Uno
spettro si aggira per il cinema di Nanni Moretti: lo spettro
dell'afasia!
Forse
dopo questo incipit marxista converrà spiegarsi meglio. Il filo
rosso che attraversa tutto il cinema morettiano è il concetto (e il
terrore) dell'incapacità di esprimersi, che esplode concretizzandosi
nel mutismo. L'incapacità di parlare come immagine propria (basta
ricordare la chiusa di Sogni d'oro);
o come allegoria (un Papa che invece di presentarsi al balcone più
famoso del mondo emette grida inarticolate); o come metafora, di cui
la preferita è sempre quella (cinema nel cinema) del film che il
personaggio non riesce a iniziare o finire. Non è indifferente che
Moretti spesso assuma nel suo cinema, o come propri avatar o per
interposta persona, figure della comunicazione come i preti, gli
insegnanti e gli psicoanalisti (non i detestati giornalisti, perché
quelli, direbbe Moretti, non comunicano, chiusi come sono nel proprio
solipsismo).
Il
nuovo film di Moretti, Mia madre, non perfetto ma importante e
convincente, si articola su due piani strettamente connessi. Il primo
è quello dell'accettazione della realtà della morte: morte di un
figlio - per disgrazia - ne La stanza del figlio, morte della
madre - per l'immutabile orrore biologico delle cose - nel presente
film (e qui, chiunque abbia vissuto quel passaggio vi si riconoscerà
appieno). Il secondo è quello del film che non si riesce a fare.
Si
congiungono nel personaggio della regista Margherita Buy, che anche
nel film si chiama Margherita – il che riporta,
in modo barocco, l'autobiografico Apicella dei protagonisti
morettiani. Da un lato la malattia e morte della madre (Giulia
Lazzarini) mentre lei gira un film (qui il tema per Moretti è
francamente autobiografico); dall'altro questo film politico su una
fabbrica occupata, - e quindi “comunicativo”, fin dal fiero
titolo Noi siamo qui - che però si scontra con assistenti che
male assistono e con un protagonista, una star americana (John
Turturro), che non collabora. Il punto è che questi due momenti non
si fondono soltanto perché li vive la stessa persona ma perché in
entrambi l'elemento dell'impotenza (a comprendere, ad accettare, e
quindi a parlare) è centrale.
Un tocco intelligente è
la confessione di John Turturro quando si presenta a cena per
riallacciare i rapporti dopo un litigio sul set: non riesce più a
ricordare le battute – ecco di nuovo lo spettro dell'afasia.
Inutile osservare che pure il mestiere dell'attore è una forma
principe di comunicazione, visto che deve far entrare un personaggio
d'invenzione nella coscienza degli spettatori (su questo Moretti
sovrappone un po' inutilmente - ma è un film a volte disordinato -
il discorso del cinema come non realtà, nella crisi isterica di
Turturro nella scena della mensa).
Tornando
all'argomento principale, dobbiamo soffermarci un attimo sul tema
della morte. Come mostrava perfettamente La stanza del
figlio, Moretti è un ateo
conseguente: per lui la morte è la fine; gli manca quella speranza
per metà opportunista e per metà pascaliana degli agnostici e degli
atei tiepidi onde “non si sa mai”. Di conseguenza la morte nel
suo cinema mantiene un nucleo di inaccettabilità, di
incomprensibilità assoluta. E' illuminante il fatto che, nel film,
Margherita Buy semplicemente non comprende le parole chiarissime
della dottoressa che avverte i parenti della morte prossima della
madre. Qui entra come personaggio Moretti stesso, ritagliandosi una
parte di fratello maggiore più saggio che rappresenta un aggancio,
pur dolente, alla realtà. In altri termini è come se un “passaggio”
consegnasse le ansie, i tic, le incertezze esistenziali e la connessa
aggressività al personaggio più giovane – ed è una novità
importante nel cinema morettiano.
L'oggettiva bruttezza
del film-nel-film che vediamo girare è anch'essa espressione
dell'incapacità a comunicare. Essa in Moretti è sempre stata
legata, non senza logica, all'egocentrismo e al narcisismo; e infatti
di questo Margherita si sente accusare prima dall'ex amante (pure lui
peraltro esempio da manuale di narcisismo contemporaneo: “Devo
prendermi cura un po' di me; mi devo proteggere”) e poi in forma
più pacata e oggettiva dal fratello. Non per nulla lei è incapace
di spiegare le pompose formule cui si tiene abbrancata: sia circa la
sua teoria dell'attore (un Brecht formato economico) sia –
umoristicamente – quando cerca di spiegare l'importanza del latino
alla figlia ribelle.
Elegantemente
intessuto di racconto presente, flashback, fantasie e sogni, Mia
madre è il film di una crisi
radicale. Quell'elemento di speranza, o meglio, di ricostruzione
psicologica e morale che concludeva La stanza del figlio
non sparisce ma resta implicito. Il film si conclude su un flashback
della madre ancora viva che, alla domanda "A che stai pensando?", dice “A
domani” - di qui, uno zoom sul viso disperato di Margherita Buy. E'
uno smarrimento, una
crisi generale, che non si era ancora vista nel cinema di Moretti.
Mia madre non sarà un
film integralmente riuscito, ma di sicuro è un film completamente
onesto.
Non
integralmente riuscito, dico, perché il film parte in modo assai
modesto. Si ha l'impressione che la sceneggiatura avrebbe potuto
essere più curata; alcuni episodi si potevano anche omettere, come
la scena dell'auto mandata a sbattere, o come un goffo omaggio a
Fellini; si sente in alcuni momenti della prima parte quella
sensazione di artificio che è la dannazione del cinema italiano; e
su questo piano non aiuta una fotografia che a volte sembra
riflettere la piatta oggettività della fiction televisiva (o anche
peggio, in una scena di dialogo in cui l'alternanza della messa a
fuoco, all'antica, sui primi piani di Margherita Buy e della madre è
pesantissima e addirittura irritante). Molto buono invece il
montaggio, lucido e netto come una lama di coltello, di Clelio
Benevento.
Bisogna
aggiungere che questi difetti scompaiono man mano che il film procede
e il focus si sposta sul dramma privato e sull'itinerario alla
morte. Più diventa centrale l''agonia della madre e quella dei
figli, più il film acquista un aspetto, raggelante e poetico, di
realtà.
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