La
saga Heimat
di Edgar Reitz, gigantesco monumento cinematografico che coi primi
tre lavori dura oltre due giorni, si è arricchita di un quarto
episodio (uscito ahimè in Italia alla mordi e fuggi): L'altra
Heimat – Cronaca di un sogno
(Die
andere
Heimat
–
Chronik einer Sehnsucht),
un solenne prequel ambientato negli '40 dell'Ottocento. Esso amplia
il grande affresco della famiglia Simon dello Hunsrück,
regione natale di Reitz, con la descrizione del villaggio di
Schabbach in un periodo di fame e disperazione che portò molti
all'emigrazione oltreoceano.
La
rivoluzione francese e l'invasione napoleonica sono eventi lontani;
ma ne è rimasta traccia tanto nei conati di ribellione (“Chiamatemi
Egalité!”) quanto nel costume (per esempio il nome intero di
Jettchen, uno dei personaggi principali, è Henriette). Oppressi da
miseria e balzelli, i contadini abbandonano la Heimat
(la patria, chiamata nel film “infedele” e “infelice”, ma
anche “amata” nella canzone di addio cantata da Florinchen). La
scena di Jettchen da sola prima della partenza per l'emigrazione è
paragonabile per intensità a quella analoga della madre in Furore
di John Ford. I carri degli emigranti sono una presenza ossessiva nel
film, ora in primo piano, ora nello sfondo, in forme la cui bellezza
visuale non nasconde ma anzi esalta la connotazione di dolore.
Ad
essi si contrappone in un capitolo del film – che fonda
l'opposizione acqua vs.
terra, speranza vs.
sconfitta, ribellione vs.
resa, patria vs.
emigrazione - la zattera degli studenti rivoluzionari della Junge
Deutschland che scende lungo il Reno con la bandiera tedesca e che i
soldati prendono a fucilate.
L'altra
Heimat è
una “macchina del tempo” artistica, potente tanto nel sommesso
fluire della vita quanto nei “picchi” alti e drammatici, tra i
quali cito solo il funerale collettivo dei sette bambini morti in una
sola notte del “catastrofico inverno '43”. E' una vita che
oscilla tra rassegnazione e ribellione, nei riguardi dell'ordine
sociale come della divinità, tra fede e rabbia. “Questo è
l'inferno”, dice Gustav al pastore dopo il funerale dei bambini;
all'opposto il padre (che temeva che lui e sua moglie si fossero
suicidati): “Gott
sei Dank.
Dobbiamo continuare a vivere – è la volontà di Dio”.
Reitz
gira il film in bianco e nero - nella splendida fotografia del
regular
Gernot Roll - con rare improvvise irruzioni del colore che colora
alcuni rari oggetti nel quadro, sempre legati a un impatto
psicologico. Il suo linguaggio è insieme moderno (certe inquadrature
“impossibili”) e antico (un gesto come la mano sul cuore è
ripreso dal cinema muto).
Il
diario del protagonista Jakob Simon fornisce la voce narrante. C'è
una continua solennità del parlato: quello di Reitz è grande
realismo, ma rifugge dal naturalismo. Siamo immersi, con una forza
evocativa che vorrei definire faustiana, nella vita e nell'universo
dei contadini dell'epoca. Piace menzionare qui un aspetto di realismo
puro e assoluto: proprio come la vita, dove spesso il potenziale
tragico di un pericolo non si realizza, il film è costellato di
tragedie mancate: la caduta di Jakob dall'albero, la malattia di
Florinchen, l'esplosione della macchina a vapore, l'attacco che
coglie la madre malata sotto il ciliegio. Prendiamo quest'ultimo
caso: noi spettatori siamo subito convinti (non ultimo per il suo
impressionante realismo) che assisteremo a una drammatica scena di
morte, secondo le bronzee
leggi
della drammaturgia cinematografica – e invece no; viceversa, la sua
morte fuori campo, quando arriva molto più tardi, va contro le
attese drammaturgiche come può
succedere solo in Bergman o Dreyer.
Jakob,
figlio minore del fabbro del villaggio, è la spina nel piede del
padre per il suo carattere sognatore e la sua passione per i libri.
E' suo il sogno
del sottotitolo: andarsene in Brasile, sul quale legge tutto ciò su
cui può mettere le mani. Poliglotta, Jakob è diventato grande
esperto dei linguaggi indiani (alla fine del film, a sogno ormai
svanito, lo vedremo in corrispondenza addirittura con Alexander von
Humboldt). Non per niente in paese lo chiamano “l'indiano”! Ma
Jakob ha una particolarissima dignità nella (progettata)
emigrazione: “Parlare di miseria non mi si addice”; conta di
farsi strada nel nuovo mondo e vede nella cultura la via. Ma non
riuscirà a partire, e il racconto si ramifica in una vastissima
vicenda di amori, sfortune, nascite e morti, delusioni e rimpianti,
finché alla fine Jakob troverà una forma di felicità nel
villaggio. “Era piaciuto a Dio volgere in un paradosso tutto quello
che facevo”.
Tutto
il film si colloca dunque sotto il sogno dell'altrove:
innanzitutto il progetto di andarsene in un Brasile sognato, ma anche
la fantasia di avere le ali per volare. E anche le lingue indiane –
a proposito delle quali Jakob ha un'intuizione chomskiana – sono il
sogno di un altrove
insieme autentico e fantastico: come vediamo quando sono usate come
lingua
dell'amore.
Attorno
a Jakob ruotano, resi con evidenza abbagliante, i personaggi della
famiglia e dell'ambiente: il padre, la madre, la nonna, il fratello
maggiore Gustav (distruttore involontario del suo sogno), la sorella
Lena, ripudiata dal padre per avere sposato un cattolico, i
compaesani, le due amiche del cuore Jettchen e Florinchen (com'è
dolce il suffisso diminutivo-/vezzeggiativo -chen
che
viene attribuito a tutti i nomi femminili!).
La
nonna - che in tedesco e nelle lingue germaniche si dice “grande
madre” (Großmutter)
- rappresenta la continuità della famiglia, della stirpe,
dell'essere
nel mondo
di questa popolazione contadina. E' il pilastro instancabile della
famiglia (la vediamo lavorare infaticabilmente) ma soprattutto è la
depositaria di una conoscenza profonda dei moti nascosti della vita.
Il suo perpetuo detto “Ogni cosa a suo tempo” sboccia in un “Lo
sapevo” quando ritorna Lena, la nipote perduta.
Ma
pensiamo a una figura secondaria come la ragazzina zoppa emarginata,
Margot dal piede equino, considerata “figlia di Satana” e
protetta dalla nonna: non è solo un'illustrazione delle
superstizioni contadine: è una figura herzoghiana.
O le due figlie bambine dell'incisore Olm, che con la moglie vediamo
sedute a una tavola affamata, terribilmente simili a spettri tristi;
il concetto è certo che siano abbattute dalla fame ma l'insistenza
con cui in varie scene le vediamo sempre lì le trasforma in
un'altra figura di realismo magico alla Herzog. Idem per la penna
lasciata cadere dal falco, oggetto destinato a riapparire più volte
nel film: anche questo è misticismo romantico herzoghiano. Così,
diventa più chiara la presenza alla fine del film di Werner Herzog
come guest
star.
Siamo
evidentemente nell'ambito del romanzo: L'altra
Heimat è
la trasformazione del racconto cinematografico nella dimensione del
romanzo con il suo carattere fluviale
– trasformazione che è stata propiziata da quella fusione tra
cinema e tv di cui Reitz (ma ricordiamo anche Fassbinder e Bergman) è
stato un antesignano. Ciascuna delle sue figure ha una propria storia
ed evoluzione; sebbene si distinguano, com'è naturale, tra
principali e secondarie, quelle secondarie non servono agli accidenti
che fanno proseguire il racconto delle principali ma, al contrario,
appaiono ciascuna come una realtà in sé; per dirla con un
paradosso, ogni personaggio secondario è protagonista. Proprio
questo è cinema-romanzo, ed è l'esatto opposto della sceneggiatura
cinematografica hollywoodiana. Infatti ben pochi esempi simili se ne
trovano nel cinema classico (uno mi sembra essere L'orgoglio
degli
Amberson
di Orson Welles).
Ma
il realismo, come lo intendiamo oggi in modo piuttosto ristretto, non
è la sola cifra del film, che è attraversato da un senso di magia.
Pensiamo al rito magico di Jettchen e Florinchen: rotolarsi nude
nell'erba dopo aver cantato un'invocazione per mandar via una
malattia della pelle: il bello è che funziona (questa magia del rito
agreste e pagano si rispecchia nella magia del racconto di Jakob sul
Brasile, che lui enuncia a loro subito dopo). Oppure: sulla lettura
di una pagina d'un libro di viaggi circa un uomo che gli indiani
brasiliani accusano di “chiamare il vento”, ecco che si scatena
un colpo di vento e i cavalli prendono la fuga.
Dire
romanzo, dunque, non basta, perché bisogna stabilire di quale tipo.
Qui siamo interamente nell'ambito del romanticismo tedesco – al
quale mi sembra rimandare la stessa parola Sehnsucht.
Sotto la sensazione di realtà della minuziosa descrizione della vita
materiale dei contadini del 1842 serpeggia il sentimento cosmico,
magico e panico, delle forze profonde della natura e dell'anima. E
infatti vediamo ne L'altra
Heimat una
sconvolgente potenza “murnauiana” dell'immagine della natura,
quale la troviamo ben poche volte nel cinema contemporaneo: per
esempio il Godard di Je
vous salue, Marie,
il Malick de I
giorni del cielo,
lo Zhang Yimou di Sorgo
rosso. Un
sentimento romantico rispecchiato nel protagonista: non basta forse
leggere le belle righe di Ladislao Mittner sull'uomo romantico
(Storia
della letteratura tedesca,
II) per ritrovare Jakob fatto e finito?
Non
stupisce quindi che alla base del diario di Jakob stia la concezione
del ritorno di tutte le cose: la freccia che ritorna nella mano
dell'arciere: “Così inseguo la freccia del tempo e il respiro di
mia madre”. Altrove scrive: “Non si vive una volta sola”.
Questo
è consistente con quell'idea del tempo che ritorna su se stesso che
a ben vedere è intrinseco a tutto il gigantesco progetto Heimat
di Reitz.
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