venerdì 9 maggio 2025

Storia di una notte

Paolo Costella

Dal realismo della realtà quotidiana al realismo magico è il percorso di Storia di una notte di Paolo Costella. Una famiglia borghese – avverto che la presente recensione va letta dopo visto il film – che la morte del figlio maggiore in un incidente ha incatenato in un dolore continuo si sta spaccando, con il divorzio dei coniugi. I due, Piero ed Elisabetta, si trovano a Cortina coi due figli per un ultimo Natale insieme. Ma la vigilia di Natale il figlio di mezzo, Denis, ha un grave incidente di sci e deve essere operato, col rischio di rimanere paralizzato. La famiglia si trova ad aspettare con angoscia l’esito del lungo intervento (“Sta succedendo di nuovo” dice tra sé la figlia minore Sara).
Il film è un dramma quieto, mai gridato. Per esempio, quando Piero porta fuori dalla casa dei suoceri Elisabetta per darle la notizia in auto mentre vanno all’ospedale, è bello, e molto civile, che il momento in cui glielo dice resti in ellissi e non si veda (molti registi italiani avrebbero fatto una sceneggiata). Intensi e bravissimi i due genitori Elisabetta e Piero, com’era da aspettarsi da Anna Foglietta e Giuseppe Battiston; ma è una novità eclatante la bravissima Giulietta Rebeggiani, sedicenne al tempo delle riprese, che interpreta Sara con una competenza attoriale che lascia il segno.
È da segnalare l’ottima fotografia di Fabrizio Lucci, che utilizza molto la centratura: questa trasmette un’idea di equilibrio (esempio, il divano), e l’equilibrio, lo sappiamo, è sempre a rischio di rompersi; ma questo equilibrio può suggerire anche un senso di estraneità, di alterità delle cose, con la famiglia alla porta dell’ospedale e poi nel corridoio.
Tutti noi nelle avversità, e tanto più nella catastrofe, riandiamo tristemente col pensiero al punto di svolta e alla possibilità di un movimento o una scelta diversa: “e se invece…?” Un aspetto interessante del film è che visualizza, mettendolo in scena, l’ipotetica alternativa nell’“e se...?” mentale di Elisabetta: vediamo i ragazzi che rinunciano a quella sciata col padre, vediamo come risultato la normale distribuzione dei regali quella sera a casa dei suoceri (benché avvelenata dalla consapevolezza della separazione). È qualcosa di molto umano, ma soltanto nella maggiore libertà narrativa di oggi il cinema ha potuto cominciare a ricorrervi senza marche come un PPP del personaggio assorto nel pensiero.
L’attesa per la sorte di Denis apre al tema centrale del film, che è l’elaborazione del lutto. Nel mondo contemporaneo noi non accettiamo il concetto di morte; e di conseguenza non riusciamo ad accettare la perdita. Nel lutto questa famiglia si è congelata: la sofferenza dei due figli con i suoi rituali, il divorzio in preparazione, la fuga in Africa del padre medico.
Quando sono inquadrati i volti dei tre familiari che spiano dal finestrino rotondo nella sala operatoria, la macchina da presa si abbassa per fissarsi su Sara. È proprio lei che risolve il blocco portando “di prepotenza” i genitori nel bosco in quello che lei e Denis chiamano “il posto del cervo”. Qui anni prima la famiglia ha salvato un cucciolo di cervo trovato accanto alla madre morta; “C’è sempre qualcosa che si può fare”, aveva detto il padre con parole che rappresentano la morale del film. In un’atmosfera magica – l’apparizione silenziosa del cervo adulto – il dolore si sublima in speranza e ricomposizione. Con un bel tocco simbolico, il berretto del fratello morto, che portava Denis e ora porta Sara, viene strappato da uno sbuffo di vento che lo fa volar via e sparire. È quello che i buddhisti chiamano “lasciar andare”. Distesi nella neve, inquadrati “a piombo” dall’alto, i tre guardano il cielo, formando in triangolo (che per inciso è un segno magico e rappresenta la perfezione). La conclusione col divano prima vuoto con i familiari e Denis, e le parole “Cominciamo”, mostra, in modo circolare con l’inizio della crisi, un blocco che si è sciolto, una vita che ha ricominciato a scorrere.

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