mercoledì 7 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Hong Kong e Taiwan

 

Montages of a Modern Motherhood

Nella prima parte del notevole Montages of a Modern Motherhood di Oliver Chan assistiamo, in accordo col titolo, proprio a montages, un mosaico di brevi scene di vita quotidiana di Jing (Hedwig Tam) che ha una neonata che piange sempre, non va d’accordo con la suocera impicciona, deve mettere insieme il lavoro di fornaia e l’impegno di mamma, e così via. In questo impressionismo iniziale il film si differenzia da Still Human, della stessa autrice, il quale (pur attento al quotidiano) aveva una costruzione drammaturgica specifica. Però poi, senza abbandonare lo stile frazionato e impressionistico del racconto, mentre le cose vanno sempre peggio comincia a emergere uno schema drammaturgico ed emerge in primo piano la disperazione crescente di Jing.
Il concetto di “depressione post-partum” è un po’ una scatola vuota in cui vengono (comodamente) gettate tante cose differenti. In questo caso, la depressione di cui soffre Jing non è un fenomeno psicologico-ormonale ma il risultato di una serie di pressioni intollerabili: il peso della condizione oggettiva di una madre che non sia ricca nella Hong Kong di oggi risulta pressoché insostenibile. Intanto la figura del marito partecipa del maschilismo (solo asiatico?) che tende quasi inconsciamente a delegare tutto alla madre. È molto bello il modo in cui il film sfuma in modo allusivo, con grande sobrietà, la conclusione tragica. Semmai si potrebbe segnalare in negativo un certo ricorrere al simbolismo (uno sguardo di Jing all’uccellino in gabbia; la morte dello stesso uccellino; un tramonto di cattivo augurio dopo una scena in cui sembra che le cose siano migliorate), che appare tanto più pesante in un film che non nasconde l’elemento didattico. Ma si tratta di un peccato veniale.
Siamo a Hong Kong, ma il film parla a tutti. Gli spettatori e soprattutto le spettatrici che hanno avuto l’esperienza di avere un bambino si riconosceranno nel dramma, se non per tutti gli aspetti, almeno per alcuni tratti – e al resto provvederà l’empatia.

Cesium Fallout

Si può sempre contare sui cineasti di Hong Kong per mettere in scena l’immagine del disastro.
Invero all’inizio il film catastrofico Cesium Fallout di Anthony Pun appare (“cinesemente”) un po’ troppo verboso, anche se è bella apparizione della superstar Andy Lau che tiene un discorso citando Dickens, Le due città. Per fortuna, non passa troppo tempo che esplode il disastro: un incendio in un deposito illegale di materiali tossici rischia, come se non bastasse, di disperdere su Hong Kong una gran quantità di cesio 137, trasformando la metropoli in un deserto “postatomico”. Una visione ipotetica illustra questo “se succedesse”, mostrando Hong Kong ridotta a rovine (ed è interessante, anche se non nuovo, tale concetto della “visione del possibile”). Non manca il solito gioco interpretativo di contorno sentimental-eroico, ma le immagini in CGI del mega-incendio, con esplosioni e lotta contro il tempo, sono naturalmente il forte del film.
I cattivi sono affaristi e amministratori locali (tutto questo accade nella passata amministrazione coloniale, che credevate?). I buoni sono i pompieri, con cui collabora Andy Lau (il prof. Simon Fan) nella sua veste di esperto, in lotta contro burocrati stupidi o egoisti o semi-corrotti, in primo luogo la delegata del Chief Executive Cecilia Fong (Karen Mok), che ha un marito con le mani in pasta assieme al supercattivo occidentale.
Nota in margine: l’incidente col cesio 137 accaduto in una città brasiliana, che viene menzionato nel film, è autentico.

