Il
più bel film della selezione del FEFF 2025 a mio parere (fra quelli
che ho visto, ma sono un bel po’) apre la fila delle brevi
recensioni dei film giapponesi al Far East Film Festival 2025. Come
l’anno scorso, in linea di massima i film del Giappone sono
risultati i più interessanti, il che conferma che il cinema
giapponese è il migliore dell’Asia.
(Nota:
alcune recensioni sono già state pubblicate in breve sul quotidiano
Messaggero Veneto).
Teki Cometh
Portandoci
dentro la mente di un vecchio professore, il bellissimo film
giapponese Teki Cometh di Yoshida Daihachi parte come Eric
Rohmer e arriva come David Lynch.
Scritto
e diretto da Yoshida a partire dal romanzo Teki di Yashutaka
Tsuitsui, questo film in b/n ha la stessa intensa originalità di The
Scytian Lamb (già visto al FEFF) dello stesso autore. Breve
spiegazione del titolo: teki è giapponese per “il nemico”,
cometh è forma arcaica di comes (fa pensare alla Bibbia di Re
Giacomo e a qualcosa di apocalittico).
Il
prof. Watanabe (Nagatsuka Kyozo) è un professore universitario di
letteratura francese in pensione, famosa autorità sul teatro del
Seicento, molto amato dai suoi ex allievi. Vive da solo, scrivendo
qualche articolo e cucinando per sé (la prima parte è anche una
piccola illustrazione di cucina giapponese). È
vedovo e rimpiange la moglie morta da anni. Ha ancora una sessualità
vitale, e la spende in desiderio, sogni erotici e (il film implica)
qualche momento di masturbazione.
Nonostante
l’apparenza placida ha delle ansie: un po’ per la salute – non
vuole farsi controllare per tema di ricevere brutte notizie – e
molto per i soldi: teme di non farcela più a vivere mantenendo la
sua bella casa. Continua a pensare al suo testamento e accarezza
oziosamente l’idea del suicidio. Il film materializza questo carico
d’ansia nelle email che lui riceve e cestina, sempre più
persistenti, su un misterioso “nemico” che arriva da Nord.
Con
grande abilità, dapprima pian piano, poi accelerando, il film ci
porta dentro i sogni, proprio in senso onirico, del professore –
nei quali esprime anche il suo desiderio per una bella ex allieva che
viene a trovarlo ogni tanto. Naturalmente non sono dichiarati subito
come sogno: i segnali di questo diverso statuto dell’immagine sono
visibili ma non subito. Lo stile del film in questa operazione è la
lentezza. Così, il confine narrativo (ovvero, quello rivolto a noi
spettatori) fra realtà e sogno si fa sempre più labile, fino a
realizzare sotto i nostri occhi un vero e proprio rovesciamento. In
tal modo veniamo trasportati dentro la mente del professore e veniamo
messi a conoscenza delle sue paure e rimorsi (sarà vero che è stato
cacciato dall’università per harassment? È
un sogno che lo dice). Alla fine, i messaggi d’ansia sul “nemico”
che si sono depositati nel suo subconscio esplodono nell’incubo
finale.
She
Taught Me Serendipity
Sul
piano dello spirito Ohku Akiko è una regista della Nouvelle Vague
trapiantata (o reincarnata) in Giappone. Il suo cinema è di
stupefacente immediatezza, eppure questa immediatezza – con aria di
niente, di divagazione, di discorsi di scarpe e di grappa – va in
profondità e tocca strati molto intimi della nostra realtà
interiore. Non succede quasi niente ma succede tutto.
A
prima vista il meraviglioso She Taught Me Serendipity sembra una
commedia sentimentale – ma una commedia sentimentale dissonante,
perché lo spettatore avverte fin dall’inizio una lieve
inquietudine. Pare il classico film del genere “Tipo bizzarro
incontra tipa bizzarra: felix coniunctio”. Toru (Hagiwara Riku) e
Hana (Kawai Yuumi) vanno subito d’accordo; e i loro dialoghi
strambi e “scentrati” hanno qualcosa di Beckett. Lentamente ci
accorgiamo che un filo rosso del film è appunto il linguaggio (il
che ha dato del filo da torcere agli autori dei sottotitoli). C’è
in She Taught Me Serendipity una centralità del parlato che rientra
molto nelle caratteristiche del cinema di Ohku Akiko – come è, di
questo cinema, una caratteristica l’introspezione.
