domenica 4 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Giappone

 

Il più bel film della selezione del FEFF 2025 a mio parere (fra quelli che ho visto, ma sono un bel po’) apre la fila delle brevi recensioni dei film giapponesi al Far East Film Festival 2025. Come l’anno scorso, in linea di massima i film del Giappone sono risultati i più interessanti, il che conferma che il cinema giapponese è il migliore dell’Asia.
(Nota: alcune recensioni sono già state pubblicate in breve sul quotidiano Messaggero Veneto).


Teki Cometh

Portandoci dentro la mente di un vecchio professore, il bellissimo film giapponese Teki Cometh di Yoshida Daihachi parte come Eric Rohmer e arriva come David Lynch.
Scritto e diretto da Yoshida a partire dal romanzo Teki di Yashutaka Tsuitsui, questo film in b/n ha la stessa intensa originalità di The Scytian Lamb (già visto al FEFF) dello stesso autore. Breve spiegazione del titolo: teki è giapponese per “il nemico”, cometh è forma arcaica di comes (fa pensare alla Bibbia di Re Giacomo e a qualcosa di apocalittico).
Il prof. Watanabe (Nagatsuka Kyozo) è un professore universitario di letteratura francese in pensione, famosa autorità sul teatro del Seicento, molto amato dai suoi ex allievi. Vive da solo, scrivendo qualche articolo e cucinando per sé (la prima parte è anche una piccola illustrazione di cucina giapponese). È vedovo e rimpiange la moglie morta da anni. Ha ancora una sessualità vitale, e la spende in desiderio, sogni erotici e (il film implica) qualche momento di masturbazione.
Nonostante l’apparenza placida ha delle ansie: un po’ per la salute – non vuole farsi controllare per tema di ricevere brutte notizie – e molto per i soldi: teme di non farcela più a vivere mantenendo la sua bella casa. Continua a pensare al suo testamento e accarezza oziosamente l’idea del suicidio. Il film materializza questo carico d’ansia nelle email che lui riceve e cestina, sempre più persistenti, su un misterioso “nemico” che arriva da Nord.
Con grande abilità, dapprima pian piano, poi accelerando, il film ci porta dentro i sogni, proprio in senso onirico, del professore – nei quali esprime anche il suo desiderio per una bella ex allieva che viene a trovarlo ogni tanto. Naturalmente non sono dichiarati subito come sogno: i segnali di questo diverso statuto dell’immagine sono visibili ma non subito. Lo stile del film in questa operazione è la lentezza. Così, il confine narrativo (ovvero, quello rivolto a noi spettatori) fra realtà e sogno si fa sempre più labile, fino a realizzare sotto i nostri occhi un vero e proprio rovesciamento. In tal modo veniamo trasportati dentro la mente del professore e veniamo messi a conoscenza delle sue paure e rimorsi (sarà vero che è stato cacciato dall’università per harassment? È un sogno che lo dice). Alla fine, i messaggi d’ansia sul “nemico” che si sono depositati nel suo subconscio esplodono nell’incubo finale.

She Taught Me Serendipity

Sul piano dello spirito Ohku Akiko è una regista della Nouvelle Vague trapiantata (o reincarnata) in Giappone. Il suo cinema è di stupefacente immediatezza, eppure questa immediatezza – con aria di niente, di divagazione, di discorsi di scarpe e di grappa – va in profondità e tocca strati molto intimi della nostra realtà interiore. Non succede quasi niente ma succede tutto.
A prima vista il meraviglioso She Taught Me Serendipity sembra una commedia sentimentale – ma una commedia sentimentale dissonante, perché lo spettatore avverte fin dall’inizio una lieve inquietudine. Pare il classico film del genere “Tipo bizzarro incontra tipa bizzarra: felix coniunctio”. Toru (Hagiwara Riku) e Hana (Kawai Yuumi) vanno subito d’accordo; e i loro dialoghi strambi e “scentrati” hanno qualcosa di Beckett. Lentamente ci accorgiamo che un filo rosso del film è appunto il linguaggio (il che ha dato del filo da torcere agli autori dei sottotitoli). C’è in She Taught Me Serendipity una centralità del parlato che rientra molto nelle caratteristiche del cinema di Ohku Akiko – come è, di questo cinema, una caratteristica l’introspezione.
Mai, però, questi tratti sono stati portati (e senza preavviso) al calor bianco come qui. Mentre solitamente guardando un film lo spettatore si costruisce mentalmente un pattern di attese, qui la regola è l’imprevisto. Avanzano sul palco non due ma tre protagonisti – la terza è Sacchan (Ito Aoi), la ragazza a cui Toru piace – con tutto un loro gioco di presupposizioni reciproche e di equivoco; nel film ciascuno di loro ha un momento in cui brilla di luce propria per enunciare una verità straziante. Quel “de te fabula narratur” che è la caratteristica della grande arte assume in She Taught Me Serendipity un carattere particolarmente lacerante, grazie sì al testo, ma soprattutto al modo del tutto originale in cui esso viene distillato e inserito nella trama (la sceneggiatura è di Ohku dal romanzo di Fukutoku Shusuke). Il film getta una luce compassionevole ma spietata sui peccati che nella vita commettiamo verso qualcun altro, e riconoscervisi è terribile.
L’incrocio di tempi diversi nello stesso spazio alla fine (che chissà perché mi fa pensare al diversissimo cinema di Kore-eda) crea un possibile ricomporsi del dolore, ma a partire da un principio: ci sono responsabilità imperdonabili, e bisogna vivere per ripagarle.