The Last Dance – Extended Version

Dominic fa il wedding planner – ma nella Hong Kong della crisi economica post-Covid non si fanno più feste matrimoniali. Così, tramite lo zio della fidanzata che gli cede l’esercizio, decide di riciclarsi come funeral planner: in fin dei conti, pensa, sono sempre ricevimenti. Il problema è che deve gestire il servizio in team col comproprietario Master Hui, che è un burbero sacerdote taoista esperto nel rito – proprio dei funerali – di “spezzare le porte dell’inferno”, affinché il defunto possa reincarnarsi. Lo interpreta il grande attore comico hongkonghese Michael Hui. È una caratteristica importante di questo film l’impiego di due attori di comedy – Dayo Wong e il veterano Michael Hui – in ruoli drammatici. Naturalmente i due entrano subito in conflitto – e ci sono alcuni particolari molto divertenti sul modernismo di Dominic (i suoi gadget funerari!) che manda fuori dai gangheri Master Man.
In astratto la commedia drammatica The Last Dance di Anselm Chan, enorme successo a Hong Kong, potrebbe richiamare alla memoria il bellissimo Departures di Takita Yojiro. A differenza, però, di Departures il pur interessante film di Anselm Chan manca del suo pathos umanista. Si direbbe (e un’utile intervista al regista sul catalogo del festival lo conferma) che il materialismo del protagonista/dell’autore si allarghi al film. L'elemento mortuario, che vediamo, contiene un aspetto molto fisico. Quanto ai rituali taoisti, Anselm Chan sembra trattarli come puro folklore. Quello che gli importa è il gioco psicologico fra i personaggi con le loro opposizioni: Dominic contro Master Man, Master Man contro il figlio che non vuole ereditare il suo mestiere, e soprattutto – questa è la miglior fra le linee narrative del film, e infatti emerge in primo piano nella seconda parte – la figlia di Master Man, Yuet (Michelle Wai), che invece avrebbe voluto seguire le orme del padre, ma non può perché l’ortodossia taoista lo proibisce alle donne, considerate “impure” per una questione di yin. La parte finale in cui, incoraggiata da Dominic, Yuet compie insieme al fratello il rito è un vero trionfo anche per noi.


Prosecutor

Diretto e interpretato da Donnie Yen, e ispirato a un caso reale di malagiustizia a Hong Kong, Prosecutor è uno strano mix di legal drama e film d’azione. Anzi, stando a Wikipedia era stato concepito come opera del primo genere, e in seguito è stato trasformato con l’entrata di Donnie Yen.
Questo eroe dell’action interpreta un prosecutor, una specie di pubblico ministero, che si rende conto che un giovane imputato rischia di essere condannato per un crimine di cui è innocente. Ma al suo ufficio interessa solo chiudere il caso con un altro scalpo. Inflessibile, Donnie Yen si batte in aula con la parrucca all’inglese e fuori dall’aula senza parrucca, a furia di botte, contro la gang di spacciatori di droga che ha incastrato il ragazzo.
Si tratta di un lavoro piuttosto modesto, nel quale le due linee – legal drama e arti marziali – non si legano bene, anche perché la parte sul sistema processuale hongkonghese ha un intento procedural, con tanto di didascalie, ma è così veloce che bisogna essere di Hong Kong per seguirla facilmente. Sulla parte d’azione, niente da dire, gli scontri sono abbastanza belli, ma la compresenza con la parte giudiziaria la rende un po’ ridicola: azione superfantastica, com’è tipico dell’action, e realismo procedurale in aula si elidono a vicenda. Donnie Yen, invecchiato nei primi piani, cerca eroicamente di tenere insieme le cose.
Trattandosi di una vicenda avvenuta sotto il dominio cinese, non c’è corruzione nel sistema: il giudice Michael Hui e il capo prosecutor Francis Ng si erano semplicemente lasciati ingannare dal cattivissimo avvocato a capo della banda. Tuttavia la rivendicazione, gridata a piena voce dal film, del diritto a un giusto processo, coi tempi che corrono a Hong Kong è quasi rivoluzionaria.

