Diamonds in the Sand
La
regista filippina
di
Diamonds in the Sand, Janus Victoria, è stata
l’autrice
di un documentario sul kodokushi in Giappone: le “morti solitarie”
di chi vive recluso, delle quali nessuno si accorge subito.
In
questo notevole
esordio nel lungometraggio,
sospeso fra il
Giappone
e le
Filippine
(che
ha vinto il Gelso per la miglior opera prima),
una
di
queste morti
compare
sullo sfondo. Il
film è focalizzato
sul protagonista,
ma
attraverso
la
sua esperienza esistenziale mette a contrasto due mondi e
due modi di essere,
ma
nel
senso del loro riflesso entro un’anima. Nel
ruolo
del
protagonista è
grandioso
Lily Franky,
eccellente attore giapponese che
vediamo più
spesso
in parti
secondarie,
per
esempio nei
film di
Kore-eda.
Kimura
Yoji, impiegato
divorziato
di
mezza età,
è l’incarnazione stessa della solitudine. Il film dà una visione
raggelata
della vita giapponese, neanche più la lonely crowd di sociologica
memoria ma la solitudine individuale assoluta, ognuno
nella sua bolla (gustoso l’episodio del film porno sul computer
all’inizio). Per paradossale conseguenza, i
giapponesi quando sono ubriachi perdono il ritegno, vediamo
uno
che
trascina
Yoji
al karaoke senza
ritegno,
è tutto un bere e scocciare.
Di
questa solitudine fa parte ed
è simbolo, per
l’appunto,
la
morte solitaria di
un
vicino di casa di Yoji,
sulla quale (non sulla morte: sull’accurata
pulizia della casa in
seguito,
a opera di appositi addetti) il film insiste in immagini memorabili
per senso drammatico: perché sono
significanti,
non solo visuali. Poiché
il film è altresì
una tessitura di immagini ritornanti, queste
tracce della morte vengono richiamate
con abilità agli
occhi di Yoji altre due volte: la prima quando osserva le tracce di
sangue dell’amico Toto ucciso dagli usurai (Yoji non aveva voluto
prestargli soldi che lo avrebbero salvato) e la seconda, simbolica,
quando pulisce distrattamente tracce di sporcizia da un portacenere
in una svendita.
La
madre anziana di Yoji
– quelli tra lei e il figlio sono probabilmente i momenti di
maggior risonanza psicologica – si rende conto del dolore
silenzioso di lui: “Yoji… sei mai stato felice?” Gli fa
promettere di cercare la felicità a ogni costo, dopo la sua morte.
Dopo
la morte della madre Kimura,
che ha
fatto amicizia con la badante-amica
di lei nella casa di riposo, la
filippina Minerva
(Maria
Isobel Lopez),
va
a trovarla a Manila. Si
immerge così
in
una realtà totalmente “altra”, dove si
svolge la seconda
parte
del film; alla
solitudine giapponese si oppone una chiassosa vitalità collettiva
che lo sbalestra non poco; e
sì, nasce una relazione con
Minerva –
ma le cose non sono facili come ci aspetteremmo in
un film commerciale.
La
regia di Janus
Victoria
è molto
efficace
nel replicare
sul livello
strettamente visuale l’opposizione dei due mondi a livello
narrativo: le
inquadrature
piene, strette, brulicanti di gente e di cose di
Manila
contro le
inquadrature
vuote, austere, implicitamente desolate di Tokyo (non
per nulla parte
del
film presenta
la distanziazione ai tempi del Covid).
In generale il film è memorabile
nelle inquadrature. Un
dialogo drammatico di
separazione fra
Yoji e Minerva verso
la fine è
reso in campo/controcampo con un utilizzo del framing – dividendo
l’immagine in spazi, “territori”, ostacoli – che
è veramente da manuale. È
un film di quieta
comprensione,
che
nasce da un’intensità dell’esperienza umana.
Sunshine
Le
Filippine sono un paese fortemente cattolico e l’aborto è proibito
– il che non vuol dire che non lo si faccia, solo che è segreto e
pericoloso. Paradossalmente i “rimedi” abortivi si vendono
illegalmente vicino a una delle chiese più famose di Manila.