The Scary House

Watanabe Hirobumi ci sorprende sempre. Nel discusso The Scary House, la sorpresa è quella di mettere insieme due elementi che più contrastanti non si può. Da un lato la figura comica (nel senso migliore della parola) di Watanabe che ben conosciamo: quell’amplificazione epica dei suoi tratti personali che ritorna in tutti i suoi film. Dall’altro un horror straight, una storia di fantasmi e possessione che si rifà in particolare a Paranormal Activity: nel film, Watanabe in persona viene assunto da una produttrice per passare alcune notti, filmato da una videocamera, in una casa che si dice infestata. In questa casa, quel che succede non è diverso da tanti horror del genere; esempio, mentre lui dorme (filmato) una palla di gomma arriva rotolando dal fuori campo, si ferma vicino al letto, poi rotola via.
Sulla carta siamo nel genere found footage, ma in spregio al genere c’è un gioco continuo fra inquadrature prodotte (Watanabe che si filma) e inquadrature oggettive, anche con lo scherzo di Watanabe che assume – imbrogliando sul compenso – un’altra persona, Yamauchi (che poi è Watanave Yuichiro), perché lo filmi; ma l’inquadratura li mostra insieme, Yamauchi con in mano la macchina da presa fictional. Dobbiamo aggiungere che ritornano nel film i regulars vecchi e nuovi del cinema watanabiano, da Hisatsugu Riko, ormai cresciuta, a Yanagi Asuna, la terribile manager di Techno Brothers (e nota che un passaggio di dialogo si raccorda alla sua figura in quel film, creando un ponte impossibile fra le due opere).
C’è un elemento di distacco umoristico assolutamente watanabiano, ma minore che nell’astrazione di Techno Brothers. Cito un dettaglio delizioso: a un certo punto Watanabe, di schiena, implora Yanagi Asuna, che dorme in un’altra camera, di fargli compagnia perché lui ha paura (e se ci fosse anche un po’ di desiderio?). Lei lo manda al diavolo e gli impone di uscire dalla stanza. Quando lui si volta, sconfitto, per andar via, vediamo che sulla sua maglietta c’è la scritta FUCK OFF.
Chi non ha visto il film, potrebbe pensare da queste righe che si tratti del vecchio trucco, alla Abbot and Costello Meet Frankenstein, di mettere un personaggio buffo in una situazione di horror serio (che solo la presenza del personaggio buffo trasporta sul piano della commedia). Non è così: Watanabe non buffoneggia (basta la scena in cui piange di paura sull’altalena fuori dalla casa). Del resto, la lunga serie di interviste ai paesani, fra cui Riko, già sposta il film fuori dalle aspettative del genere horror. È più giusto dire che anche il materiale horror viene attratto in quello che altrove ho chiamato Watanabeverse.
Nondimeno, va segnalato che a differenza degli altri suoi film, qui Watanabe recita, cioè esprime le emozioni in modo mimetico e non astratto. Questo film segna un cambiamento, o meglio un ulteriore stadio di un processo che retrospettivamente si può cogliere anche negli ultimi film. Cerco di spiegarmi: i primi film di Watanabe, quelli in b/n, erano film di Watanabe/regista interpretati da Watanabe/figura. In seguito Watanabe è diventato oggetto di culto (di nicchia, certo), cioè star. Questo film, ma retrospettivamente anche Your Lovely Smile e Techno Brothers, inverte il meccanismo: sono film di Watanabe/figura/star diretti (nel secondo caso) da Watanabe/regista. Mettono la figura in primo piano. Il presente film dilata in quantità imprevista questo processo di rovesciamento. È chiaro peraltro che Watanabe non poteva passare tutta la vita a ripetere Cry, e va riconosciuto il suo coraggio nel cercare nuove strade pur rimanendo fedele a se stesso. Dove andrà in futuro? Possiamo vedere The Scary House come un film di transizione.


