Un'algida
eleganza preraffaellita è l'impressione che lasciano i colorati
costumi nel verde dell'erba in Maraviglioso Boccaccio dei
fratelli Taviani. Altri hanno segnalato il rimando “alla
rappresentazione pittorica (pre)rinascimentale, fatta di eleganza e
geometrie” (Paolo Mereghetti). Ora, è proprio dei Taviani un
atteggiamento che si potrebbe definire estetismo (e che, sì, in
alcuni loro film diventa accademismo estetizzante), ma esso non sorge
dal nulla, né da un partito preso puramente visuale. La
ricercatezza dell'immagine è, in loro, forma del distacco narrativo.
Perché i Taviani hanno sempre voluto filtrare la messa in scena
realistica in una dimensione metanarrativa, ovvero conscia di sé in
quanto narrazione (in questo senso è giusto dire che sono sempre
rimasti fedeli ai principi di quel cinema degli anni sessanta nel
quale è iniziata la loro lunga carriera); il che comporta nel loro
linguaggio cinematografico un delicato equilibro fra concretezza e
astrazione. Oscillando lungo un raggio ai cui estremi potremmo
mettere, se vogliamo, Kaos e La notte di San Lorenzo;
due estremi, ma non due poli isolati, nel senso che comunque nell'uno
c'è qualcosa dell'altro. E' un impegno artistico (e per i Taviani
morale) ambizioso e rischioso, che ha prodotto anche film sonoramente
falliti (Good Morning Babilonia) ma al quale bisogna
riconoscere una sorta di generosa sincerità.
Tutto
ciò si ritrova in Maraviglioso Boccaccio, che non per nulla
mette i novellatori al centro, dando loro tanta importanza quanta ne
dà alle cinque novelle raccontate – e anche fantasticando sui
loro rapporti amorosi. Alcuni tratti (ora la voce narrante che
sorregge un episodio, ora delle anticipazioni, come una breve
inquadratura di Calandrino che sbircia da un angolo prima che inizi
l'episodio suo) mi sembra rispondano sempre a un intento di
distanziazione dal realismo tout court. I Taviani, che amano
giocare sulla figura dell'attore nel contesto del racconto (non posso
non citare lo splendido Franco Franchi di Kaos), nel presente
film compiono un'operazione interessante dividendo le parti fra
giovani attori non conosciuti (i dieci novellatori) e “divi”
italiani usati come interpreti delle novelle. Sarebbe antipatico fare
nomi, ma qui mi affretto ad aggiungere che un limite del film sta
proprio in alcune interpretazioni – e non mi riferisco ai giovani
sconosciuti.
Con
un interessante segno di mutamento culturale, vediamo qui il
sovvertimento di Dioneo (il nome allude alla lussuria, è il “venereo”),
che in Boccaccio incarna l'elemento scherzoso e lascivo: una delle
pagine più divertenti del Decameron,
fuori dalle novelle, è alla fine della quinta giornata quando,
toccando a lui di cantare la canzone conclusiva, stuzzica la
“reggitrice” del giorno proponendo una canzone sboccata dietro
l'altra (“Io ne so più di mille”) finché lei non perde la
pazienza. Invece nel film Dioneo rappresenta fondamentalmente la voce
del buon senso concreto; ed è lui che dopo 15 giorni (perché non
dieci, mi chiedo) propone di ritornare in città, anche se i giovani
non sanno cosa vi troveranno. Nel film dei Taviani, ed è una
differenza rispetto a Boccaccio, questo soggiorno in villa è come
un'elegia della giovinezza - “che si fugge tuttavia”, verrebbe da
aggiungere – talché il loro addio sotto la pioggia assume una
dimensione dolcemente malinconica e finale.
L'imperiosa
realtà quotidiana, cui devono ritornare, è altrove – e i Taviani
la mettono in scena con drammaticità nella descrizione iniziale,
forte ed aspra, della peste di Firenze: dove certe forme della
disperazione, come l'uomo che si fa seppellire vivo coi figli morti,
ricordano perfino il lontanissimo Sotto il segno dello scorpione.
Giustamente la prima novella raccontata nel rifugio in campagna,
quella di Catalina, riprende il tema della peste in modo da
costituire un trait d'union fra i due momenti (o mondi) del
film.
Le
cinque novelle si snodano sotto il segno d'una sorta di fredda
ricercatezza. Molto bello, nella storia di Tancredi, Ghismonda e
Guiscardo, quando Tancredi entra in un'ombra nera che lo avvolge per
sussurrare “Strangolatelo e portatemi il suo cuore”; o come la
più “boccaccesca” nel senso usuale dell'aggettivo, quella delle
suore, viene aperta da un raffinata introduzione che ci mostra le
protagoniste bambine. E quella di Calandrino e l'elitropia, la più
famosa di tutto il Decameron, viene ampliata diffondendosi
sulla beffa dell'intera città; per non dire che la variazione finale
chiama in causa l'attività stessa del raccontare.
Certo,
non mancano, nel film, i difetti. Cito solo un brutto calo di tono,
nella novella di Ghismonda, su un oggetto fabbricato dal giovane
artigiano innamorato: “Non dovete guardarlo, è una merda” - ed
ecco che il racconto scade in pseudo-realismo giovanilistico
televisivo. Ma quel che m'interessa sottolineare è che c'è un
metodo e una coerenza sotto l'intera tessitura del film.
Ora,
è inutile sottrarsi alla consapevolezza che il Decameron ha
trovato la sua trasposizione principe con Pier Paolo Pasolini. Che
nella sua fisicità sanguigna e potente rappresenta l'approccio
opposto a quello dei Taviani; il film dei Taviani per l'appunto non è
carnale, e si esiterebbe a sostenere che riesca a mantenere
un'uniformità di tono lirico. Certamente quello di Pasolini resta un
risultato superiore sul piano dell'arte cinematografica.
Ma
bisogna dire che in Boccaccio esiste una vena sottile di eleganza
malinconica, che fa pensare al gotico internazionale (e nella quale,
per inciso, è immersa la novella che si svolge nella città di
Udine). Pasolini questo non poteva renderlo; tutto il suo Decameron
era legato alla concretezza del corpo – anche nella terribile
storia di assassinio e fantasmi della Lisabetta. I Taviani, quella
dimensione l'hanno intuita; e, quali che siano i limiti del film
l'hanno trasmessa allo spettatore.
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