Daughter’s Daughter

La grande attrice, e produttrice e regista, Sylvia Chang ha ricevuto il Gelso d’Oro alla Carriera; alla premiazione è seguita la proiezione del suo nuovo film, il taiwanese Daughter’s Daughter, scritto e diretto da Huang Xi e prodotto da Chang assieme a Hou Hsiao-hsien. (Ma abbiamo avuto modo di rivedere una giovane Sylvia Chang anche nel restauro del meraviglioso Shanghai Blues, 1984, di Tsui Hark, l’altro Gelso d’Oro alla Carriera di questa edizione).
Daughter’s Daughter è un potente ritratto femminile. Aixia, sessantenne, ha sempre voluto vivere liberamente la sua vita. Era rimasta incinta giovanissima e aveva dato la figlia Emma in adozione. Poi si è sposata e ha divorziato, ma è in rapporti difficili con la figlia Zuer, che sta a New York. Quando Zuer muore in un incidente, Aixia diventa il legal guardian dell’embrione che lei si era fatta impiantare per avere un figlio con la sua compagna, morta assieme a lei. Può “terminarlo” o cederlo a un’altra persona o allevarlo dopo averlo fatto nascere con una madre surrogata. Lei – che per tutto il film, nei flashback, rimproverava Zuer per volere un bambino a trent’anni – si trova davanti alla scelta se allevarne uno a sessanta. Nel frattempo deve fare i conti con l’antica sofferenza di Emma per essere stata data in adozione. La sua decisione di far nascere il bambino e allevarlo – non è un grande spoiler perché è visibilmente la soluzione verso cui tende tutto il film – è, più che che una “continuazione” di Zuer, una sorta di risarcimento verso le figlie (“Sono stata una cattiva madre, e sono stata una cattiva figlia”, dice in un monologo nell’ombra del disastro).
Il film si raccomanda per la sua raffinatezza stilistica, anche grazie alla fotografia di Yao Hung-i – basterebbe menzionare il dialogo fra Zuer ed Emma all’inizio, visto in parte attraverso una cancellata. La drammaturgia consiste di due elementi: la fabula per cui Aixia, oltre che affrontare il lutto, deve decidere cosa fare dell’embrione, e il quadro psicologico di questa donna determinata, che nel film se deve piangere piange quando è sola, il cui egoismo vitale la rende tanto più umana. Com’è giusto, il ritratto psicologico non resta sospeso ma si invera nel racconto: non deriva da esso bensì lo precede ma in esso trova la sua espressione concreta.
Fra i personaggi, accanto alle due figlie (Karena Lam ed Eugenie Liu) e alla compagna, più calma e matura, di Zuer (Tracy Chou), spicca la madre di Aixia, interpretata da Alannah Ong, che soffre di demenza senile e confonde il presente e il passato (questo serve a un trick – un po’ facile e prevedibile ma pur sempre efficace – nel finale). L’interpretazione di Sylvia Chang è splendida: illumina lo schermo non solo nelle parti ad alto impatto emotivo (come la grande scena drammatica quando non accetta la verità sulla morte di sua figlia) ma anche nella più immediata quotidianità.

altri

L’hongkonghese Last Song for You, di Jill Leung, è un film sentimentale. Un musicista in declino incontra in ospedale la donna di cui era innamorato all’epoca della giovinezza. Ben presto lei muore. Al funerale l’uomo incontra la figlia di lei, e si avventura con lei in un viaggio in Giappone che è anche un viaggio nella memoria. Il grande difetto del film è che una prima parte totalmente realistica si trasforma senza preavviso in altro, con uno sviluppo totalmente fantastico (sul quale non parlo per evitare spoiler); questo a mio personale parere trasforma il film in un ircocervo, una creazione doppia (e sgraziata).
Gatao: Like Father Like Son (Taiwan) di Ray Jiang e Yao Hung-i (il bravo direttore della fotografia di Daughter’s Daughter) appartiene all’universo di Gatao, o “Gataoverse”: una mega-saga sulla criminalità taiwanese che a partire dal primo film si è espansa in maniera esponenziale fra sequel, prequel e spin-off. Così, in quest’ennesimo episodio, che si svolge prima del primo, è difficile seguire tutto e connetterlo alla linea narrativa generale della saga. Ci sono più personaggi, ognuno con la sua personale caratterizzazione, che in un presepe napoletano. In ogni modo, c’è abbastanza materiale per una visione “spensierata”: ci si può divertire senza pretendere di seguire tutto, basta accontentarsi dei concetti base; la narrazione è vivace, nello spirito della serie Gatao, con dei momenti di violenza abbastanza spettacolari.
Viene ancora da Taiwan Organ Child di Chieh Shueh Bin. Organ child significa bambino/a da (espianti di) organi, e questo dice tutto: siamo nell’ambito particolarmente odioso del traffico di organi di bambini rapiti. La figlia neonata del protagonista viene rapita, la moglie si suicida e lui viene incastrato dalla polizia (che c’è dentro fino al collo) nell’assassinio di una testimone. Uscito di prigione 17 anni dopo, lui, con piena ragione, si dedica – come nel (superiore) Atonement di Hong Kong, che non ha trovato la strada della selezione – a catturare e torturare i colpevoli, prima per ritrovare la figlia, poi, saputo che è morta, per vendicarla risalendo ai capi del vile traffico. Per motivi che non ho capito carica i filmati di queste torture sul dark web. Un twist dopo la prima ora fornisce al film benzina per la seconda.
Bello, il film non è; francamente, è implausibile fino a sfiorare il ridicolo involontario, con questo eroe imprendibile e con delle soluzioni assai ingenue. Però gli va riconosciuta u
na certa energia.

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