sabato 10 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Filippine, Thailandia, Vietnam, Sudest asiatico


Diamonds in the Sand

La regista filippina di Diamonds in the Sand, Janus Victoria, è stata l’autrice di un documentario sul kodokushi in Giappone: le “morti solitarie” di chi vive recluso, delle quali nessuno si accorge subito. In questo notevole esordio nel lungometraggio, sospeso fra il Giappone e le Filippine (che ha vinto il Gelso per la miglior opera prima), una di queste morti compare sullo sfondo. Il film è focalizzato sul protagonista, ma attraverso la sua esperienza esistenziale mette a contrasto due mondi e due modi di essere, ma nel senso del loro riflesso entro un’anima. Nel ruolo del protagonista è grandioso Lily Franky, eccellente attore giapponese che vediamo più spesso in parti secondarie, per esempio nei film di Kore-eda.
Kimura Yoji, impiegato divorziato di mezza età, è l’incarnazione stessa della solitudine. Il film dà una visione raggelata della vita giapponese, neanche più la lonely crowd di sociologica memoria ma la solitudine individuale assoluta, ognuno nella sua bolla (gustoso l’episodio del film porno sul computer all’inizio). Per paradossale conseguenza, i giapponesi quando sono ubriachi perdono il ritegno, vediamo uno che trascina Yoji al karaoke senza ritegno, è tutto un bere e scocciare.
Di questa solitudine fa parte ed è simbolo, per l’appunto, la morte solitaria di un vicino di casa di Yoji, sulla quale (non sulla morte: sull’accurata pulizia della casa in seguito, a opera di appositi addetti) il film insiste in immagini memorabili per senso drammatico: perché sono significanti, non solo visuali. Poiché il film è altresì una tessitura di immagini ritornanti, queste tracce della morte vengono richiamate con abilità agli occhi di Yoji altre due volte: la prima quando osserva le tracce di sangue dell’amico Toto ucciso dagli usurai (Yoji non aveva voluto prestargli soldi che lo avrebbero salvato) e la seconda, simbolica, quando pulisce distrattamente tracce di sporcizia da un portacenere in una svendita.
La madre anziana di Yoji – quelli tra lei e il figlio sono probabilmente i momenti di maggior risonanza psicologica – si rende conto del dolore silenzioso di lui: “Yoji… sei mai stato felice?” Gli fa promettere di cercare la felicità a ogni costo, dopo la sua morte. Dopo la morte della madre Kimura, che ha fatto amicizia con la badante-amica di lei nella casa di riposo, la filippina Minerva (Maria Isobel Lopez), va a trovarla a Manila. Si immerge così in una realtà totalmente “altra”, dove si svolge la seconda parte del film; alla solitudine giapponese si oppone una chiassosa vitalità collettiva che lo sbalestra non poco; e sì, nasce una relazione con Minerva – ma le cose non sono facili come ci aspetteremmo in un film commerciale.
La regia di Janus Victoria è molto efficace nel replicare sul livello strettamente visuale l’opposizione dei due mondi a livello narrativo: le inquadrature piene, strette, brulicanti di gente e di cose di Manila contro le inquadrature vuote, austere, implicitamente desolate di Tokyo (non per nulla parte del film presenta la distanziazione ai tempi del Covid). In generale il film è memorabile nelle inquadrature. Un dialogo drammatico di separazione fra Yoji e Minerva verso la fine è reso in campo/controcampo con un utilizzo del framingdividendo l’immagine in spazi, “territori”, ostacoli – che è veramente da manuale. È un film di quieta comprensione, che nasce da un’intensità dell’esperienza umana.