Cells at Work!

Ricordate la serie televisiva francese a cartoni animati Siamo fatti così? Umanizzava i globuli, le vitamine, tutte le cellule del corpo umano. A questo filone fantastico – per il quale bisogna menzionare anche Osmosis Jones dei fratelli Farrelly o naturalmente l’episodio del rapporto sessuale “visto da dentro” in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso di Woody Allen – appartiene il film (live-action) Cells at Work! di Takeuchi Hideki, dal manga di Akane Shimizu. Non è la prima volta che Takeuchi porta con grande abilità un manga sullo schermo (pensiamo a Thermae Romae o Fly Me to the Saitama).
Quest’immersione fantastica nel nostro corpo concretizza la fantasia sfavillante del manga con un élan invidiabile e un’ottima regia. Si articola su due livelli: da un lato il mondo “grande”, con protagonisti la giovane Niko (Ashida Mana) e il padre vedovo poco attento alla sana alimentazione (Abe Sadano), dall’altro l’interno del corpo, visto come una grande città combattente. Lì un globulo rosso femmina (una globula?) (Nagano Rei) si innamora di un globulo bianco (Satoh Takeru), mentre entrambi sono impegnati nel duro lavoro di tenere sano il corpo-casa Naturalmente è valido l’elemento didattico, scherzosamente esposto, in una descrizione che, voglio ripetere, sprizza fantasia (le piastrine come tipiche scolarette giapponesi!) e ironia: la descrizione “da dentro” di un attacco di diarrea, con i muscoli dello sfintere come lottatori di sumo e la Cavalcata delle Valchirie come score, è irresistibile. La lotta delle difese del corpo contro le aggressioni di microbi e virus è realizzata in chiave di wuxiapian.
Mentre la prima parte del film si muove su un tono di pura comedy, la seconda vira sul drammatico quando Niko si ammala di leucemia. È tipico del cinema giapponese: la lacrima spunta dietro la risata.


Lust in the Rain

Bel film suggestivo, antinarrativo (è un insieme di storie che si confondono e ritornano su se stesse), Lust in the Rain di Katayama Shinzo è un live-action  dai manga di Tsuge Yoshiharu che, almeno a livello narrativo, potremmo definire d’avanguardia. In passato il Far East Film ha presentato un altro film tratto da Tsuge, Ramblers di Yamashita Nobuhiro, che ha molti punti in comune con questo che è ancora più libero proprio perché ingannevolmente realistico nella prima parte.
Sarebbe un tentativo vacuo e impossibile proporne una sinossi, appunto per il suo carattere di maelstrom di suggestioni e di ritorni. L’ultimo, liberissimo Obayashi di Labyrinth of Cinema potrebbe forse essere un paragone accettabile. Fondamentalmente il film parla di un mangaka, Yoshio (Narita Ryo), che si innamora di una bellissima donna, Fukuko (Nakamura Eriko), e vive una quantità di storie (sempre presenti due suoi conoscenti) sia nell’oggi sia nel passato (nella seconda parte del film entra drammaticamente la seconda guerra mondiale, con i massacri dei cinesi da parte de giapponesi), ma anche in una dimensione vagamente distopico/fantascientifica, disturbante, che coinvolge i bambini. Il giovane e ancor più la donna e gli altri personaggi cambiano stato, condizione e tempo in questo vortice narrativo, dove un unico punto fermo è l’amour fou di Yoshio verso Fukuko, in tutte le loro incarnazioni narrative. Di cognome Yoshio si chiama Tsube, e questo è indicativo, vero? Seguendolo, viviamo varie vite pressoché contemporaneamente, diversissime fra loro, ma tuttavia contrassegnate da una profonda unità.