Sunshine
(Maris Racal), protagonista del film di Antoinette Jadaone, è una
giovanissima atleta (ginnastica artistica) molto promettente che si
allena per i Giochi asiatici e in prospettiva le Olimpiadi. È
di famiglia povera e il mondo le crolla addosso quando scopre di
essere rimasta incinta. Cerca goffamente (su Internet) istruzioni su
cosa fare; vede tutto il suo sogno sportivo, costato dedizione e
lunghi allenamenti, a rischio di andare in frantumi, mentre il suo
ragazzo, figlio di un pastore protestante, si defila come un
vigliacco. Maris Racal fornisce un’interpretazione assai capace e
sensibile nei panni di Sunshine – e ha anche dovuto imparare la
ginnastica artistica per la parte.
Il
film consiste nelle disperate peregrinazioni di Sunshine, che compra
un “medicinale” per abortire da una venditrice (notare il
dettaglio dei soldi con cui quest’ultima tocca la statuetta sacra,
come a purificarli), lo prende in un sudicio albergo e finisce in
ospedale con un’emorragia. Scoppiato lo scandalo in famiglia, il
ragazzo si presenta accompagnato dal padre che con aria santimoniosa
promette a Sunshine che sosterrà economicamente il bambino – ma
Sunshine, spalleggiata dalla sorella, manda al diavolo i due. La
conclusione positiva è parzialmente aperta, o meglio implicita.
Un
aspetto molto originale del film è la capacità di tenere in
compresenza due aspetti: da un lato un realismo pressoché
naturalistico (il mercato delle pratiche abortive, il losco albergo a
ore, l’ospedale sovrappopolato, i bassifondi miserabili),
dall’altro un elemento fantastico e allucinatorio, rappresentato da
una terribile bambina verbalmente aggressiva e sboccata che appare da
tutte le parti per rimproverare Sunshine e ha una conoscenza
preternaturale di tutto. Di solito un simile doppio registro sarebbe
stridente, ma Antoinette Jadaone lo domina con indubbia abilità.
Death
Whisperer 2
Il
thailandese Death
Whisperer (2023)
di Taweewat
Wantha parlava
di una famiglia con
sei figli perseguitata
da uno spirito maligno potentissimo che vuole possedere la sorella di
mezzo, Yam. Il
film descriveva
bene la progressiva disintegrazione della tranquillità familiare,
anche mettendo in evidenza le tensioni latenti in
famiglia (lo stupido padre autoritario, il fratello di mezzo ostile
al primo, che
è un soldato di ritorno a casa).
Yak,
l’ex
soldato, sconfiggeva
questo
spirito femminile vestito di nero, ma non salvava la sorella.
La
storia continua in Death
Whisperer 2, dello stesso regista. Bisogna
stare attenti ai sequel, spesso non fanno che nuocere al film
originale,
ma questo è buono come
il primo.
La prosecuzione della storia ha una sua consistenza logica e il film
non ripete pedissequamente il primo film,
tutt’altro (ha anche cura di ambientare il climax fuori dall’area
del primo
film, giusto per cambiare la cornice).
Concetto
base: Yak non ha perdonato la morte della sorella Yam uccisa dal
ghost femmina del primo film, e le dà la faccia da tre anni. Come
atteggiamento vendicativo
ricorda
l’Ash della trilogia Evil Dead di Sam Raimi; da
notare che in
generale Raimi
influenza fortemente i due Death Whisperer, anche in alcuni tocchi di
horror/humour (e
anzi,
di
viso l’attore
Nadech
Kugimiya assomiglia
vagamente
a Bruce
Campbell).
Una
traccia fornita
da un indemoniato (qui
la
ricerca
soprannaturale si incrocia col noir!) porta Yak
in
una foresta ultra-infestata, assieme
a un
gruppo di compagni. In questo secondo atto assistiamo
a una vera spedizione che mischia l’horror e il film d’avventura
(anche questo è raimiano). Nel terzo atto, il ghost, ritornato
alla potenza originaria, attacca la famiglia in un hotel
dove
si dovrebbero celebrare le nozze della sorella Yad.
Non manca il consueto e crudele attacco del mostro alla bambina
terrorizzata, Yee (la piccola Nina Jessica Padoan). In questa parte,
va
detto,
il film si permette un tocco kubrickiano un po’ eccessivo (la madre
posseduta col piccone).
Il
film è diretto con mano sicura ed è decisamente piacevole. Ottima
la parte nella foresta e anche la realizzazione del mostro. Anche se
è utile aver visto il primo film, i riferimenti interni sono più
che sufficienti per seguire, e la ricomparsa finale della vittima del
primo film, Yam, è un tocco indovinato.