Sunshine

Le Filippine sono un paese fortemente cattolico e l’aborto è proibito – il che non vuol dire che non lo si faccia, solo che è segreto e pericoloso. Paradossalmente i “rimedi” abortivi si vendono illegalmente vicino a una delle chiese più famose di Manila.
Sunshine (Maris Racal), protagonista del film di Antoinette Jadaone, è una giovanissima atleta (ginnastica artistica) molto promettente che si allena per i Giochi asiatici e in prospettiva le Olimpiadi. È di famiglia povera e il mondo le crolla addosso quando scopre di essere rimasta incinta. Cerca goffamente (su Internet) istruzioni su cosa fare; vede tutto il suo sogno sportivo, costato dedizione e lunghi allenamenti, a rischio di andare in frantumi, mentre il suo ragazzo, figlio di un pastore protestante, si defila come un vigliacco. Maris Racal fornisce un’interpretazione assai capace e sensibile nei panni di Sunshine – e ha anche dovuto imparare la ginnastica artistica per la parte.
Il film consiste nelle disperate peregrinazioni di Sunshine, che compra un “medicinale” per abortire da una venditrice (notare il dettaglio dei soldi con cui quest’ultima tocca la statuetta sacra, come a purificarli), lo prende in un sudicio albergo e finisce in ospedale con un’emorragia. Scoppiato lo scandalo in famiglia, il ragazzo si presenta accompagnato dal padre che con aria santimoniosa promette a Sunshine che sosterrà economicamente il bambino – ma Sunshine, spalleggiata dalla sorella, manda al diavolo i due. La conclusione positiva è parzialmente aperta, o meglio implicita.
Un aspetto molto originale del film è la capacità di tenere in compresenza due aspetti: da un lato un realismo pressoché naturalistico (il mercato delle pratiche abortive, il losco albergo a ore, l’ospedale sovrappopolato, i bassifondi miserabili), dall’altro un elemento fantastico e allucinatorio, rappresentato da una terribile bambina verbalmente aggressiva e sboccata che appare da tutte le parti per rimproverare Sunshine e ha una conoscenza preternaturale di tutto. Di solito un simile doppio registro sarebbe stridente, ma Antoinette Jadaone lo domina con indubbia abilità.

Death Whisperer 2

Il thailandese Death Whisperer (2023) di Taweewat Wantha parlava di una famiglia con sei figli perseguitata da uno spirito maligno potentissimo che vuole possedere la sorella di mezzo, Yam. Il film descriveva bene la progressiva disintegrazione della tranquillità familiare, anche mettendo in evidenza le tensioni latenti in famiglia (lo stupido padre autoritario, il fratello di mezzo ostile al primo, che è un soldato di ritorno a casa). Yak, l’ex soldato, sconfiggeva questo spirito femminile vestito di nero, ma non salvava la sorella.
La storia continua in Death Whisperer 2, dello stesso regista. Bisogna stare attenti ai sequel, spesso non fanno che nuocere al film originale, ma questo è buono come il primo. La prosecuzione della storia ha una sua consistenza logica e il film non ripete pedissequamente il primo film, tutt’altro (ha anche cura di ambientare il climax fuori dall’area del primo film, giusto per cambiare la cornice).
Concetto base: Yak non ha perdonato la morte della sorella Yam uccisa dal ghost femmina del primo film, e le dà la faccia da tre anni. Come atteggiamento vendicativo ricorda l’Ash della trilogia Evil Dead di Sam Raimi; da notare che in generale Raimi influenza fortemente i due Death Whisperer, anche in alcuni tocchi di horror/humour (e anzi, di viso l’attore Nadech Kugimiya assomiglia vagamente a Bruce Campbell).
Una traccia fornita da un indemoniato (qui la ricerca soprannaturale si incrocia col noir!) porta Yak in una foresta ultra-infestata, assieme a un gruppo di compagni. In questo secondo atto assistiamo a una vera spedizione che mischia l’horror e il film d’avventura (anche questo è raimiano). Nel terzo atto, il ghost, ritornato alla potenza originaria, attacca la famiglia in un hotel dove si dovrebbero celebrare le nozze della sorella Yad. Non manca il consueto e crudele attacco del mostro alla bambina terrorizzata, Yee (la piccola Nina Jessica Padoan). In questa parte, va detto, il film si permette un tocco kubrickiano un po’ eccessivo (la madre posseduta col piccone).
Il film è diretto con mano sicura ed è decisamente piacevole. Ottima la parte nella foresta e anche la realizzazione del mostro. Anche se è utile aver visto il primo film, i riferimenti interni sono più che sufficienti per seguire, e la ricomparsa finale della vittima del primo film, Yam, è un tocco indovinato.