Mai,
però, questi tratti sono stati portati (e senza preavviso) al calor
bianco come qui. Mentre solitamente guardando un film lo spettatore
si costruisce mentalmente un pattern di attese, qui la regola è
l’imprevisto. Avanzano sul palco non due ma tre protagonisti – la
terza è Sacchan (Ito Aoi), la ragazza a cui Toru piace – con tutto
un loro gioco di presupposizioni reciproche e di equivoco; nel film
ciascuno di loro ha un momento in cui brilla di luce propria per
enunciare una verità straziante. Quel “de te fabula narratur”
che è la caratteristica della grande arte assume in She Taught Me
Serendipity un carattere particolarmente lacerante, grazie sì al
testo, ma soprattutto al modo del tutto originale in cui esso viene
distillato e inserito nella trama (la sceneggiatura è di Ohku dal
romanzo di Fukutoku Shusuke). Il film getta una luce compassionevole
ma spietata sui peccati che nella vita commettiamo verso qualcun
altro, e riconoscervisi è terribile.
L’incrocio
di tempi diversi nello stesso spazio alla fine (che chissà perché
mi fa pensare al diversissimo cinema di Kore-eda) crea un possibile
ricomporsi del dolore, ma a partire da un principio: ci sono
responsabilità imperdonabili, e bisogna vivere per ripagarle.
The
Scary House
Watanabe
Hirobumi ci sorprende sempre. Nel discusso The Scary House, la
sorpresa è quella di mettere insieme due elementi che più
contrastanti non si può. Da un lato la figura comica (nel senso
migliore della parola) di Watanabe che ben conosciamo:
quell’amplificazione epica dei suoi tratti personali che ritorna in
tutti i suoi film. Dall’altro un horror straight, una storia
di fantasmi e possessione che si rifà in particolare a Paranormal
Activity: nel film, Watanabe in persona viene assunto da una
produttrice per passare alcune notti, filmato da una videocamera, in
una casa che si dice infestata. In questa casa, quel che succede non
è diverso da tanti horror del genere; esempio, mentre lui dorme
(filmato) una palla di gomma arriva rotolando dal fuori campo, si
ferma vicino al letto, poi rotola via.
Sulla
carta siamo nel genere found footage, ma in spregio al genere
c’è un gioco continuo fra inquadrature prodotte (Watanabe che si
filma) e inquadrature oggettive, anche con lo scherzo di Watanabe che
assume – imbrogliando sul compenso – un’altra persona, Yamauchi
(che poi è Watanave Yuichiro), perché lo filmi; ma l’inquadratura
li mostra insieme, Yamauchi con in mano la macchina da presa fictional. Dobbiamo aggiungere che ritornano nel film i regulars vecchi e nuovi del cinema watanabiano, da Hisatsugu
Riko, ormai cresciuta, a Yanagi Asuna, la terribile manager di Techno Brothers (e nota che un passaggio di dialogo si raccorda
alla sua figura in quel film, creando un ponte impossibile fra le due
opere).
C’è
un elemento di distacco umoristico assolutamente watanabiano, ma
minore che nell’astrazione di Techno Brothers. Cito un
dettaglio delizioso: a un certo punto Watanabe, di schiena, implora
Yanagi Asuna, che dorme in un’altra camera, di fargli compagnia
perché lui ha paura (e se ci fosse anche un po’ di desiderio?).
Lei lo manda al diavolo e gli impone di uscire dalla stanza. Quando
lui si volta, sconfitto, per andar via, vediamo che sulla sua
maglietta c’è la scritta FUCK OFF.
