Montages
of a Modern Motherhood
Nella
prima parte del notevole Montages of a Modern Motherhood di Oliver Chan
assistiamo, in accordo col titolo, proprio a montages, un mosaico di
brevi scene di vita quotidiana di Jing (Hedwig Tam) che ha una
neonata che piange sempre, non va d’accordo con la suocera
impicciona, deve mettere insieme il lavoro di fornaia e l’impegno
di mamma, e così via. In questo impressionismo iniziale il
film si differenzia da Still Human, della stessa autrice, il quale
(pur attento al quotidiano) aveva una costruzione drammaturgica
specifica. Però poi, senza abbandonare lo stile frazionato e
impressionistico del racconto, mentre le cose vanno sempre peggio
comincia a emergere uno schema drammaturgico ed emerge in primo piano
la disperazione crescente di Jing.
Il
concetto di “depressione post-partum” è un po’ una scatola
vuota in cui vengono (comodamente) gettate tante cose differenti. In
questo caso, la depressione di cui soffre Jing non è un fenomeno
psicologico-ormonale ma il risultato di una serie di pressioni
intollerabili: il peso della condizione oggettiva di una madre che
non sia ricca nella Hong Kong di oggi risulta pressoché
insostenibile. Intanto la figura del marito partecipa del maschilismo
(solo asiatico?) che tende quasi inconsciamente a delegare tutto alla
madre. È molto bello il
modo in cui il film sfuma in modo allusivo, con grande sobrietà, la
conclusione tragica. Semmai si potrebbe segnalare in negativo un
certo ricorrere al simbolismo (uno sguardo di Jing all’uccellino in
gabbia; la morte dello stesso uccellino; un tramonto di cattivo
augurio dopo una scena in cui sembra che le cose siano migliorate),
che appare tanto più pesante in un film che non nasconde l’elemento
didattico. Ma si tratta di un peccato veniale.
Siamo
a Hong Kong, ma il film parla a tutti. Gli spettatori e soprattutto
le spettatrici che hanno avuto l’esperienza di avere un bambino si
riconosceranno nel dramma, se non per tutti gli aspetti, almeno per
alcuni tratti – e al resto provvederà l’empatia.
Cesium
Fallout
Si
può sempre contare sui cineasti di Hong Kong per mettere in scena
l’immagine del disastro.
Invero
all’inizio il film catastrofico Cesium Fallout di Anthony Pun
appare (“cinesemente”) un po’ troppo verboso, anche se è bella
apparizione della superstar Andy Lau che tiene un discorso citando
Dickens, Le due città. Per fortuna, non passa troppo tempo che
esplode il disastro: un incendio in un deposito illegale di materiali
tossici rischia, come se non bastasse, di disperdere su Hong Kong una
gran quantità di cesio 137, trasformando la metropoli in un deserto
“postatomico”. Una visione ipotetica illustra questo “se
succedesse”, mostrando Hong Kong ridotta a rovine (ed è
interessante, anche se non nuovo, tale concetto della “visione del
possibile”). Non manca il solito gioco interpretativo di contorno
sentimental-eroico, ma le immagini in CGI del mega-incendio, con
esplosioni e lotta contro il tempo, sono naturalmente il forte del
film.
I
cattivi sono affaristi e
amministratori locali
(tutto questo accade nella
passata amministrazione coloniale, che
credevate?). I
buoni sono i pompieri, con cui collabora Andy Lau
(il prof. Simon Fan) nella sua veste di esperto, in
lotta contro burocrati
stupidi o egoisti o semi-corrotti,
in primo luogo la delegata del Chief Executive Cecilia Fong (Karen
Mok), che ha un marito con le mani in pasta assieme
al supercattivo occidentale.
Nota
in margine: l’incidente col cesio 137 accaduto
in una città brasiliana,
che viene menzionato
nel film, è autentico.
The
Last Dance – Extended Version
Dominic
fa il wedding planner – ma nella Hong Kong della crisi economica
post-Covid non si fanno più feste matrimoniali. Così, tramite lo
zio della fidanzata che gli cede l’esercizio, decide di riciclarsi
come funeral planner: in fin dei conti, pensa, sono sempre
ricevimenti. Il problema è che deve gestire il servizio in team col
comproprietario Master Hui, che è un burbero sacerdote taoista
esperto nel rito – proprio dei funerali – di “spezzare le porte
dell’inferno”, affinché il defunto possa reincarnarsi. Lo
interpreta il grande attore comico hongkonghese Michael Hui. È
una caratteristica importante di questo film l’impiego di due
attori di comedy – Dayo Wong e il veterano Michael Hui – in ruoli
drammatici. Naturalmente i due entrano subito in conflitto – e ci
sono alcuni particolari molto divertenti sul modernismo di Dominic (i
suoi gadget funerari!) che manda fuori dai gangheri Master Man.
