Innanzitutto,
l'antefatto. Nel 1938 Orson Welles, volendo mettere in scena col
Mercury Theatre la commedia di William Gillette Too Much Johnson,
ambientata nel primo Novecento, pensa – nella logica di quella
concezione “intermediale” che sempre lo caratterizzerà - di far
precedere ogni atto da un prologo cinematografico, il primo di 20
minuti e gli altri due di 10. Lo scopo dei filmati era di illustrare
antefatto e punti laterali dell'azione, ed essi dovevano essere
realizzati nella forma delle comiche mute (un riferimento importante
era Preferisco l'ascensore di Harold Lloyd). Il film non fu
completato (la commedia andò in scena senza) e rimase proprietà di
Welles, finendo distrutto - o così si pensava - nell'incendio della
sua villa a Madrid nel 1970.
Ebbene,
il destino ha voluto che il film creduto distrutto fosse ritrovato
(nei magazzini di una casa di spedizioni) proprio a Pordenone, sede
delle Giornate del Cinema Muto, in una copia lavoro di 66 minuti,
solo grossolanamente montata, quindi
con inquadrature ripetute da scegliere o scartare. Too Much
Johnson è stato
presentato in prima mondiale alle Giornate il 9 ottobre 2013.
Tanto
basta per un'idea sommaria del contesto – per il resto, rimando al
Catalogo delle Giornate e all'esauriente saggio di Paolo Cherchi Usai
su Segnocinema 183.
Circa
il contenuto dell'intricata commedia, qui basterà accennare alla
situazione principale: Augustus Billings (Joseph Cotten, futuro
attore-feticcio wellesiano) è in fuga per Manhattan inseguito da
Leon Dathis (Edgar Barrier), marito della sua amante Clairette
(Arlene Francis). Il marito offeso possiede la metà superiore della
foto del suo cornificatore, solo la fronte, per cui durante
l'inseguimento strappa il cappello a chiunque incontra per verificare
se non sia lui. C'è una pagina deliziosa in cui inseguito e
inseguitore si imbattono in una parata di suffragette, completa di
bandiera americana - di fronte alla quale tutti nella folla si
tolgono il cappello, ma Joseph Cotten non osa, per non farsi
identificare, e fa solo un buffissimo gesto abbozzato; poi si
impadronisce di un cartello (“Women's Rights”) e si unisce al
corteo, per poi scappare, inseguito, per una via diversa, sempre
reggendo il cartello. Questa breve scena è in sé una vera comica in
nuce.
Fra
gli altri interpreti, vanno citati almeno Virginia Nicholson (moglie
di Welles all'epoca), Erskine Sanford, Howard Smith. Compare anche
John Houseman, partner di Welles alla direzione del Mercury Theatre,
nella parte di un poliziotto. La bella fotografia è firmata da Harry
Dunham, già operatore di cinegiornali.
Questa
copia lavoro non presenta un racconto organico e ben definito, ma è
comprensibile se si conosce la trama, anche nella parte conclusiva,
semplicemente abbozzata (la conclusione nell'acqua di un laghetto è
un perfetto finale di slapstick comedy). Invero Too Much
Johnson è l'anello mancante tra
il Welles teatrale e quello cinematografico. E' interessante vedere
come Arlene Francis appaia sensuale nella scena dell'adulterio, che
fra l'altro presenta una superba trasposizione “meccanica” del
sesso. Perché di solito si pensava che la sensualità franca e
diretta fosse entrata tardi nel cinema di Welles, con l'incontro,
importantissimo, con Oja Kodar. Vero che c'è un balletto più o meno
erotico in Quarto potere,
e una scena di bordello che fu tagliata, ma servivano più che altro
a connotare un personaggio e un ambiente. Invece nella scena citata
di Too Much Johnson
(destinato, ricordiamo, a un uso non cinematografico ma teatrale) c'è
una sensualità autentica, pur nelle forme e nei costumi della
pochade.
Nel
film non si nota solo la fantasia sperimentatrice di un Welles alla
vigilia del suo trasferimento a Hollywood. Vi si possono ritrovare
stupefacenti anticipazioni della sua opera filmica successiva. Questo
non significa ovviamente che Welles avesse già in mente la sua
futura carriera: significa (ed è cosa ovvia) che disponeva di una
galleria visuale, una serie di immagini presenti in potenza nella sua
mente, e pronte a esprimersi all'occasione.
Almeno
una è un vero archetipo wellesiano, e già si vedeva in The
Hearts of Age (il suo primo breve film, realizzato a livello
amatoriale nel 1934): le scale, la salita e la discesa. E' quella
dialettica alto/basso che esploderà ne L'orgoglio degli Amberson:
film di tensione gotica torturata, di scale, di piani dell'edificio
che tra loro comunicano segreti e intessono complotti, film di ascesa
e di caduta.
