domenica 5 marzo 2023

Benedetta

Paul Verhoeven

Dopo L’amore e il sangue del 1985, Paul Verhoeven torna agli inizi dell’era moderna con lo splendido Benedetta, che esce finalmente in Italia dopo due anni. Il film, liberamente ispirato a una storia vera, è tratto da Atti impuri. Vita di una monaca lesbica nell’Italia del Rinascimento di Judith C. Brown.
La protagonista è un’altra delle grandi personalità femminili che popolano il cinema di Verhoeven. Nella Toscana del Seicento, Benedetta Carlini (Virginie Efira), entrata fin da piccola nel convento di Pescia, ha visioni di un Cristo molto carnale, che la reclama come sua sposa: visioni allucinatorie assai lontane dall’iconografia cattolica (in una è un cavaliere armato che uccide un gruppo di stupratori). Benedetta ha le stimmate – “Gesù mi ha fatto questo!” – ma forse sono simulazione con ferite autoinflitte. Talvolta parla con la voce maschile di Gesù stesso, in una possessione mistica. Il film mette in risalto il principio teatrale della rappresentazione, adombrato nelle sacre rappresentazioni in convento, dove per forza di cosa anche Gesù è interpretato da una femmina, e il modo in cui la centralità del corpo, propria di tutto il cinema di Verhoeven, si scontra con l’auto-repressione (la suora che vorrebbe esser fatta tutta di legno).
L’ambizioso prevosto della cittadina punta sul miracolo, e in accordo col sacerdote del convento la fa nominare nuova badessa. Benedetta, narcisista con una vena di crudeltà, gioisce della nuova posizione. Intrattiene un rapporto d’amore lesbico con la giovane conversa Bartolomea (Daphne Patakia); scoprendolo, la ex badessa (Charlotte Rampling) la denuncia alle autorità religiose nella persona del Nunzio (Lambert Wilson), che incontra in una Firenze invasa dalla peste.
A uno sguardo superficiale il film può far pensare per il suo realismo visionario a I diavoli di Ken Russell. Ma Russell è razionalista e volterriano, mentre Verhoerven è un regista dell’ambiguità – sia del personaggio sia del racconto (basta pensare a Basic Instinct); e in Benedetta l’ambiguità è profonda. Chi è Benedetta? E’ solo una simulatrice a proprio vantaggio? Una psicopatica? O “aiuta” coi trucchi una propria convinzione (molto eterodossa) di santità? Oppure forse…? Come ci informa l’ultima didascalia, una profezia fatta per evidente autodifesa (Pescia non sarà colpita dalla peste finché lei sarà viva) si avvera. Non per nulla, quello di Benedetta da bambina che vediamo all’inizio può essere un miracolo: un piccolo miracolo semplice, rosselliniano. Il film ci lascia nel dubbio sui fatti e sulla psicologia.
Del resto, il Seicento è il secolo principe di un misto di religiosità estatica, possessione demoniaca, simulazione, isteria e santità – di cui è perfetta rappresentante la suor Jeanne des Anges, badessa di Loudun, de I diavoli, e prima, del bellissimo film polacco Madre Giovanna degli Angeli di Jerzy Kawalerowicz (ma, a proposito di misticismo isterico, viene menzionata di passaggio anche Giovanna d’Arco). Mentre l’oggetto-simbolo dello scandalo del rapporto erotico fra Benedetta e Bartolomea – o della commistione di sacro e profano in un’estasi sessuale pagana – è il dildo di legno fabbricato con la parte inferiore di una statuetta lignea della Madonna, che ci riporta a Walerian Borowczyk (e a tutto un filone di erotismo conventuale).
Cineasta dell’eros e della violenza, oltre che dell'illusione e dell'inganno, Verhoeven è un regista di carne e sangue (Flesh+Blood è il titolo originale de L’amore e il sangue) che va sempre in fondo a ciò che narra. Di qui mille problemi con le varie censure (c’entra anche l’uscita in ritardo di Benedetta). In questo film, la lussuria e l’amore, la religione e l’eresia, l’estasi e l’isterismo, l’inganno, le tensioni psicologiche e i giochi politici dentro e fuori il convento, la gerarchia maschile e l’affermazione femminile, la rivendicazione dell’amore e della sessualità, la presenza orrifica della peste, annunciata da una meteora nel cielo rosso, tutto questo si fonde in una narrazione estremista e potente.


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