The Stone

Il cinema thailandese è, spesso se non sempre, un cinema dell’eccesso, che si butta a capofitto nelle sue storie – nel bene e nel male. È nel bene con il piacevole The Stone, opera prima di due registi esordienti, Arak Amornsupasiri, attore e musicista, e Vuthipong Sukhanindr, graphic designer e autore di spot. Appunto, The Stone non si pone limiti, con una narrazione frenetica, non priva di assurdità deliranti, piena di rovesciamenti e sorprese al di là della normale amministrazione della narrativa thriller.
Il film ci porta dentro una specialità thailandese che è il commercio degli amuleti (avviene nelle stesse forme e con la stessa cupidigia che, da noi, quello delle monete o dei francobolli, con mercanti in concorrenza e gigantesche fiere), alla quale introduce con intelligenza lo spettatore tramite tocchi veloci, didattico senza sembrarlo. Con una maglietta che profeticamente porta la scritta Son of Danger, il giovane Ake si aggira spaesato in questo mondo nuovo per lui. Deve vendere un amuleto appartenuto al padre che è molto prezioso, posto che non sia un falso. Come il protagonista cinese di Green Wave con la sua ciotola, ma le analogie finiscono qui. Il mercato degli amuleti è un mondo di lupi, dove la pistola ha diritto di cittadinanza al pari del monocolo da orologiaio; ed è una fortuna per Ake incontrare la giovane e simpatica esperta Muay.
Da notare la lunghissima parte finale che si svolge tutta in uno stesso locale in termo reale, ed è appassionante. Qui si ha il più beffardo rovesciamento delle attese. Mi spiego, ma – sia avvertito chi legge! – è uno spoiler radicale. Mentre è ordinario nei film lo schema dialettico “ragazzo smarrito incontra ragazza che lo aiuta – lo sviluppo fa sì che lui dubiti di lei e la respinga – lei alla fine si rivela una vera alleata”, qui il terzo stadio si rivela un wishful thinking, non del protagonista ma dello spettatore – il film gabba anche noi.

Betting with Ghost

Il film di Nguyen Nhat Trung – che si potrebbe definire una commedia sentimentale con fantasma – conferma l’impressione che il cinema vietnamita si avvalga, come quello cinese, di una fotografia raffinata ma non sperimentale come in molti film coreani, bensì popular, si potrebbe dire di gusto hollywoodiano, con un montaggio molto professionale. Segnalo la bellezza di un’inquadratura con due personaggi seduti, dove la fine scena è come “rappresentata” da una donna in bicicletta che traversa l’inquadratura stessa, al centro, come affondando e tagliandola, e scompare dentro un edificio.
Il film inizia come commedia, addirittura in modi (rubo una giustissima osservazione a Sabrina Baracetti) da commedia hongkonghese – e poi si trasforma in un film commovente, dove la commedia resta come sottotraccia amara. Questo spostamento, di audacia molto asiatica, può ricordare quello del cinese Deep in the Mountains di Li Yongyi; però devo aggiungere che mentre in quel film il cambio di tono lasciava un certo sbalestramento, un senso di contraddizione, qui il trapasso è veloce ma fluido e non lascia stupore – a patto naturalmente di essere consci che il cinema orientale ama mescolare le risate e le lacrime molto più del nostro.
Lanh è il figlio scansafatiche del vedovo Dao, che si ammazza di lavoro, mentre invece Lanh dice di andare a lavorare ma va a scommettere ai combattimenti di galli. Causa un incidente (inseguito dalla gang di un creditore, casca dentro una fossa nel cimitero), Lanh comincia a vedere il fantasma di una giovane donna, Na, la quale gli chiede di aiutarla a ritrovare la figlia: lei è morta di parto 25 anni prima. Se Lanh non lo fa, sarà haunted per tutta la vita; se lo fa, Na lo aiuterà coi suoi mezzi di spettro a guadagnare soldi (esilarante la scena della rissa di Na con altri fantasmi a proposito del lotto). Però, per una specie di contrappasso (“le leggi dei morti”) i guadagni di Lanh comporteranno proporzionalmente un danno fisico a suo padre, quindi meglio che non sia avido. Nello sviluppo, tuttavia, il film rovescia in modo sorprendente molte premesse accettate dallo spettatore, specie quelle su Lanh: la nostra percezione del personaggio viene ricombinata.
Il trio attoriale è eccellente, con Diep Bao Ngoc che è la ragazza fantasma, Tuan Tran (Lanh) che sembra banale all’inizio e invece tira fuori profondità durante lo sviluppo, e Nsut Hoai Linh (il padre), un attore veterano molto famoso in Vietnam, che in effetti è eccezionale in un ruolo tragicomico e dolceamaro, un po’ alla Michael Hui. Va poi menzionata anche Le Giang come Miss Sau, oggetto di pudico amore da parte del padre.

