Denis Villeneuve
Costa
un po’ di fatica – e d’incertezza – commentare Dune: Part Two
come un film a sé stante, perché… come si esprimerebbero i Fremen…
è la parte mediana del verme: è il secondo atto in una trilogia che
è una monumentale opera compatta. Dune: Part Two è grande
spettacolo, indubbiamente entusiasmante; e come rozzamente si suol
dire, avercene di film così. Anche al di là del racconto e delle
sue psicologie, anche al di là della costruzione del mito e dei suoi
problemi, basterebbe a nobilitare questa epopea del deserto il valore
“grafico” dell’immagine, ossia l’azione in relazione al
paesaggio (i Sardaukar che ascendono in volo sulla roccia, oppure
Paul e Chani che si muovono all’unisono sulle dune di sabbia come
in un balletto). Inutile menzionare la potenza dei grandi vermi che
scorrono nella sabbia. Già lo sappiamo, Denis Villeneuve è un
grande paesaggista, e i suoi esterni immaginari sono autentici
dipinti.
Peraltro,
comparando il presente film col precedente, è difficile sottrarsi
all’impressione che la Part One fosse in qualche modo più affascinante. Non è solo questione di una distribuzione imperfetta dei
tempi: l’attacco finale, che dovrebbe avere la portata catastrofica
di un Götterdämmerung, appare un po’ accelerato rispetto alla
tragica ampiezza (minuziosamente preparata dal racconto) dell’attacco
degli Harkonnen nel primo film; e il duello finale fra Paul Atreides
e Feyd-Rautha è addirittura “tirato via” (nel romanzo di Frank
Herbert è più solenne ed emozionante, col cupo silenzio di Paul
mentre si batte che destabilizza l'avversario).
Come
che sia, la differenza fra i due film non è una questione di
realizzazione del plot. I film di Dune sono la cronaca di un
conflitto, idea centrale alla quale sono subordinati tutti gli
aspetti. Nel primo film, il conflitto è esterno: il gioco di guerra
tra le famiglie Atreides e Harkonnen (con la complicità nascosta
dell'Imperatore) e la preparazione, non priva d’angoscia, della
famiglia Atreides allo scontro. Così il tema base si
allarga con violenza, “fugge” da tutte le parti: sul piano
paesaggistico si allarga a più pianeti, sul piano interpersonale si
allarga a più personaggi, ivi compresi i diversi membri di Casa
Atreides. Nel secondo film, il conflitto è interno a una singola
persona, è tutto giocato dentro Paul Muad'Dib, che non vuole essere il
Mahdi, il messia dei Fremen, e non vuole andare a sud, dove la
sua apparizione fra i “fondamentalisti” sarà il segnale della
guerra santa che sterminerà miliardi di persone in tutta la
galassia. Verso tale destinazione lo spinge la madre, Lady Jessica,
contro di essa lo avvertono le sue visioni; ma Paul non può
sottrarsi alla logica delle cose. È quindi corretto dire che in Part
One la narrazione era centrifuga, mentre in Part Two è centripeta.
Tutto tende a precipitare precipita dentro la soggettività di Paul,
come in un buco nero: anche l'elemento avventuroso (gli attacchi agli
Harkonnen), l’elemento “esotico” (gli Harkonnen, l’Impero), e
perfino la storia d’amore con Chani, tutto è attratto e finisce
subordinato al suo dramma: la lotta e poi la resa alla profezia.
Il
più consistente degli sforzi del film per sfuggire a questa forza
centripeta si ha nella grande pagina del mondo sotto il sole nero
dove Feyd-Rautha festeggia il suo compleanno (bellissima la trovata
dei fuochi artificiali “a macchia d’inchiostro”). Leni
Riefenstahl, che nella prima parte era tenuemente nascosta dietro
l’ombra di George Lucas, ora emerge in pieno, culminando nella
parata sotto il sole nero: ora – in relazione all'esercizio del
potere puro per il quale vivono gli Harkonnen – è apertamente
esplicitata. Da notare che l’invenzione di questo sole con la sua
luce particolare permette un lavoro sull’immagine che ha anche il
vantaggio di rendere la CGI meno evidente.
Lo
scontro di volontà fra Paul e la madre pone, in prosecuzione e
sviluppo della Part One, il grande tema del rapporto fra il piano e
il destino. Quella del Mahdi è una profezia che si autoavvera.
Paul parla di propaganda delle Bene Gesserit che si è radicata, ma
non può fare niente contro di essa, come mostrano le parole di
Stilgar quando nega di essere il messia promesso: “Il Mahdi è
troppo umile per dire che è il Mahdi”. Nei nostri giorni, in cui
purtroppo abbiamo modo di studiare quotidianamente il pensiero paranoico
e le teorie del complotto, è un meccanismo psicologico di facile
comprensione.
Il
peso che grava su Paul non deriva però solo dalla madre, divenuta
un'inquietante santona dal viso tatuato, che comunica telepaticamente
con la figlia, la futura (almeno in Herbert) Santa Alia del Coltello,
nel suo ventre. Breve digressione: il punto in cui il film non solo
si diparte di più dal libro ma tende al massimo la plausibilità è
il fatto che – mentre in Herbert Alia è bambina al momento della
resa dei conti (grande la sua apparizione in David Lynch!) – qui è
ancora nel ventre della madre. Ciò restringe assurdamente i tempi
della riconquista di Arrakis, a meno di non pensare a una gravidanza
innaturalmente protratta.
Tornando
a Paul, la rivelazione della sua discendenza dagli Harkonnen per
parte di madre non è solo un colpo alla sua personalità, è la
scoperta di una identità che scorre nel sangue. “Noi siamo
Harkonnen – e sopravvivremo facendo gli Harkonnen”. Una spietata
logica delle cose (e la visione dell’unica possibilità di
sopravvivenza) lo porta a diventare ciò che non voleva. Così in
Dune: Part Two il dramma di Paul si inscrive in una visione
pessimistica universale, valida per tutta la saga: l’impossibilità
della libera scelta.
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