See You Tomorrow

Ambientato fra gli studenti universitari del corso di fotografia, See You Tomorrow di Michimoto Saki è un “ritratto dell’artista assoluto”. La giovane Nao (Tanaka Makoto) scambia, lascia, cede tutto per la fotografia (non per la carriera, anche se questa arriva: giusto per il fotografare). Ho detto “cede”, non “sacrifica”, perché per lei l'unica cosa realmente importante è fissare la vita con la macchina fotografica (due ragazze fermate per strada dicono che è “strana”, che le spaventa, e scappano).
Merciless, spietata, viene chiamata più d’una volta Nao per questa dedizione alla riproduzione del mondo. Non è neanche una forma di appropriazione della vita in forma di foto; piuttosto è come se lei nobilitasse il mondo trasformandolo. E infatti, quando lei lascia il fidanzato Yamada per andare a studiare a Berlino, e glielo annuncia in una passeggiata notturna, Yamada scoppia a piangere – e lei si mette a fotografarlo. Non è una forma di egoismo: si potrebbe dire piuttosto che è posseduta.
È interessante l’inversione delle aspettative di genere, con lei dura e lui fragile; però prima di avventurarci in speculazioni di gusto contemporaneo conviene ricordare che la figura del giovane uomo debole (nimaine) è canonica nel vecchio teatro/cinema giapponese.
Il film si avvantaggia di una buona fotografia – anzi, si potrebbe dire che tra la fotografia a colori (di Seki Rui) del film e le fotografie in b/n di Nao ci sia un’analogia, nel bellissimo taglio dell’immagine e nella disposizione delle figure nel quadro.
Certamente la regista, al suo primo lungometraggio, promette assai bene. È anche co-sceneggiatrice con Goda Ryusei. Invero si ha l’impressione che la sceneggiatura stenti nella prima parte a dominare la narrazione: pare indecisa, manca di una presa autorevole sul materiale narrativo, mentre la seconda parte è senz’altro buona (cronologicamente, copre l’ultimo periodo degli studi in Giappone, poi un breve stacco a 4 anni dopo col ritorno di Nao da Berlino, poi una conclusione ancora 6 mesi dopo) (però è un po’ goffo questo doppio salto temporale). In questa seconda parte il film, senza raggiungere lo status di capolavoro, vola alto.


Good Luck

Adachi Shin è uno dei più originali registi giapponesi, e già lo mostrava A Beloved Wife; ma ancora oltre va il film di vagabondaggi, di incertezza e di certezza incerta Good Luck. Il protagonista Taro, regista d’essai, è uno degli antieroi indecisi di Adachi. Ha girato un documentario d’avanguardia che segue passo passo i momenti della sua compagna Yuki: uno spostamento opportunistico dello sguardo, un parlare dell’altra per evitare di parlare di sé. Così almeno lo legge (ma ha ragione) la presentatrice del mini-festival al quale il film è stato invitato, in un cinemino di provincia (qui vediamo tornare in forze l’ironia di Your Lovely Smile della coppia Watanabe Hirobumi & Lim Kah Wai). Nell’incontro, questa presentatrice – l’incubo di ogni filmmaker! – gli dice papale papale che il film “non era un granché”, che era interessante solo per la determinazione della ragazza, e che lo ha fatto venire fin lì per chiedergli: “Perché fa il regista?”
Si può capire che Taro il giorno dopo preferisca girovagare per la città. Lo blocca una ragazza, Miki, che gli dice che a lei il film è piaciuto. E lo convince a unirsi a lei in una lunga gita nei dintorni. Niente di erotico, non è un adulterio di viaggio – anche se lui non risponde al cellulare quando Yuki lo chiama. Miki è una figura bizzarra e affascinante, un po’ saggia e un po’ flippata (nell’America degli anni ‘60 sarebbe stata una hippy), e il loro viaggio non presenta solo i due personaggi ma riesce misteriosamente e “telepaticamente” a trasmetterci moltissimo sul mondo giapponese.
In questo viaggio pieno di dettagli quotidiani e figure quotidiane memorabili, una svolta eccezionale – attenzione: pesante spoiler! – arriva verso la fine. Quando finalmente Taro e Miki sono insieme di notte nella stessa stanza, in una sorta di casetta su un albero (e chissà che…), sentono bussare – ed entra Yuki, che era a Tokyo, e dice “Mi chiedo cosa pensi il pubblico di questo film”, e che le sarebbe piaciuto avere la parte di Miki, per cui aveva fatto un provino (con flashback dell’audizione). Così si incrociano il progetto metacinematografico del regista fictional e la finzione di secondo grado nella rivelazione presente. Ma c’è di più. Se finisse qui… movimento di macchina indietro ed enunciazione delle cineprese… non andrebbe oltre da quello che hanno fatto Jodorowsky e Fellini (ma prima, Bava). No: con audacia sfacciata il film riprende il suo racconto, e noi lo seguiamo, con una consapevolezza in più, in un vertiginoso intrecciarsi dei livelli (meta)cinematografici – che però non è fine a se stesso, non è un esercizio di stile, perché questi personaggi sono vibranti di umanità.