Chi
non ha visto il film, potrebbe pensare da queste righe che si tratti
del vecchio trucco, alla Abbot and Costello Meet Frankenstein,
di mettere un personaggio buffo in una situazione di horror serio
(che solo la presenza del personaggio buffo trasporta sul piano della
commedia). Non è così: Watanabe non buffoneggia (basta la scena in
cui piange di paura sull’altalena fuori dalla casa). Del resto, la
lunga serie di interviste ai paesani, fra cui Riko, già sposta il
film fuori dalle aspettative del genere horror. È più giusto dire
che anche il materiale horror viene attratto in quello che altrove ho
chiamato Watanabeverse.
Nondimeno,
va segnalato che a differenza degli altri suoi film, qui Watanabe
recita, cioè esprime le emozioni in modo mimetico e non astratto.
Questo film segna un cambiamento, o meglio un ulteriore stadio di un
processo che retrospettivamente si può cogliere anche negli ultimi
film. Cerco di spiegarmi: i primi film di Watanabe, quelli in b/n,
erano film di Watanabe/regista interpretati da Watanabe/figura. In
seguito Watanabe è diventato oggetto di culto (di nicchia, certo),
cioè star. Questo film, ma retrospettivamente anche Your Lovely
Smile e Techno Brothers, inverte il meccanismo: sono film di
Watanabe/figura/star diretti (nel secondo caso) da Watanabe/regista.
Mettono la figura in primo piano. Il presente film dilata in quantità
imprevista questo processo di rovesciamento. È chiaro peraltro che
Watanabe non poteva passare tutta la vita a ripetere Cry, e va
riconosciuto il suo coraggio nel cercare nuove strade pur rimanendo
fedele a se stesso. Dove andrà in futuro? Possiamo vedere The
Scary House come un film di transizione.
Cells
at Work!
Ricordate
la serie televisiva francese a cartoni animati Siamo fatti così?
Umanizzava i globuli, le vitamine, tutte le cellule del corpo umano.
A questo filone fantastico – per il quale bisogna menzionare anche
Osmosis Jones dei fratelli Farrelly o naturalmente l’episodio del
rapporto sessuale “visto da dentro” in Tutto quello che avreste
voluto sapere sul sesso di Woody Allen – appartiene il film
(live-action) Cells at Work! di Takeuchi Hideki, dal manga di Akane
Shimizu. Non è la prima volta che Takeuchi porta con grande abilità
un manga sullo schermo (pensiamo a Thermae Romae o Fly Me to the
Saitama).
Quest’immersione
fantastica nel nostro corpo concretizza la fantasia sfavillante del
manga con un élan invidiabile e un’ottima regia. Si articola su
due livelli: da un lato il mondo “grande”, con protagonisti la
giovane Niko (Ashida Mana) e il padre vedovo poco attento alla sana
alimentazione (Abe Sadano), dall’altro l’interno del corpo, visto
come una grande città combattente. Lì un globulo rosso femmina (una
globula?) (Nagano Rei) si innamora di un globulo bianco (Satoh
Takeru), mentre entrambi sono impegnati nel duro lavoro di tenere
sano il corpo-casa Naturalmente è valido l’elemento didattico,
scherzosamente esposto, in una descrizione che, voglio ripetere,
sprizza fantasia (le piastrine come tipiche scolarette giapponesi!) e
ironia: la descrizione “da dentro” di un attacco di diarrea, con
i muscoli dello sfintere come lottatori di sumo e la Cavalcata delle
Valchirie come score, è irresistibile. La lotta delle difese del
corpo contro le aggressioni di microbi e virus è realizzata in
chiave di wuxiapian.
Mentre
la prima parte del film si muove su un tono di pura comedy, la
seconda vira sul drammatico quando Niko si ammala di leucemia. È
tipico del cinema giapponese: la lacrima spunta dietro la risata.
