Hamaguchi Ryusuke
Con
Il male non esiste Hamaguchi Ryusuke si trasferisce dalla città al
mondo della natura. Siamo così abituati a pensarlo come un autore
urbano che restiamo un po’ colpiti di fronte a questo spostamento,
dimenticando non solo che l’ultima parte di Drive My Car è un
viaggio nelle campagne innevate dell’Hokkaido ma che un richiamo
alla natura ricorre implicito in Happy Hour e perfino ne Il gioco del destino e
della fantasia.
Già
con la carrellata iniziale sotto gli alberi inquadrati dal basso il film impone imperiosamente allo spettatore il proprio
tempo: il tempo reale, ossia, al cinema, il tempo lento. È
il tempo dilatato della scena all’inizio in cui vediamo il
protagonista Takumi tagliare e poi spaccare la legna; ed è, inutile
osservarlo, il ritmo lento della natura. E la concretezza viva e
tangibile della natura (l’acqua pura di sorgente, il sapore forte
delle foglie di wasabi selvatico) si oppone nel film
all’inautenticità cittadina (discutere attraverso i monitor,
frequentare app di incontri matrimoniali). Ma non si pensi a una
natura retorica, disneyana. È
potente e terribile.
Nel
film, una compagnia che si occupa di musica e spettacolo, ma che ora
mira ai fondi governativi post-pandemia, progetta di costruire un
glamping (glamour + camping: un camping di lusso con tutte le
comodità) nelle vicinanze di un villaggio immerso tra gli alberi. Le
tensioni con gli abitanti emergono verbalmente in un’appassionata
ma composta assemblea (ispirata, dice Hamaguchi in un’intervista,
alla registrazione audio di una riunione realmente accaduta) dove gli
abitanti incontrano due rappresentanti della compagnia. In primo
luogo, la fossa settica inquinerà la falda da cui sgorga l'acqua di
sorgente di cui fa uso il villaggio; e l’acqua è un elemento
centrale del film. Andarla a prendere con un mestolo di legno nel
ruscello tra la neve, per portarla in taniche al ristorante che la
userà per gli udon, ha la calma composta di un rito.
La
consueta sorprendente precisione psicologica di Hamaguchi delinea la
figura dei due impiegati di secondo piano mandati allo sbaraglio
all’assemblea solo per poter dire al governo che si è parlato con
i locali. Una lunga conversazione in auto (come non ricordare Drive My Car) approfondisce la loro realtà intima. Se dapprima la donna,
Mayuzumi, sembrava la più conscia e compassionevole dei due, poi
vediamo che è l’uomo, Takahashi, a tenersi tutto dentro; e questo
esplode in una decisione improvvisa di cambiar vita (su cui Hamaguchi
è delicatamente ironico) mentre lei mostra una sorta di accettazione
rassegnata, che emerge anche dal suo discorso sul fatto che si
aspettava, e quindi non è stupita, di lavorare in un ambiente pieno
di scumbags (questo nei sottotitoli inglesi; quelli italiani, con
leggera enfatizzazione, usano il termine “stronzi”). Ma al centro
del film sta Takumi, il tuttofare del paese, un uomo silenzioso e
introverso, che sembra essere vedovo; dell'assenza della moglie,
presente in fotografie recenti, non viene data alcuna spiegazione: Il
male non esiste è un film di ellissi e di mistero (cioè al cento
per cento Hamaguchi), di brusche deviazioni, imprevisti, accenni
lasciati aperti, come la misteriosa ferita sulla mano di Mayuzumi.
Takumi
vive con la figlia di otto anni Hana, che ogni tanto si dimentica di
andare a prendere a scuola, e che istruisce sul mondo della natura.
In una carrellata laterale stupenda vediamo Takumi che cammina nel
bosco, poi la mdp lo abbandona andando avanti fra gli alberi, poi lo
“ritrova” che porta la figlia sulla schiena, insegnandole a
riconoscere gli alberi, spiegandole le tracce dei cervi, mostrandole
la pozza nel laghetto ghiacciato dove vanno a bere. Rispetto alla
natura il film ha un atteggiamento quasi di sospensione estatica,
dove la centralità della musica di Ishibashi Eiko è totale. Il male
non esiste in effetti è lo sviluppo di un progetto in cui Hamaguchi
ha illustrato visivamente la musica della cantante e compositrice.
Anche
i primi coloni, i nonni dei presenti all’assemblea, ci viene
ricordato, hanno danneggiato l’ambiente naturale: è nell'ordine
delle cose. Ora il nuovo equilibrio fra uomo e natura che si è
formato mostra incrinature anche prima che arrivi la speculazione del
glamping: già all’inizio risuonano infaustamente in distanza gli
spari della caccia al cervo. Hamaguchi è un autore che intesse i
suoi film di ripetizioni, richiami, rime: due volte risuonano gli
spari lontani, due volte compare la carcassa del cerbiatto ferito dai
cacciatori che è andato a morire nel folto. Il film è un lento
costruirsi drammatico, di violenza sottesa, nel quale criptici
“avvertimenti” risuonano come tocchi di campana; alcuni li
comprendiamo retrospettivamente, come il dialogo casuale in auto sul
comportamento dei cervi feriti, altri rimangono chiusi nella loro
autonomia poetica, come il dettaglio di una spina con una goccia di
sangue. Tutto converge verso un potente ed enigmatico finale, dove
con una virata di folle audacia Hamaguchi rovescia (a 15 minuti dalla
fine) l'impianto del racconto. Certo, una piccola sfida
interpretativa allo spettatore la lanciavano anche il finale di Drive
My Car e quello del primo episodio de Il gioco del destino e della
fantasia. Ma non in modo rivoluzionario come nel presente film; e però
di questo finale ovviamente sarebbe un dispetto parlare.
Se
non limitandosi a dire che il punto nodale del film, nucleo per
l’interpretazione del finale, viene enunciato durante l’assemblea
del villaggio: “Il problema è l’equilibrio”. Ricordiamo che
l’equilibrio e l’armonia sono un caposaldo della cultura
orientale (come è molto sentito nella cultura giapponese, ma anche
individualmente dal regista-sceneggiatore, il tema dell'assunzione di
responsabilità, adombrato dal discorso del sindaco nella stessa
assemblea). La rottura dell’equilibrio fra uomo e natura si
raddoppia entro il mondo degli uomini come rottura dell’equilibrio
fra gli esseri umani. Facciamo tutti parte della natura – anche se
lo dimentichiamo.
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