Next Stop, Somewhere

Next Stop, Somewhere di James Lee, co-firmato da Jeremiah Foo, è una produzione malaysiana ma si potrebbe considerare malaysiano-taiwanese: si svolge interamente a Taipei una delle sue due storie, interlineate a grossi blocchi e collegate da solo rimandi capricciosi e simbolici (la banconota). Questa storia racconta dell’attore Huang (Anthony Wong, con capelli e sopracciglia tinti di nero) che è bloccato in un albergo a Taipei dalla quarantena, al tempo del Covid, col problema di denaro da trasferire da Hong Kong che non arriva. Non è detto esplicitamente ma non è difficile pensare che sia fuggito da Hong Kong per motivi politici. La sua storia si incrocia con quella di Qian (Angel Lee), una cameriera dello stesso albergo che vive la fine di una relazione lesbica con una donna psichicamente fragile e autolesionista, e quindi ricattatoria.
La seconda storia si svolge in Malaysia. Parla di una ragazza vietnamita, Kim (Kendra Sow), “comprata” come moglie dal ricco cinese malaysiano Leong (Mike Chuah) più vecchio di lei. Arrivata in Malaysia Kim scopre che ricco non lo è poi tanto. Leong però, più che un imbroglione sbavante, è a sua volta una vittima, vessato da una terribile madre che vuole un erede per la famiglia e per questo l’ha costretto a sposarsi; e ora s’intromette nella vita sessuale dei due con trovate tragicomiche, ignorando che Huang non osa imporsi alla moglie disgustata. Straniera in terra straniera, tormentata dalla suocera, Kim si trova nella peggiore delle situazioni.
Il concetto del film – chiarisce anche una citazione finale di Benjamin Franklin – è la ricerca della libertà, che non bisogna scambiare con una sicurezza temporanea. Next Stop, Somewhere ha le caratteristiche del film d’arte – l’uso di lunghi silenzi, il soffermarsi sull’immediato e sul gesto minimo, il tempo reale (che al cinema diventa tempo prolungato) ed è bello, anzi molto bello, per quanto un po’ lontano dalle linee tradizionali del FEFF.

Mad of Madness

Questo horror di livello discreto, sebbene non trascendentale, diretto da Eden Junjung ha tra l’altro l’originalità di svolgersi principalmente in una cava di sabbia e pietrisco fra le montagne – non i soliti edifici in mezzo alla giungla – ed ha altresì un forte contenuto politico-sociale.
In questa cava, alla sera i lavoranti si affrettano ad andarsene perché “vengono fuori i demoni”. Pare che ci sia, relativamente vicino, una miniera segreta di diamanti. Un uomo che è entrato in possesso di un diamante va a cercarla di notte, e fa una brutta fine, non per mano del mostro (che beninteso c’è) ma del suo amico venuto con lui, il quale lo ammazza e gli ruba il diamante. La vedova con bambino di quest’uomo (una buona attrice, di nome Raihaanun) si mette alla sua ricerca, facendosi assumere come lavorante alla cava – anche perché il marito appare come fantasma. Si crea un autentico dramma fra poveri, che coinvolge l’assassino. Intanto vediamo che in segreto, nella miniera a cielo aperto, le forze paramilitari del perfido Broto, proprietario della cava, tormentano in ogni modo dei prigionieri per fargli cercare i diamanti.
Le due linee naturalmente si fondono, fino a un climax bizzarro fino ad essere stupefacente (sul quale, a malincuore, non posso fare spoiler), che porta in primo piano l’aspetto soprannaturale, un po’ underplayed in alcuni momenti di questo dramma sociale di poverissimi oppressi da cattivissimi (ed è un vero piacere, nel finale, vedergli mordere la polvere – in tutti i sensi).


Nessun commento: