. Gli uccelli continuano - sempre
perplessi - a guardare.
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