Hlynur Pálmason
Due
film in uno (persino con un minimo sospetto di discrasia) in Godland
di Hlynur Pálmason, bel film danese-islandese che ancora più del
solito è consigliabile vedere nella versione originale sottotitolata
(non per nulla insiste sul suo doppio titolo, Vansìskabte
Land/Volaða
land). Il formato è 4:3. Alla fine dell’Ottocento, un
giovane prete luterano di nome Lucas, che è anche un fotografo
dilettante, viene inviato dal suo vescovo dalla Danimarca all’Islanda
(ancora danese) per costruire una chiesa nell’interno
semiselvaggio. L’ispirazione del film, ci dice una didascalia,
viene da alcune fotografie al collodio, scattate da un prete danese,
ritrovate dentro una scatola di legno. Va da sé che la passione di
Lucas di riprendere rispecchia la sua voglia di comprendere; ma con
questi uomini non comunica (c’è un’ostilità sorda degli
islandesi verso i danesi, che si estende sul piano linguistico) e
questa terra lo respinge.
Godland,
che comprende un paio di evidenti citazioni di John Ford, è un
antiwestern, su una “terra promessa” che non si lascia
conquistare. La prima metà del film narra il tremendo viaggio; la
seconda, la permanenza del prete nel villaggio dove sorgerà la
chiesa (la
panoramica
a
sinistra che le congiunge, scorrendo lenta sul suolo fino a scoprire
Lucas
malato in terra lasciato
fuori
dalla casa, ha qualcosa di inesorabile; segue
uno stacco sorprendente al vulcano in eruzione).
Entrambe le esperienze portano Lucas a una disperata inquietudine
dell’anima che ben conosciamo dal cinema nordico. Oscure pulsioni
di morte e di sesso percorrono questa società di uomini duri,
adombrate nel sogno
delle anguille e del sesso di gruppo con la moglie raccontato dal più
enigmatico dei personaggi.
Un'ombra
di tragedia si stende fin dall’inizio sullo svolgimento; aperta
dalla più evidente citazione fordiana, la terribile scena del
fallimento della prima predica nella chiesa nuova è una caduta
dietro la quale ci possono essere solo la fuga e la morte. Il film
parte dal realismo per assumere un tono mitico. I brevi flashback che
appaiono nel film hanno la risonanza delle apparizioni spettrali
(pensiamo
a quello dell’amico e interprete morto attraversando
un
fiume);
le
inquadrature del cavallo morto che si decompone nell’erba
sono un’anticipazione.
Canzoni popolari attraversano il racconto
e hanno qualcosa di magico (quella che apre la seconda parte,
parlando di onore e di omicidio, l’annuncia e la contiene). La
centralità degli animali – cavalli e cani come un proseguimento
della persona del proprietario – si iscrive in un apocalittico
quadro della natura. Sono stati proposti dalla critica parallelismi
con diversi registi, tra i quali è stimolante quello con Terence
Malick; ma conviene rifarsi in primo luogo agli autori nordici:
Dreyer e Bergman, certamente, ma soprattutto Viktor Sjöström.
La
varietà ricca e rassicurante della natura sembra qui restringersi
(su quest’isola non vi sono alberi) per ridursi nei quattro
elementi originari. L’aria che fischia sull’isola come vento (o
che, in prossimità del vulcano, puzza “come se la terra si fosse
cacata addosso”, dice il vescovo a Lucas prima della partenza).
L’acqua che scorre mille fiumi e ruscelli e che impregna la
vegetazione, tanto che ci sui può lavare i piedi semplicemente
camminando sul muschio rorido. Il fuoco che ribolle del vulcano
arrossando il cielo e ne esce in forma di fiume di lava. La terra che
si estende in pianure desolate o si eleva in picchi aspri. Nella
fotografia di Maria von Hausswoff, grandi inquadrature in campi
lunghi e lunghissimi esaltano la potenza del paesaggio: uomini e
cavalli sembrano formiche. E’ una terra, dove la morte dissolve i
corpi, peggio che ostile: è indifferente. Le sue forme ciclopiche e
i suoi colori primevi fanno pensare a Wagner, L’oro del Reno,
quell'alba del mondo prima che il Valhalla emerga dalla foschia.
2 commenti:
Lo vedrò caro Giorgio.
Fredo Valla, non anonimo
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