Paul Verhoeven
Dopo
L’amore e il sangue del 1985, Paul Verhoeven torna agli inizi
dell’era moderna con lo splendido Benedetta, che esce finalmente in
Italia dopo due anni. Il film, liberamente ispirato a una storia
vera, è tratto da Atti impuri. Vita di una monaca lesbica
nell’Italia del Rinascimento di Judith C. Brown.
La
protagonista è un’altra delle grandi personalità femminili che
popolano il cinema di Verhoeven. Nella Toscana del Seicento,
Benedetta Carlini (Virginie Efira), entrata fin da piccola nel
convento di Pescia, ha visioni di un Cristo molto carnale, che la
reclama come sua sposa: visioni allucinatorie assai lontane
dall’iconografia cattolica (in una è un cavaliere armato che
uccide un gruppo di stupratori). Benedetta ha le stimmate – “Gesù
mi ha fatto questo!” – ma forse sono simulazione con ferite
autoinflitte. Talvolta parla con la voce maschile di Gesù stesso, in
una possessione mistica. Il film mette in risalto il principio
teatrale della rappresentazione, adombrato nelle sacre
rappresentazioni in convento, dove per forza di cosa anche Gesù è
interpretato da una femmina, e il modo in cui la centralità del
corpo, propria di tutto il cinema di Verhoeven, si scontra con
l’auto-repressione (la suora che vorrebbe esser fatta tutta di
legno).
L’ambizioso
prevosto della cittadina punta sul miracolo, e in accordo col
sacerdote del convento la fa nominare nuova badessa. Benedetta,
narcisista con una vena di crudeltà, gioisce della nuova posizione.
Intrattiene un rapporto d’amore lesbico con la giovane conversa
Bartolomea (Daphne Patakia); scoprendolo, la ex badessa (Charlotte
Rampling) la denuncia alle autorità religiose nella persona del
Nunzio (Lambert Wilson), che incontra in una Firenze invasa dalla
peste.
A
uno sguardo superficiale il film può far pensare per il suo realismo
visionario a I diavoli di Ken Russell. Ma Russell è razionalista e
volterriano, mentre Verhoerven è un regista dell’ambiguità –
sia del personaggio sia del racconto (basta pensare a Basic
Instinct); e in Benedetta l’ambiguità è profonda. Chi è
Benedetta? E’ solo una simulatrice a proprio vantaggio? Una
psicopatica? O “aiuta” coi trucchi una propria convinzione (molto
eterodossa) di santità? Oppure forse…? Come ci informa l’ultima
didascalia, una profezia fatta per evidente autodifesa (Pescia non
sarà colpita dalla peste finché lei sarà viva) si avvera. Non per
nulla, quello di Benedetta da bambina che vediamo all’inizio può
essere un miracolo: un piccolo miracolo semplice, rosselliniano. Il
film ci lascia nel dubbio sui fatti e sulla psicologia.
Del
resto, il Seicento è il secolo principe di un misto di religiosità
estatica, possessione demoniaca, simulazione, isteria e santità –
di cui è perfetta rappresentante la suor Jeanne des Anges, badessa
di Loudun, de I diavoli, e prima, del bellissimo film polacco Madre
Giovanna degli Angeli di Jerzy Kawalerowicz (ma, a proposito di
misticismo isterico, viene menzionata di passaggio anche Giovanna
d’Arco). Mentre l’oggetto-simbolo dello scandalo del rapporto
erotico fra Benedetta e Bartolomea – o della commistione di sacro e
profano in un’estasi sessuale pagana – è il dildo di legno
fabbricato con la parte inferiore di una statuetta lignea della
Madonna, che ci riporta a Walerian Borowczyk (e a tutto un filone di
erotismo conventuale).
Cineasta
dell’eros e della violenza, oltre che dell'illusione e
dell'inganno, Verhoeven è un regista di carne e sangue (Flesh+Blood
è il titolo originale de L’amore e il sangue) che va sempre in
fondo a ciò che narra. Di qui mille problemi con le varie censure
(c’entra anche l’uscita in ritardo di Benedetta). In questo film,
la lussuria e l’amore, la religione e l’eresia, l’estasi e
l’isterismo, l’inganno, le tensioni psicologiche e i giochi
politici dentro e fuori il convento, la gerarchia maschile e
l’affermazione femminile, la rivendicazione dell’amore e della
sessualità, la presenza orrifica della peste, annunciata da una
meteora nel cielo rosso, tutto questo si fonde in una narrazione
estremista e potente.
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