In
astratto la commedia drammatica The Last Dance di Anselm Chan, enorme
successo a Hong Kong, potrebbe richiamare alla memoria il bellissimo
Departures di Takita Yojiro. A differenza, però, di Departures
il pur interessante film di Anselm Chan manca del suo pathos
umanista. Si direbbe (e un’utile intervista al regista sul catalogo
del festival lo conferma) che il materialismo del
protagonista/dell’autore si allarghi al film. L'elemento mortuario, che vediamo, contiene un aspetto molto fisico. Quanto ai rituali
taoisti, Anselm Chan sembra trattarli come puro folklore. Quello che
gli importa è il gioco psicologico fra i personaggi con le loro
opposizioni: Dominic contro Master Man, Master Man contro il figlio
che non vuole ereditare il suo mestiere, e soprattutto – questa è
la miglior fra le linee narrative del film, e infatti emerge in
primo piano nella seconda parte – la figlia di Master Man, Yuet
(Michelle Wai), che invece avrebbe voluto seguire le orme del padre,
ma non può perché l’ortodossia taoista lo proibisce alle donne,
considerate “impure” per una questione di yin. La parte finale in
cui, incoraggiata da Dominic, Yuet compie insieme al fratello il rito
è un vero trionfo anche per noi.
Prosecutor
Diretto
e interpretato da Donnie Yen, e ispirato a un caso reale di
malagiustizia a Hong Kong, Prosecutor è uno strano mix di legal
drama e film d’azione. Anzi, stando a Wikipedia era stato concepito
come opera del primo genere, e in seguito è stato trasformato con
l’entrata di Donnie Yen.
Questo
eroe dell’action interpreta un prosecutor, una specie di pubblico
ministero, che si rende conto che un giovane imputato rischia di
essere condannato per un crimine di cui è innocente. Ma al suo
ufficio interessa solo chiudere il caso con un altro scalpo.
Inflessibile, Donnie Yen si batte in aula con la parrucca all’inglese
e fuori dall’aula senza parrucca, a furia di botte, contro la gang
di spacciatori di droga che ha incastrato il ragazzo.
Si
tratta di un lavoro piuttosto modesto, nel quale le due linee –
legal drama e arti marziali – non si legano bene, anche perché la
parte sul sistema processuale hongkonghese ha un intento procedural,
con tanto di didascalie, ma è così veloce che bisogna essere di
Hong Kong per seguirla facilmente. Sulla parte d’azione, niente da
dire, gli scontri sono abbastanza belli, ma la compresenza con la
parte giudiziaria la rende un po’ ridicola: azione superfantastica,
com’è tipico dell’action, e realismo procedurale in aula
si elidono a vicenda. Donnie Yen, invecchiato nei primi piani, cerca
eroicamente di tenere insieme le cose.
Trattandosi
di una vicenda avvenuta sotto il dominio cinese, non c’è
corruzione nel sistema: il giudice Michael Hui e il capo prosecutor
Francis Ng si erano semplicemente lasciati ingannare dal cattivissimo
avvocato a capo della banda. Tuttavia la rivendicazione, gridata a
piena voce dal film, del diritto a un giusto processo, coi tempi che
corrono a Hong Kong è quasi rivoluzionaria.
Daughter’s
Daughter
La
grande attrice, e produttrice e regista, Sylvia Chang ha ricevuto il
Gelso d’Oro alla Carriera; alla premiazione è seguita la
proiezione del suo nuovo film, il taiwanese Daughter’s Daughter,
scritto e diretto da Huang Xi e prodotto da Chang assieme a Hou
Hsiao-hsien. (Ma abbiamo avuto modo di rivedere una giovane Sylvia
Chang anche nel restauro del meraviglioso Shanghai Blues, 1984, di
Tsui Hark, l’altro Gelso d’Oro alla Carriera di questa edizione).
Daughter’s
Daughter è un potente ritratto femminile. Aixia, sessantenne, ha
sempre voluto vivere liberamente la sua vita. Era rimasta incinta
giovanissima e aveva dato la figlia Emma in adozione. Poi si è
sposata e ha divorziato, ma è in rapporti difficili con la figlia
Zuer, che sta a New York. Quando Zuer muore in un incidente, Aixia
diventa il legal guardian dell’embrione che lei si era fatta
impiantare per avere un figlio con la sua compagna, morta assieme a
lei. Può “terminarlo” o cederlo a un’altra persona o allevarlo
dopo averlo fatto nascere con una madre surrogata. Lei – che per
tutto il film, nei flashback, rimproverava Zuer per volere un bambino
a trent’anni – si trova davanti alla scelta se allevarne uno a
sessanta. Nel frattempo deve fare i conti con l’antica sofferenza
di Emma per essere stata data in adozione. La sua decisione di far
nascere il bambino e allevarlo – non è un grande spoiler perché è
visibilmente la soluzione verso cui tende tutto il film – è, più
che che una “continuazione” di Zuer, una sorta di risarcimento
verso le figlie (“Sono stata una cattiva madre, e sono stata una
cattiva figlia”, dice in un monologo nell’ombra del disastro).
Il
film si raccomanda per la sua raffinatezza stilistica, anche grazie
alla fotografia di Yao Hung-i – basterebbe menzionare il dialogo
fra Zuer ed Emma all’inizio, visto in parte attraverso una
cancellata. La drammaturgia consiste di due elementi: la fabula per
cui Aixia, oltre che affrontare il lutto, deve decidere cosa fare
dell’embrione, e il quadro psicologico di questa donna determinata,
che nel film se deve piangere piange quando è sola, il cui egoismo
vitale la rende tanto più umana. Com’è giusto, il ritratto
psicologico non resta sospeso ma si invera nel racconto: non deriva
da esso bensì lo precede ma in esso trova la sua espressione
concreta.
Fra
i personaggi, accanto alle due figlie (Karena Lam ed Eugenie Liu) e
alla compagna, più calma e matura, di Zuer (Tracy Chou), spicca la
madre di Aixia, interpretata da Alannah Ong, che soffre di demenza
senile e confonde il presente e il passato (questo serve a un trick
– un po’ facile e prevedibile ma pur sempre efficace – nel
finale). L’interpretazione di Sylvia Chang è splendida: illumina
lo schermo non solo nelle parti ad alto impatto emotivo (come la
grande scena drammatica quando non accetta la verità sulla morte di
sua figlia) ma anche nella più immediata quotidianità.
altri
L’hongkonghese
Last Song for You, di Jill Leung, è un film sentimentale. Un
musicista in declino incontra in ospedale la donna di cui era
innamorato all’epoca della giovinezza. Ben presto lei muore. Al
funerale l’uomo incontra la figlia di lei, e si avventura con lei
in un viaggio in Giappone che è anche un viaggio nella memoria. Il
grande difetto del film è che una prima parte totalmente realistica
si trasforma senza preavviso in altro, con uno sviluppo totalmente
fantastico (sul quale non parlo per evitare spoiler); questo a mio
personale parere trasforma il film in un ircocervo, una creazione
doppia (e sgraziata).
Gatao:
Like Father Like Son (Taiwan) di Ray Jiang e Yao Hung-i (il bravo
direttore della fotografia di Daughter’s Daughter) appartiene
all’universo di Gatao, o “Gataoverse”: una mega-saga sulla
criminalità taiwanese che a partire dal primo film si è espansa in
maniera esponenziale fra sequel, prequel e spin-off. Così, in
quest’ennesimo episodio, che si svolge prima del primo, è
difficile seguire tutto e connetterlo alla linea narrativa generale
della saga. Ci sono più personaggi, ognuno con la sua personale
caratterizzazione, che in un presepe napoletano. In ogni modo, c’è
abbastanza materiale per una visione “spensierata”: ci si può
divertire senza pretendere di seguire tutto, basta accontentarsi dei
concetti base; la narrazione è vivace, nello spirito della serie
Gatao, con dei momenti di violenza abbastanza spettacolari.
Viene
ancora da Taiwan Organ Child di Chieh Shueh Bin. Organ child
significa bambino/a da (espianti di) organi, e questo dice tutto:
siamo nell’ambito particolarmente odioso del traffico di organi di
bambini rapiti. La figlia neonata del protagonista viene rapita, la
moglie si suicida e lui viene incastrato dalla polizia (che c’è
dentro fino al collo) nell’assassinio di una testimone. Uscito di
prigione 17 anni dopo, lui, con piena ragione, si dedica – come nel
(superiore) Atonement di Hong Kong, che non ha trovato la strada della
selezione – a catturare e torturare i colpevoli, prima per
ritrovare la figlia, poi, saputo che è morta, per vendicarla
risalendo ai capi del vile traffico. Per motivi che non ho capito
carica i filmati di queste torture sul dark web. Un twist dopo la
prima ora fornisce al film benzina per la seconda.
Bello,
il film non è; francamente,
è
implausibile fino a sfiorare il ridicolo involontario, con questo
eroe imprendibile e con delle soluzioni assai ingenue. Però gli
va riconosciuta una
certa energia.
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