sabato 7 gennaio 2023

Godland - Nella terra di Dio

Hlynur Pálmason

Due film in uno (persino con un minimo sospetto di discrasia) in Godland di Hlynur Pálmason, bel film danese-islandese che ancora più del solito è consigliabile vedere nella versione originale sottotitolata (non per nulla insiste sul suo doppio titolo, Vansìskabte Land/Volaða land). Il formato è 4:3. Alla fine dell’Ottocento, un giovane prete luterano di nome Lucas, che è anche un fotografo dilettante, viene inviato dal suo vescovo dalla Danimarca all’Islanda (ancora danese) per costruire una chiesa nell’interno semiselvaggio. L’ispirazione del film, ci dice una didascalia, viene da alcune fotografie al collodio, scattate da un prete danese, ritrovate dentro una scatola di legno. Va da sé che la passione di Lucas di riprendere rispecchia la sua voglia di comprendere; ma con questi uomini non comunica (c’è un’ostilità sorda degli islandesi verso i danesi, che si estende sul piano linguistico) e questa terra lo respinge.
Godland, che comprende un paio di evidenti citazioni di John Ford, è un antiwestern, su una “terra promessa” che non si lascia conquistare. La prima metà del film narra il tremendo viaggio; la seconda, la permanenza del prete nel villaggio dove sorgerà la chiesa (la panoramica a sinistra che le congiunge, scorrendo lenta sul suolo fino a scoprire Lucas malato in terra lasciato fuori dalla casa, ha qualcosa di inesorabile; segue uno stacco sorprendente al vulcano in eruzione). Entrambe le esperienze portano Lucas a una disperata inquietudine dell’anima che ben conosciamo dal cinema nordico. Oscure pulsioni di morte e di sesso percorrono questa società di uomini duri, adombrate nel
sogno delle anguille e del sesso di gruppo con la moglie raccontato dal più enigmatico dei personaggi.
Un'ombra di tragedia si stende fin dall’inizio sullo svolgimento; aperta dalla più evidente citazione fordiana, la terribile scena del fallimento della prima predica nella chiesa nuova è una caduta dietro la quale ci possono essere solo la fuga e la morte. Il film parte dal realismo per assumere un tono mitico. I brevi flashback che appaiono nel film hanno la risonanza delle apparizioni spettrali (pensiamo a quello dell’amico e interprete morto attraversando un fiume); le inquadrature del cavallo morto che si decompone nell’erba sono un’anticipazione. Canzoni popolari attraversano il racconto e hanno qualcosa di magico (quella che apre la seconda parte, parlando di onore e di omicidio, l’annuncia e la contiene). La centralità degli animali – cavalli e cani come un proseguimento della persona del proprietario – si iscrive in un apocalittico quadro della natura. Sono stati proposti dalla critica parallelismi con diversi registi, tra i quali è stimolante quello con Terence Malick; ma conviene rifarsi in primo luogo agli autori nordici: Dreyer e Bergman, certamente, ma soprattutto Viktor Sjöström.
La varietà ricca e rassicurante della natura sembra qui restringersi (su quest’isola non vi sono alberi) per ridursi nei quattro elementi originari. L’aria che fischia sull’isola come vento (o che, in prossimità del vulcano, puzza “come se la terra si fosse cacata addosso”, dice il vescovo a Lucas prima della partenza). L’acqua che scorre mille fiumi e ruscelli e che impregna la vegetazione, tanto che ci sui può lavare i piedi semplicemente camminando sul muschio rorido. Il fuoco che ribolle del vulcano arrossando il cielo e ne esce in forma di fiume di lava. La terra che si estende in pianure desolate o si eleva in picchi aspri. Nella fotografia di Maria von Hausswoff, grandi inquadrature in campi lunghi e lunghissimi esaltano la potenza del paesaggio: uomini e cavalli sembrano formiche. E’ una terra, dove la morte dissolve i corpi, peggio che ostile: è indifferente. Le sue forme ciclopiche e i suoi colori primevi fanno pensare a Wagner, L’oro del Reno, quell'alba del mondo prima che il Valhalla emerga dalla foschia.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Lo vedrò caro Giorgio.

Anonimo ha detto...

Fredo Valla, non anonimo