Dollhouse

Incursione nel cinema horror di Yaguchi Shinobu, Dollhouse racconta di una bambola demoniaca (non posseduta da un demonio, intendo, bensì da uno spirito vendicativo – come, per dirne una sola, nei film dell’universo di The Conjuring).
I coniugi Suzuki hanno perso in un incidente domestico la figlia piccola Mei. La moglie entra in depressione e sviluppa un’affezione morbosa per una bambola antica (ad altezza naturale di bambina) che ha acquistato, la fa sedere a tavola e si comporta come se fosse viva. Il tempo passa; i due coniugi hanno un’altra bambina, di nome Mai, la moglie guarisce dalla depressione e la bambola (di nome Aya) viene messa da parte. Ma la bambola (che la piccola Mai prende come “amica immaginaria”) è viva veramente. La sua profonda malignità prima, e la sua backstory dopo, vengono rivelate abilmente a poco a poco.
Il film è indubbiamente piacevole e ben realizzato. Il suo problema è che chiunque si interessi di horror non può che trovare alquanto stereotipato il concetto, che comprende i soliti esagerati scetticismi, dove spicca il poliziotto più scemo del mondo. Peraltro Yaguchi dirige con competenza e la seconda parte è senz’altro buona. Alcuni jump scares spaventano effettivamente. Certo, negli horror, ogni volta che un personaggio e specie un bambino è immobile inquadrato di spalle, indovini che non ti piacerà quando si volta; qua succede spesso; ma è la regola del gioco. Comunque, ci muoviamo sempre fra i luoghi comuni dell’horror, ma, in questa seconda parte almeno, con una maggiore quantità di invenzione.


Rewrite

Chi è lettore di fantascienza ha familiarità con i paradossi temporali, come il famoso “paradosso del nonno” (io costruisco una macchina del tempo, vado nel passato e uccido mio nonno prima che generi mio padre. Conseguenza, non sono mai nato. Ma se non sono mai nato, non ho mai costruito una macchina del tempo e ucciso mio nonno. Conseguenza, sono nato. Ma allora…). Sull’illogica logica del paradosso temporale è giocato Rewrite di Matsui Daigo. In una high school giapponese di oggi arriva Yasuhito proveniente da trecento anni nel futuro. È venuto perché è affascinato da un romanzo scritto nel nostro tempo che parla dell’incontro di una ragazza con un viaggiatore del tempo. Non occorre essere geni per capire che il romanzo è nato proprio da questo incontro; e bisogna che una ragazza della high school scriva questo romanzo entro 10 anni.
L’aspetto innovativo è che la storia non si ferma qui ma è costruita in forma di mystery: sembra che la prescelta sia la protagonista Miyuki, ma invece, compaiono più versioni del romanzo; e la domanda è “Chi ha scritto quella giusta?” Questa è solo la domanda centrale in un mucchio di sviluppi e di misteri intrecciati. Senza fare spoiler, il finale, vagamente filosoficheggiante, si avventura sul terreno metanarrativo.
Il difetto del film, che ha una presenza assai forte della voce narrante, è che si prende beatamente il suo tempo per svilupparsi. La svolta realmente interessante arriva dopo oltre mezzora: quando Miyuki, che nella vita è diventata una scrittrice e ha scritto il romanzo, scopre che ne esiste una versione quasi identica scritta da un’altra persona.
In seguito, la vicenda diventa piuttosto appassionante, con una miriade di giochi d’artificio dialettico-narrativi: una serie di trovate – giocate tra flashback della high school e scene dei suoi ex suoi allievi che si reincontrano adulti dieci anni dopo – il cui scopo è di lasciare a bocca aperta, e mi ricordano le prodezze dei giocolieri quando tengono in aria quattro cinque bocce contemporaneamente. Non dico che ci sia poesia (il grande regista Obayashi Nobuhiko, che è una importante fonte d’ispirazione per questo film, ahimè è morto) ma una dose di divertimento sì.