Lust
in the Rain
Bel film suggestivo,
antinarrativo
(è un insieme di storie che si confondono e ritornano su se stesse), Lust in the Rain di Katayama Shinzo è un live-action dai manga
di Tsuge Yoshiharu che,
almeno a livello narrativo,
potremmo definire d’avanguardia. In passato il Far East Film ha
presentato un altro film tratto da Tsuge, Ramblers di Yamashita
Nobuhiro, che ha molti punti in comune con questo –
che
è
ancora più libero proprio perché ingannevolmente
realistico nella prima parte.
Sarebbe
un tentativo vacuo e impossibile proporne una sinossi, appunto per il
suo carattere di maelstrom di suggestioni e di ritorni. L’ultimo,
liberissimo Obayashi di Labyrinth of Cinema potrebbe forse essere un
paragone accettabile. Fondamentalmente il film parla di un mangaka,
Yoshio (Narita Ryo), che si innamora di una bellissima donna, Fukuko
(Nakamura Eriko), e vive una quantità di storie (sempre presenti due
suoi conoscenti) sia nell’oggi sia nel passato (nella seconda parte
del film entra drammaticamente la seconda guerra mondiale, con i
massacri dei cinesi da parte de giapponesi), ma anche in una
dimensione vagamente distopico/fantascientifica, disturbante, che
coinvolge i bambini. Il giovane e ancor più la donna e gli altri
personaggi cambiano stato, condizione e tempo in questo vortice
narrativo, dove un unico punto fermo è l’amour fou di Yoshio verso
Fukuko, in tutte le loro incarnazioni narrative. Di cognome Yoshio si
chiama Tsube, e questo è indicativo, vero? Seguendolo, viviamo varie
vite pressoché contemporaneamente, diversissime fra loro, ma
tuttavia contrassegnate da una profonda unità.
See You Tomorrow
Ambientato
fra gli studenti universitari del corso di fotografia, See You
Tomorrow di Michimoto Saki è un “ritratto dell’artista
assoluto”. La giovane Nao (Tanaka Makoto) scambia, lascia, cede
tutto per la fotografia (non per la carriera, anche se questa arriva:
giusto per il fotografare). Ho detto “cede”, non “sacrifica”,
perché per lei l'unica cosa realmente importante è fissare la vita
con la macchina fotografica (due ragazze fermate per strada dicono
che è “strana”, che le spaventa, e scappano).
Merciless,
spietata, viene chiamata più d’una volta Nao per questa dedizione
alla riproduzione del mondo. Non è neanche una forma di
appropriazione della vita in forma di foto; piuttosto è come se lei
nobilitasse il mondo trasformandolo. E infatti, quando lei lascia il
fidanzato Yamada per andare a studiare a Berlino, e glielo annuncia
in una passeggiata notturna, Yamada scoppia a piangere – e lei si
mette a fotografarlo. Non è una forma di egoismo: si potrebbe dire
piuttosto che è posseduta.
È
interessante l’inversione delle aspettative di genere, con lei dura
e lui fragile; però prima di avventurarci in speculazioni di gusto
contemporaneo conviene ricordare che la figura del giovane uomo
debole (nimaine) è canonica nel vecchio teatro/cinema giapponese.
Il
film si avvantaggia di una buona fotografia – anzi, si potrebbe
dire che tra la fotografia a colori (di Seki Rui) del film e le
fotografie in b/n di Nao ci sia un’analogia, nel bellissimo taglio
dell’immagine e nella disposizione delle figure nel quadro.
Certamente
la regista, al suo primo lungometraggio, promette assai bene. È
anche co-sceneggiatrice con Goda Ryusei. Invero si ha l’impressione
che la sceneggiatura stenti nella prima parte a dominare la
narrazione: pare indecisa, manca di una presa autorevole sul
materiale narrativo, mentre la seconda parte è senz’altro
buona (cronologicamente, copre l’ultimo periodo degli studi in
Giappone, poi un breve stacco a 4 anni dopo col ritorno di Nao da
Berlino, poi una conclusione ancora 6 mesi dopo) (però è un po’
goffo questo doppio salto temporale). In questa seconda parte il
film, senza raggiungere lo status di capolavoro, vola alto.
Good
Luck
Adachi
Shin è uno dei più originali registi giapponesi, e già lo mostrava
A Beloved Wife; ma ancora oltre va il film di vagabondaggi, di
incertezza e di certezza incerta Good Luck. Il protagonista Taro,
regista d’essai, è uno degli antieroi indecisi di Adachi. Ha
girato un documentario d’avanguardia che segue passo passo i
momenti della sua compagna Yuki: uno spostamento opportunistico dello
sguardo, un parlare dell’altra per evitare di parlare di sé. Così
almeno lo legge (ma ha ragione) la presentatrice del mini-festival al
quale il film è stato invitato, in un cinemino di provincia (qui
vediamo tornare in forze l’ironia di Your Lovely Smile della coppia
Watanabe Hirobumi & Lim Kah Wai). Nell’incontro, questa
presentatrice – l’incubo di ogni filmmaker! – gli dice papale
papale che il film “non era un granché”, che era interessante
solo per la determinazione della ragazza, e che lo ha fatto venire
fin lì per chiedergli: “Perché fa il regista?”
Si
può capire che Taro il giorno dopo preferisca girovagare per la
città. Lo blocca una ragazza, Miki, che gli dice che a lei il film è
piaciuto. E lo convince a unirsi a lei in una lunga gita nei
dintorni. Niente di erotico, non è un adulterio di viaggio – anche
se lui non risponde al cellulare quando Yuki lo chiama. Miki è una
figura bizzarra e affascinante, un po’ saggia e un po’ flippata
(nell’America degli anni ‘60 sarebbe stata una hippy), e il loro
viaggio non presenta solo i due personaggi ma riesce misteriosamente
e “telepaticamente” a trasmetterci moltissimo sul mondo
giapponese.
In
questo viaggio pieno di dettagli quotidiani e figure quotidiane
memorabili, una svolta eccezionale – attenzione: pesante spoiler! –
arriva verso la fine. Quando finalmente Taro e Miki sono insieme di
notte nella stessa stanza, in una sorta di casetta su un albero (e
chissà che…), sentono bussare – ed entra Yuki, che era a Tokyo, e dice “Mi chiedo
cosa pensi il pubblico di questo film”, e che le sarebbe piaciuto
avere la parte di Miki, per cui aveva fatto un provino (con
flashback dell’audizione). Così si incrociano il progetto
metacinematografico del regista fictional e la finzione di secondo
grado nella rivelazione presente. Ma c’è di più. Se finisse qui…
movimento di macchina indietro ed enunciazione delle cineprese… non
andrebbe oltre da quello che hanno fatto Jodorowsky e Fellini (ma
prima, Bava). No: con audacia sfacciata il film riprende il suo
racconto, e noi lo seguiamo, con una consapevolezza in più, in un
vertiginoso intrecciarsi dei livelli (meta)cinematografici – che
però non è fine a se stesso, non è un esercizio di stile, perché
questi personaggi sono vibranti di umanità.
Dollhouse
Incursione
nel cinema horror di Yaguchi Shinobu, Dollhouse racconta di una bambola
demoniaca (non posseduta da un demonio, intendo, bensì da uno
spirito vendicativo – come, per dirne una sola, nei film
dell’universo di The Conjuring).
I
coniugi Suzuki hanno perso in un incidente domestico la figlia
piccola Mei. La moglie entra in depressione e sviluppa un’affezione
morbosa per una bambola antica (ad altezza naturale di bambina) che
ha acquistato, la fa sedere a tavola e si comporta come se fosse
viva. Il tempo passa; i due coniugi hanno un’altra bambina, di nome
Mai, la moglie guarisce dalla depressione e la bambola (di nome Aya)
viene messa da parte. Ma la bambola (che la piccola Mai prende come
“amica immaginaria”) è viva veramente. La sua profonda malignità
prima, e la sua backstory dopo, vengono rivelate abilmente a poco a
poco.
Il
film è indubbiamente piacevole e ben realizzato. Il suo problema è
che chiunque si interessi di horror non può che trovare alquanto
stereotipato il concetto, che comprende i soliti esagerati
scetticismi, dove spicca il poliziotto più scemo del mondo. Peraltro
Yaguchi dirige con competenza e la seconda parte è senz’altro
buona. Alcuni jump scares spaventano effettivamente. Certo, negli
horror, ogni volta che un personaggio e specie un bambino è immobile
inquadrato di spalle, indovini che non ti piacerà quando si volta;
qua succede spesso; ma è la regola del gioco. Comunque, ci muoviamo
sempre fra i luoghi comuni dell’horror, ma, in questa seconda parte
almeno, con una maggiore quantità di invenzione.
Rewrite
Chi
è lettore di fantascienza ha familiarità con i paradossi temporali,
come il famoso “paradosso del nonno” (io costruisco una macchina
del tempo, vado nel passato e uccido mio nonno prima che generi mio
padre. Conseguenza, non sono mai nato. Ma se non sono mai nato, non
ho mai costruito una macchina del tempo e ucciso mio nonno.
Conseguenza, sono nato. Ma allora…). Sull’illogica logica del
paradosso temporale è giocato Rewrite di Matsui Daigo. In una high
school giapponese di oggi arriva Yasuhito proveniente da trecento
anni nel futuro. È venuto
perché è affascinato da un romanzo scritto nel nostro tempo che
parla dell’incontro di una ragazza con un viaggiatore del tempo.
Non occorre essere geni per capire che il romanzo è nato proprio da
questo incontro; e bisogna che una ragazza della high school scriva
questo romanzo entro 10 anni.
L’aspetto
innovativo è che la storia non si ferma qui ma è costruita in forma
di mystery: sembra che la prescelta sia la protagonista Miyuki, ma
invece, compaiono più versioni del romanzo; e la domanda è “Chi
ha scritto quella giusta?” Questa è solo la domanda centrale in un
mucchio di sviluppi e di misteri intrecciati. Senza fare spoiler, il
finale, vagamente filosoficheggiante, si avventura sul terreno
metanarrativo.
Il
difetto del film, che ha una presenza assai forte della voce
narrante, è che si prende beatamente il suo tempo per svilupparsi.
La svolta realmente interessante arriva dopo oltre mezzora: quando
Miyuki, che nella vita è diventata una scrittrice e ha scritto il
romanzo, scopre che ne esiste una versione quasi identica scritta da
un’altra persona.
In
seguito, la vicenda diventa piuttosto appassionante, con una miriade
di giochi d’artificio dialettico-narrativi: una serie di trovate –
giocate tra flashback della high school e scene dei suoi ex suoi
allievi che si reincontrano adulti dieci anni dopo – il cui scopo è
di lasciare a bocca aperta, e mi ricordano le prodezze dei giocolieri
quando tengono in aria quattro cinque bocce contemporaneamente. Non
dico che ci sia poesia (il grande regista Obayashi Nobuhiko, che è
una importante fonte d’ispirazione per questo film, ahimè è
morto) ma una dose di divertimento sì.
Angry
Squad
Corruzione
nel mondo del fisco giapponese nel divertente Angry Squad di Ueda
Shinichiro (l’autore di One Cut of the Dead e Popran). Kumazawa
(Uchino Seiyo), un agente delle tasse che ha osato investigare su un
arrogante miliardario evasore, Tachibana, viene costretto a scusarsi
e fisicamente umiliato (vuotandogli una bottiglia di vino in testa)
dal furfante e dal proprio capufficio, suo complice. Gli tocca
abbozzare – ma il suo cuore,
per non parlare del suo senso di giustizia, brama vendetta.
Il
destino gli mette fra le mani un truffatore (Okada Masaki) che lo
aveva fregato in un affare. Previa restituzione del maltolto,
Kumazawa arruola il truffatore e i suoi amici nel progetto di dare
una stangata a Tachibana
colpendolo dove gli fa più male, nel portafoglio. Il film ha
come titolo completo Angry Squad: The Civil Servant and the Seven
Swindlers, e questo dice tutto. Prima che facciate in tempo a dire
“Ocean’s Eleven” Kumazawa si ritrova in mezzo a un gruppo di
truffatori (swindlers) e criminali professionisti assortiti, che un
po’ ammirano e un po’ sopportano questo dilettante finito in
mezzo a loro. Superfluo dire che sono una galleria di figuri uno più
strambo e simpatico dell’altro (personalmente il mio preferito è
la ragazza col martello).
La
logica interna sparisce più velocemente del vino che cola lungo il
colletto di Kumazawa (come fa Tachibana a lasciarsi convincere che il
travet che aveva umiliato in precedenza sia in realtà disonesto e
ricchissimo?), ma non ce ne importa nulla, perché in un film del
genere “truffa che ti truffo” quello che importa sono il ritmo e
il divertimento; e da questo punto di vista Angry Squad ha le carte
perfettamente in regola. Un paio di passaggi (come quando irrompe in
una riunione la figlia ignara di Kumazawa e tutti fanno finta di
essere una filodrammatica) sono degni di una commedia americana degli
anni d’oro.
Attenzione,
spoiler! Va da sé che il target non è scemo, e quando mangia la
foglia il film diventa un giro vorticoso di imbrogli reciproci,
equivoci, inganni e rivelazioni, tenendo abilmente gli spettatori
all’oscuro di alcune carte che i nostri hanno nella manica – per
cui ci aspettiamo fino all’ultimo che vada a finire molto male.
Tutto
a posto, dunque? L’unico appunto è che in questo film a budget più
alto Ueda Shinichiro non mostra sempre quell’inventiva sfacciata
che c’era nei film precedenti
(anche il sottovalutato Popran). Esempio (con
spoilerone): alla fine Kumazawa
va dallo sconfitto
Tachibana e lo riempie di botte con una violenza degna di Miike
Takashi. Poi però vediamo che era una visualizzazione dei suoi
sentimenti e non
era successo veramente. Ottimo;
ma se durante la scena
dell’umiliazione Ueda avesse introdotto una simile visualizzazione
dell’interiorità… si possono fare molte cose con una bottiglia e nel mondo della fantasia non sarebbe stato difficile strapparla di mano al persecutore... intanto avrebbe colorito di più il
personaggio, e poi avrebbe bilanciato maggiormente il film. Tuttavia,
siccome ci siamo divertiti
molto, sarebbe ingeneroso cercare
il pelo nell’uovo.
altri
Welcome
to the Village di Jojo Hideo è uno dei massimi esempi
cinematografici di come costruire una montagna che partorisce un
topolino. Racconta di due cittadini che si trasferiscono in un
villaggio isolato, dove piano piano si accumulano fatti e
comportamenti dei paesani sempre più inquietanti. Sulla carta è
attraente, vero? Uno si chiede con ansia come riuscirà il film a
dare una spiegazione a tante stranezze. Semplice: ne spiega una, la
più banale, e le altre (il discorso dei bambini) le lascia nel
dimenticatoio.
Appena
migliore, dello stesso autore, A Bad Summer, che parla di corruzione
all’interno della burocrazia del welfare. Fondamentalmente sono due
film in uno. L’intendimento era di costruire lentamente una
situazione finché si arriva al boiling point, e poi di
descrivere l’esplosione; ma i due movimenti non si amalgamano,
anche perché il film non ha coerenza stilistica (vedi l’uso di
dettagli stretti nei PPP, che compare e scompare). La terribile
interpretazione del gangster Ryu ci riporta agli anni più grotteschi
dei gangster movies italiani, tra Lenzi e Di
Leo, ma in quelli il grottesco era voluto, mentre qui il film sembra
mirare al realismo.
Infine,
Ya Boy Kongming! The Movie di Shibai Shuhei, versione live-action di
un manga e di un anime, è un musicarello J-pop, dove l’azione
drammaturgica serve per arrivare a un grosso concerto. Dal valore che
si dà alle canzoni sentite in questo concerto dipende interamente il
giudizio sul film stesso.
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