Ma
innanzitutto è una questione di forma mentis artistica:
troviamo dispiegato in Too Much Johnson quell'umorismo
sottilmente perverso, da Alice nel Paese delle Meraviglie, che
trionferà ne La signora di Shanghai (ma
anche in Mr. Arkadin,
ovvero Rapporto confidenziale).
Ha
modo qui di esprimersi nella forma più compiuta la passione di
Welles per i Keystone Kops (i poliziotti ridicoli dall'elmo a
pentolino delle comiche mute di Mack Sennett), che lo accompagnò per
tutta la vita, dall'iniziale The
Hearts of Age al film
della vecchiaia - interrotto dalla morte - The Magic Show.
Naturalmente
- ma è normale amministrazione del cinema - c'è quella capacità di
costruire una topografia immaginaria che Welles porterà al massimo
(là, però, facendola appositamente uscire dal segreto della
lavorazione ed esibendola al pubblico) ne Il processo. In Too
Much Johnson i tetti di
Manhattan, sui quali s'arrampicano Joseph Cotten per fuggire ed Edgar
Barrier per inseguirlo, realizzano la figura molto wellesiana del
labirinto. Paradossalmente il suo stato di copia lavoro, piena di
varianti e ripetizioni, amplifica la sensazione di déplacement.
E
poi ci sono le singole immagini. Nella lunghissima sequenza
dell'inseguimento, quella congerie di casse e di ceste in
un'inquadratura dall'alto anticipa nettamente il finale di Quarto
potere. Quando Joseph Cotten,
nella sua fuga per i tetti, si arrampica attorno a una torre in
un'inquadratura fortemente angolata, questo ricorda molto il culmine
de Lo straniero, un
film in cui Welles usa, nascondendola sotto lo schema del thriller,
un'ironia non troppo dissimile (“Puro Dick Tracy”, fumetto, lo
chiamava). La parte finale ambientata a Cuba, fintissima, girata a
New York e dintorni con palme inserite a bella posta, mostra tuttavia
in certe inquadrature quella tendenza alla “bella fotografia”
esotica su cui Welles poi costruirà l'incompiuto It's All
True.
Nel
duello finale, Joseph Cotten con un bianco ombrello aperto si
frappone tra i due duellanti che si tirano stoccate in tutti gli
spazi lasciati liberi dal suo movimento, e questa è pura fisicità
delle comiche mute - ma ad occhi moderni anche anticipa il geniale
“uso del vuoto” di Jackie Chan.
A
fornire l'effetto comico (ma anche di eleganza nel comico) è il
coordinamento da balletto dei movimenti - legato a quella tradizione
muta che qui Welles è impegnato a resuscitare. Il film è un
capolavoro di movimento coordinato; per esempio c'è un'inquadratura,
in cui Joseph Cotten ed Edgar Barrier si arrampicano in sincronia su
due diverse scale antincendio, che è pura musica.
Emerge
l'abilità di Welles nella gestione teatrale del movimento. Dico
teatrale, in quanto il movimento coordinato dei gruppi si inserisce
perfettamente nell'inquadratura (basta pensare a come lo “sciame”
di vittime irritate/scandalizzate, che segue questo pazzo furioso che
toglie i cappelli e li butta a terra, replica il suo movimento
circolare) proprio in quanto è concepito nella logica dello spazio
ristretto del palcoscenico.
In
effetti Too Much Johnson,
che in parte fu girato in modo da riprodurre l'accelerazione dei
vecchi film, è tutto basato sull'enfasi comico-delirante del
movimento.
Il
lungo inseguimento della prima sezione culmina idealmente (non
cronologicamente) in una superba scena con una serie di strade
parallele, laterali rispetto al punto di vista della mdp, lungo le
quali spuntano e scompaiono correndo in varia guisa Joseph Cotten,
Edgar Barrier, un carro impazzito, una massa di gente capitanata da
un Keystone Kop che corre roteando il manganello; dovrebbero
inseguirsi ma è chiaro che il meccanismo si è incantato: continuano
a correre ma si è perso l'inseguimento; arrivano a incrociarsi senza
vedersi. In puro stile da comica muta, corrono come ordigni meccanici
(a un certo punto Joseph Cotten lo capisce e se ne va). Idem per la
scena dell'imbarco sulla nave per Cuba, dove appare uno spassoso
commissario di bordo (George Duthie) dagli enormi favoriti: continua
quel movimento esagerato di marionette impazzite (qui, la folla che
saluta entusiastica).
Così
sulla genialità di Orson Welles scende nuova luce e la nostra
conoscenza di lui viene ampliata dalla visione di Too Much Johnson
più di quanto si potesse sperare. Non è esagerato dire che in
questa occasione a Pordenone abbiamo visto riscrivere la storia del
cinema.
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