Angry Squad

Corruzione nel mondo del fisco giapponese nel divertente Angry Squad di Ueda Shinichiro (l’autore di One Cut of the Dead e Popran). Kumazawa (Uchino Seiyo), un agente delle tasse che ha osato investigare su un arrogante miliardario evasore, Tachibana, viene costretto a scusarsi e fisicamente umiliato (vuotandogli una bottiglia di vino in testa) dal furfante e dal proprio capufficio, suo complice. Gli tocca abbozzare – ma il suo cuore, per non parlare del suo senso di giustizia, brama vendetta.
Il destino gli mette fra le mani un truffatore (Okada Masaki) che lo aveva fregato in un affare. Previa restituzione del maltolto, Kumazawa arruola il truffatore e i suoi amici nel progetto di dare una stangata a Tachibana colpendolo dove gli fa più male, nel portafoglio. Il film ha come titolo completo Angry Squad: The Civil Servant and the Seven Swindlers, e questo dice tutto. Prima che facciate in tempo a dire “Ocean’s Eleven” Kumazawa si ritrova in mezzo a un gruppo di truffatori (swindlers) e criminali professionisti assortiti, che un po’ ammirano e un po’ sopportano questo dilettante finito in mezzo a loro. Superfluo dire che sono una galleria di figuri uno più strambo e simpatico dell’altro (personalmente il mio preferito è la ragazza col martello).
La logica interna sparisce più velocemente del vino che cola lungo il colletto di Kumazawa (come fa Tachibana a lasciarsi convincere che il travet che aveva umiliato in precedenza sia in realtà disonesto e ricchissimo?), ma non ce ne importa nulla, perché in un film del genere “truffa che ti truffo” quello che importa sono il ritmo e il divertimento; e da questo punto di vista Angry Squad ha le carte perfettamente in regola. Un paio di passaggi (come quando irrompe in una riunione la figlia ignara di Kumazawa e tutti fanno finta di essere una filodrammatica) sono degni di una commedia americana degli anni d’oro.
Attenzione, spoiler! Va da sé che il target non è scemo, e quando mangia la foglia il film diventa un giro vorticoso di imbrogli reciproci, equivoci, inganni e rivelazioni, tenendo abilmente gli spettatori all’oscuro di alcune carte che i nostri hanno nella manica – per cui ci aspettiamo fino all’ultimo che vada a finire molto male.
Tutto a posto, dunque? L’unico appunto è che in questo film a budget più alto Ueda Shinichiro non mostra sempre quell’inventiva sfacciata che c’era nei film precedenti (anche il sottovalutato Popran). Esempio (con spoilerone): alla fine Kumazawa va dallo sconfitto Tachibana e lo riempie di botte con una violenza degna di Miike Takashi. Poi però vediamo che era una visualizzazione dei suoi sentimenti e non era successo veramente. Ottimo; ma se durante la scena dell’umiliazione Ueda avesse introdotto una simile visualizzazione dell’interiorità… si possono fare molte cose con una bottiglia e nel mondo della fantasia non sarebbe stato difficile strapparla di mano al persecutore... intanto avrebbe colorito di più il personaggio, e poi avrebbe bilanciato maggiormente il film. Tuttavia, siccome ci siamo divertiti molto, sarebbe ingeneroso cercare il pelo nell’uovo.

altri

Welcome to the Village di Jojo Hideo è uno dei massimi esempi cinematografici di come costruire una montagna che partorisce un topolino. Racconta di due cittadini che si trasferiscono in un villaggio isolato, dove piano piano si accumulano fatti e comportamenti dei paesani sempre più inquietanti. Sulla carta è attraente, vero? Uno si chiede con ansia come riuscirà il film a dare una spiegazione a tante stranezze. Semplice: ne spiega una, la più banale, e le altre (il discorso dei bambini) le lascia nel dimenticatoio.
Appena migliore, dello stesso autore, A Bad Summer, che parla di corruzione all’interno della burocrazia del welfare. Fondamentalmente sono due film in uno. L’intendimento era di costruire lentamente una situazione finché si arriva al boiling point, e poi di descrivere l’esplosione; ma i due movimenti non si amalgamano, anche perché il film non ha coerenza stilistica (vedi l’uso di dettagli stretti nei PPP, che compare e scompare). La terribile interpretazione del gangster Ryu ci riporta agli anni più grotteschi dei gangster movies italiani, tra Lenzi e Di Leo, ma in quelli il grottesco era voluto, mentre qui il film sembra mirare al realismo.
Infine, Ya Boy Kongming! The Movie di Shibai Shuhei, versione live-action di un manga e di un anime, è un musicarello J-pop, dove l’azione drammaturgica serve per arrivare a un grosso concerto. Dal valore che si dà alle canzoni sentite in questo concerto dipende interamente il giudizio sul film stesso.

Nessun commento: