Larry Charles
Prima che Gheddafi incontrasse una meritata fine, “Il dittatore” di Sacha Baron Cohen avrebbe potuto interpretarlo lui - e sarebbe sembrato quasi un film documentaristico. Aperto dal cartello “In memoria di Kim Jong-il”, “Il dittatore” compone una memorabile parodia e quasi un monumento funebre per i tiranni cammellati e ingioiellati che hanno insudiciato il tardo XX secolo e l'inizio del XXI, da Idi Amin e Bokassa a Gheddafi e Saddam. Monumento funebre non perché manchino ancora canaglie dello stesso genere, ma perché probabilmente in futuro i dittatori manterranno un profilo personale meno flamboyant e più grigio: un grigiore militar-religioso (Ahmadinejad, Omar al Bashir) o militar-politico (Mugabe, Assad, il Kim di turno). Sul modello Caligola resiste ancora il satrapo del Kazakistan, Nazarbayev, ma a questo paese S.B.C. ha già dedicato il suo film migliore, “Borat”, e difficilmente può tornarci sopra. Comunque lui, che flamboyant lo è sempre stato, si diverte un mondo a interpretare il “suo” dittatore alla Caligola: il barbuto Aladeen, tiranno del paese immaginario di Wadiya (confinante col Sudan), assassino, genocida, stupratore di boy scout, antisemita, antifemminista (alla sua ragazza che gli dice di essere incinta: “E avrai un maschio o un aborto?”); nasconde nel suo palazzo Osama Bin Laden - sulla cui uccisione ci avevano raccontato palle - e sta costruendo di nascosto la bomba atomica, in puro stile iraniano. Resterà un'immagine di culto non solo nel cinema ma nell'imagerie politica in genere la gara di corsa ai Giochi Olimpici di Wadiya, in cui Aladeen vince sparando agli avversari, o la dichiarazione tv in cui dice che l'atomica “verrà usata per scopi pacifici” e gli scappa da ridere. Come tutti i personaggi di S.B.C. Aladeen ha una feroce innocenza.
Rispetto alla felicità di questa costruzione satirica, sembra un peccato che il film (la regia di servizio è di Larry Charles) molto presto cambi strada. Aladeen col suo infido vice Tamir (Ben Kingsley) va a New York per parlare all'Onu; qui viene rapito e si ritrova - senza più la sua barba-simbolo - in giro per le strade, anonimo e senza un soldo. Intanto Tamir vuole prendere il potere appoggiandosi a un sosia del dittatore, e fingendo di democratizzare il paese venderlo alle compagnie petrolifere straniere. Compagnie sia occidentali che cinesi: il personaggio di Zhan Lao è un bel tocco satirico sul feroce capitalismo “manchesteriano” cinese che impazza sotto la protezione del regime di Pechino.
“Il dittatore” - ispirandosi direttamente a “The Great Dictator” di Chaplin - si articola dunque su uno sdoppiamento del personaggio: l'ex dittatore in giro per le strade e il suo sosia scemo, così scemo che quando si trova di fronte alle fiorenti poppe nude di una delle sue belle guardie del corpo femminili (che il film prende direttamente dalle “amazzoni” di Gheddafi) non sa far altro che cercare di mungerla.
A questo punto il folgorante ritratto di Aladeen in veste di satrapo mediorientale passa in secondo piano e il film si concentra sull'ex dittatore ramingo e sconosciuto, e sui suoi tentativi di fare i conti con l'altro mondo nel quale si trova a vivere. Viene raccolto e “adottato” da una pacifista newyorkese che dirige un emporio di commercio equo e solidale (ovvio che lui se ne innamorerà). Anche qui non manca il tocco satirico, e va detto che questa radical/femminista/vegana, incarnazione del politically correct, è ancora più antipatica di Aladeen; ma la caricatura è piuttosto vacua e generica, perché a questo punto il film è diventato il solito gioco di Sacha Baron Cohen: inserire un personaggio politicamente scorrettissimo in un ambiente imbarazzato. E' il principio delle sue (spesso dubbie) candid cameras, anche se “Il dittatore” non ricorre a questo mezzo.
Niente di male, ma con questo il film si trasforma in una serie di scenette (indubbiamente divertenti) piuttosto slegate. C'è da dire (ma forse è solo una preferenza personale) che uno dei possibili sviluppi, presto abbandonato, è geniale e avrebbe fatto un grande film: perduta la dittatura del paese, Aladeen applica i suoi metodi all'emporio in cui è stato accolto, e ne risolleva le sorti declinanti, raggiungendo il titolo di “Supremo Droghiere”. Alla fine ovviamente Aladeen recupererà il trono - però non sarà il trionfo della democrazia che sarebbe piaciuto a Chaplin.
A dare unità al film, come sempre accade con Sacha Baron Cohen, è semplicemente la personalità dell'interprete. Il suo impatto è dovuto in parti pressoché uguali alla sua estrema bravura e alla sua estrema sfacciataggine: kamikaze dei mass media, tende al massimo la linea di tolleranza del filmabile; in confronto le gag più fisiche di “American Pie” o dei fratelli Farrelly sembrano Walt Disney. “Il dittatore” contiene una scena di humour estremo da antologia: la superba sequenza del parto nel negozio, dove la gag della mano introdotta dal soccorritore Aladeen nella vagina della partoriente raggiunge livelli di estremismo innominabile. Chi altri che S.B.C. avrebbe osato portare questo sullo schermo? I Dark Brothers, probabilmente; e, al di fuori del porno, forse il nostro grande Fernando Cicero, il più corporeo e fantasioso dei registi della vecchia “commediaccia” italiana.
Se Sacha Baron Cohen trovasse sceneggiatori e registi capaci di inserire questi umori e questo coraggio in film più strutturati, diventerebbe grande come Jerry Lewis.
lunedì 25 giugno 2012
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