The
Stone
Il
cinema thailandese è, spesso se non sempre, un cinema dell’eccesso,
che si butta a capofitto nelle sue storie – nel bene e nel male. È
nel bene con il piacevole The Stone, opera prima di due registi
esordienti, Arak Amornsupasiri, attore e musicista, e Vuthipong
Sukhanindr, graphic designer e autore di spot. Appunto, The Stone non
si pone limiti, con una narrazione frenetica, non priva di assurdità
deliranti, piena di rovesciamenti e sorprese al di là della normale
amministrazione della
narrativa thriller.
Il
film ci porta dentro una specialità thailandese che è il commercio
degli amuleti (avviene nelle stesse forme e con la stessa cupidigia
che, da noi, quello delle monete o dei francobolli, con mercanti in
concorrenza e gigantesche fiere), alla quale introduce con
intelligenza lo spettatore tramite tocchi veloci, didattico senza
sembrarlo. Con una maglietta che profeticamente porta la scritta Son
of Danger, il giovane Ake si aggira spaesato in questo mondo nuovo
per lui. Deve vendere un amuleto appartenuto al padre che è molto
prezioso, posto che non sia un falso. Come il protagonista cinese di
Green Wave con la sua ciotola, ma le analogie finiscono qui. Il
mercato degli amuleti è un mondo di lupi, dove la pistola ha diritto
di cittadinanza al pari del monocolo da orologiaio; ed è una fortuna
per Ake incontrare la giovane e simpatica esperta Muay.
Da
notare la lunghissima parte finale che si svolge tutta in uno stesso
locale in termo reale, ed è appassionante. Qui si ha il più
beffardo rovesciamento delle attese. Mi spiego, ma – sia avvertito
chi legge! – è uno spoiler radicale. Mentre è ordinario nei film
lo schema dialettico “ragazzo smarrito incontra ragazza che lo
aiuta – lo sviluppo fa sì che lui dubiti di lei e la respinga –
lei alla fine si rivela una vera alleata”, qui il terzo stadio si
rivela un wishful thinking, non del
protagonista ma dello spettatore – il film gabba anche noi.
Betting
with Ghost
Il
film di Nguyen Nhat Trung – che si potrebbe definire una commedia
sentimentale con fantasma – conferma l’impressione che il cinema
vietnamita si avvalga, come quello cinese,
di una fotografia raffinata ma
non sperimentale
come in molti film
coreani, bensì popular,
si potrebbe dire di
gusto hollywoodiano, con
un montaggio molto professionale.
Segnalo
la bellezza di un’inquadratura con due personaggi seduti, dove la
fine scena è come “rappresentata” da una donna in bicicletta che
traversa l’inquadratura
stessa, al centro, come affondando e tagliandola, e scompare dentro
un edificio.
Il
film inizia come commedia, addirittura in modi (rubo una giustissima
osservazione a Sabrina Baracetti) da commedia hongkonghese – e poi
si trasforma in un film commovente, dove la commedia resta come
sottotraccia amara. Questo spostamento, di audacia molto asiatica,
può ricordare quello del cinese Deep in the Mountains di Li Yongyi;
però devo aggiungere che mentre in quel film il cambio di tono
lasciava un certo sbalestramento, un senso di contraddizione, qui il
trapasso è veloce ma fluido e non lascia stupore – a patto
naturalmente di essere consci che il cinema orientale ama mescolare
le risate e le lacrime molto più del nostro.
Lanh
è il figlio scansafatiche del vedovo Dao, che si ammazza di lavoro,
mentre invece Lanh dice di andare a lavorare ma va a scommettere ai
combattimenti di galli. Causa un incidente (inseguito dalla gang di
un creditore, casca dentro una fossa nel cimitero), Lanh comincia a
vedere il fantasma di una giovane donna, Na, la quale gli chiede di
aiutarla a ritrovare la figlia: lei è morta di parto 25 anni prima.
Se Lanh non lo fa, sarà haunted per tutta la vita; se lo fa, Na lo
aiuterà coi suoi mezzi di spettro a guadagnare soldi (esilarante la scena della rissa di Na con altri fantasmi a proposito del lotto). Però, per una
specie di contrappasso (“le leggi dei morti”) i guadagni di Lanh comporteranno proporzionalmente un danno fisico a suo padre, quindi
meglio che non sia avido. Nello sviluppo, tuttavia, il film
rovescia in modo sorprendente molte premesse accettate dallo
spettatore, specie quelle su Lanh: la nostra percezione del
personaggio viene ricombinata.
Il
trio attoriale è eccellente, con Diep Bao Ngoc che è la ragazza
fantasma, Tuan Tran (Lanh) che sembra banale all’inizio e invece
tira fuori profondità durante lo sviluppo, e
Nsut Hoai Linh (il padre), un attore veterano molto famoso in
Vietnam, che in effetti è eccezionale in un ruolo tragicomico e
dolceamaro, un po’ alla Michael Hui. Va poi menzionata anche Le
Giang come Miss Sau, oggetto di pudico amore da parte del padre.
Next
Stop, Somewhere
Next
Stop, Somewhere di James Lee, co-firmato da Jeremiah Foo, è una
produzione malaysiana ma si potrebbe considerare
malaysiano-taiwanese: si svolge interamente a Taipei una delle sue
due storie, interlineate a grossi blocchi e collegate da solo rimandi
capricciosi e simbolici (la banconota). Questa storia racconta
dell’attore Huang (Anthony Wong, con capelli e sopracciglia tinti
di nero) che è bloccato in un albergo a Taipei dalla quarantena, al
tempo del Covid, col problema di denaro da trasferire da Hong Kong
che non arriva. Non è detto esplicitamente ma non è difficile
pensare che sia fuggito da Hong Kong per motivi politici. La sua
storia si incrocia con quella di Qian (Angel Lee), una cameriera
dello stesso albergo che vive la fine di una relazione lesbica con una
donna psichicamente fragile e autolesionista, e quindi ricattatoria.
La
seconda storia si svolge in Malaysia. Parla di una ragazza
vietnamita, Kim (Kendra Sow), “comprata” come moglie dal ricco
cinese malaysiano Leong (Mike Chuah) più vecchio di lei. Arrivata in
Malaysia Kim scopre che ricco non lo è poi tanto. Leong però, più
che un imbroglione sbavante, è a sua volta una vittima, vessato da
una terribile madre che vuole un erede per la famiglia e per questo
l’ha costretto a sposarsi; e ora s’intromette nella vita sessuale
dei due con trovate tragicomiche, ignorando che Huang non osa imporsi
alla moglie disgustata. Straniera in terra straniera, tormentata dalla
suocera, Kim si trova nella peggiore delle situazioni.
Il
concetto del
film
– chiarisce anche
una
citazione finale di Benjamin Franklin – è la
ricerca della libertà, che
non bisogna scambiare con una sicurezza temporanea. Next
Stop, Somewhere ha
le caratteristiche del film d’arte – l’uso di lunghi silenzi,
il
soffermarsi
sull’immediato
e sul
gesto minimo, il
tempo reale (che
al cinema diventa tempo prolungato)
–
ed
è
bello, anzi
molto bello, per
quanto un po’ lontano dalle
linee tradizionali
del FEFF.
Mad of Madness
Questo
horror di livello discreto, sebbene non trascendentale, diretto da
Eden Junjung ha tra l’altro l’originalità di svolgersi
principalmente in una cava di sabbia e pietrisco fra le montagne –
non i soliti edifici in mezzo alla giungla – ed ha altresì un
forte contenuto politico-sociale.
In
questa cava, alla sera i lavoranti si affrettano ad andarsene perché
“vengono fuori i demoni”. Pare che ci sia, relativamente vicino,
una miniera segreta di diamanti. Un uomo che è entrato in possesso
di un diamante va a cercarla di notte, e fa una brutta fine, non per
mano del mostro (che beninteso c’è) ma del suo amico venuto con
lui, il quale lo ammazza e gli ruba il diamante. La vedova con
bambino di quest’uomo (una buona attrice, di nome Raihaanun) si
mette alla sua ricerca, facendosi assumere come lavorante alla cava –
anche perché il marito appare come fantasma. Si crea un autentico
dramma fra poveri, che coinvolge l’assassino. Intanto vediamo che
in segreto, nella miniera a cielo aperto, le forze paramilitari del
perfido Broto, proprietario della cava, tormentano in ogni modo dei
prigionieri per fargli cercare i diamanti.
Le
due linee naturalmente si fondono, fino a un climax bizzarro fino ad
essere stupefacente (sul quale, a malincuore, non posso fare
spoiler), che porta in primo piano l’aspetto soprannaturale, un po’
underplayed in alcuni momenti di questo dramma sociale di poverissimi
oppressi da cattivissimi (ed è un vero piacere, nel finale, vedergli
mordere la polvere – in tutti i sensi).
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