venerdì 15 marzo 2024

Dune - Parte due

Denis Villeneuve

Costa un po’ di fatica – e d’incertezza – commentare Dune: Part Two come un film a sé stante, perché… come si esprimerebbero i Fremen… è la parte mediana del verme: è il secondo atto in una trilogia che è una monumentale opera compatta. Dune: Part Two è grande spettacolo, indubbiamente entusiasmante; e come rozzamente si suol dire, avercene di film così. Anche al di là del racconto e delle sue psicologie, anche al di là della costruzione del mito e dei suoi problemi, basterebbe a nobilitare questa epopea del deserto il valore “grafico” dell’immagine, ossia l’azione in relazione al paesaggio (i Sardaukar che ascendono in volo sulla roccia, oppure Paul e Chani che si muovono all’unisono sulle dune di sabbia come in un balletto). Inutile menzionare la potenza dei grandi vermi che scorrono nella sabbia. Già lo sappiamo, Denis Villeneuve è un grande paesaggista, e i suoi esterni immaginari sono autentici dipinti.
Peraltro, comparando il presente film col precedente, è difficile sottrarsi all’impressione che la Part One fosse in qualche modo più affascinante. Non è solo questione di una distribuzione imperfetta dei tempi: l’attacco finale, che dovrebbe avere la portata catastrofica di un Götterdämmerung, appare un po’ accelerato rispetto alla tragica ampiezza (minuziosamente preparata dal racconto) dell’attacco degli Harkonnen nel primo film; e il duello finale fra Paul Atreides e Feyd-Rautha è addirittura “tirato via” (nel romanzo di Frank Herbert è più solenne ed emozionante, col cupo silenzio di Paul mentre si batte che destabilizza l'avversario).
Come che sia, la differenza fra i due film non è una questione di realizzazione del plot. I film di Dune sono la cronaca di un conflitto, idea centrale alla quale sono subordinati tutti gli aspetti. Nel primo film, il conflitto è esterno: il gioco di guerra tra le famiglie Atreides e Harkonnen (con la complicità nascosta dell'Imperatore) e la preparazione, non priva d’angoscia, della famiglia Atreides allo scontro. Così il tema base si allarga con violenza, “fugge” da tutte le parti: sul piano paesaggistico si allarga a più pianeti, sul piano interpersonale si allarga a più personaggi, ivi compresi i diversi membri di Casa Atreides. Nel secondo film, il conflitto è interno a una singola persona, è tutto giocato dentro Paul Muad'Dib, che non vuole essere il Mahdi, il messia dei Fremen, e non vuole andare a sud, dove la sua apparizione fra i “fondamentalisti” sarà il segnale della guerra santa che sterminerà miliardi di persone in tutta la galassia. Verso tale destinazione lo spinge la madre, Lady Jessica, contro di essa lo avvertono le sue visioni; ma Paul non può sottrarsi alla logica delle cose. È quindi corretto dire che in Part One la narrazione era centrifuga, mentre in Part Two è centripeta. Tutto tende a precipitare precipita dentro la soggettività di Paul, come in un buco nero: anche l'elemento avventuroso (gli attacchi agli Harkonnen), l’elemento “esotico” (gli Harkonnen, l’Impero), e perfino la storia d’amore con Chani, tutto è attratto e finisce subordinato al suo dramma: la lotta e poi la resa alla profezia.
Il più consistente degli sforzi del film per sfuggire a questa forza centripeta si ha nella grande pagina del mondo sotto il sole nero dove Feyd-Rautha festeggia il suo compleanno (bellissima la trovata dei fuochi artificiali “a macchia d’inchiostro”). Leni Riefenstahl, che nella prima parte era tenuemente nascosta dietro l’ombra di George Lucas, ora emerge in pieno, culminando nella parata sotto il sole nero: ora – in relazione all'esercizio del potere puro per il quale vivono gli Harkonnen – è apertamente esplicitata. Da notare che l’invenzione di questo sole con la sua luce particolare permette un lavoro sull’immagine che ha anche il vantaggio di rendere la CGI meno evidente.
Lo scontro di volontà fra Paul e la madre pone, in prosecuzione e sviluppo della Part One, il grande tema del rapporto fra il piano e il destino. Quella del Mahdi è una profezia che si autoavvera. Paul parla di propaganda delle Bene Gesserit che si è radicata, ma non può fare niente contro di essa, come mostrano le parole di Stilgar quando nega di essere il messia promesso: “Il Mahdi è troppo umile per dire che è il Mahdi”. Nei nostri giorni, in cui purtroppo abbiamo modo di studiare quotidianamente il pensiero paranoico e le teorie del complotto, è un meccanismo psicologico di facile comprensione.
Il peso che grava su Paul non deriva però solo dalla madre, divenuta un'inquietante santona dal viso tatuato, che comunica telepaticamente con la figlia, la futura (almeno in Herbert) Santa Alia del Coltello, nel suo ventre. Breve digressione: il punto in cui il film non solo si diparte di più dal libro ma tende al massimo la plausibilità è il fatto che – mentre in Herbert Alia è bambina al momento della resa dei conti (grande la sua apparizione in David Lynch!) – qui è ancora nel ventre della madre. Ciò restringe assurdamente i tempi della riconquista di Arrakis, a meno di non pensare a una gravidanza innaturalmente protratta.
Tornando a Paul, la rivelazione della sua discendenza dagli Harkonnen per parte di madre non è solo un colpo alla sua personalità, è la scoperta di una identità che scorre nel sangue. “Noi siamo Harkonnen – e sopravvivremo facendo gli Harkonnen”. Una spietata logica delle cose (e la visione dell’unica possibilità di sopravvivenza) lo porta a diventare ciò che non voleva. Così in Dune: Part Two il dramma di Paul si inscrive in una visione pessimistica universale, valida per tutta la saga: l’impossibilità della libera scelta.

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