Jordan Peele
Grandezza di Jordan Peele! Nope ha una tessitura compatta e imprevedibile, con rimandi nascosti, che potrebbe far pensare in ambito diverso al cinema di Paul Thomas Anderson. Sotto il racconto fantahorror (caveat lector: seguono spoiler radicali) con un UFO che non è un UFO ma una belva di origine extraterrestre, una specie di grande stomaco volante, a caccia sul nostro pianeta, ritornano in modo organico e fantasioso i grandi temi soggiacenti. In un quadro molto ricco (anche politico), credo che il film si articoli intorno a due temi principali: il rapporto uomo-natura e la critica della riproduzione tecnica; mentre l’orizzonte morale che sovrintende al racconto è quello del western.
Ad
apparire per primo è il rapporto uomo-natura. La natura come
“materia dura”, con cui noi siamo in contatto ma con cui non
riusciamo a rapportarci, se non nel tentativo di trasformarla; grande
metafora di questo è l’addestramento animale, che è il modo in
cui l’uomo cerca di rendere la natura parte di sé. Lo troviamo già
nella bellissima apertura in flashback, la tragedia sul set di una
sitcom nel 1998, con lo scimpanzé Gordy, il protagonista/attrazione,
che uccide un’attrice del cast e il proprio addestratore (per
inciso, queste immagini con lo scimpanzé insanguinato fanno più
paura di Monkey Shines di Romero). La sua esplosione “inesplicabile”
ai nostri occhi è il fallimento del tentativo ridicolo di umanizzare
lo scimpanzé (il suo compleanno, il cappellino buffo).
Forse
sarebbe stato possibile ripristinare un rapporto: l’attore bambino
Jupe (che ritroveremo adulto nel film) si è rifugiato terrorizzato
sotto un tavolo e lo scimpanzé furioso avanza in soggettiva verso di
lui: ma comincia un esitante tocco pugno contro pugno fra la scimmia
e il bambino, ripetendo il gesto chiave della sitcom (e riproducendo
l’ottimistico incontro intergalattico di E.T. di Spielberg) – però prima che i due pugni si tocchino parte il colpo di fucile che uccide
lo scimpanzé. Del resto, se quell’incontro di pugni avrebbe
calmato la rabbia o se piuttosto Jupe non sarebbe stato la prossima
vittima, non lo sapremo mai. Jordan Peele non brilla mai per
soverchio ottimismo; in questo film ammirevole e nascostamente
complesso non c’è spazio per le retoriche animaliste, dove gli
animali sono l’ultima incarnazione del “buon selvaggio” di
Rousseau. L’addestramento dello scimpanzé che gli fa porgere il
pugno, come mostra chiaramente la scena, ha qualcosa di meccanico: un
esempio di stimolo-risposta.
C’è
dunque una durezza forse invalicabile della natura. Quello che i
fratelli neri Otis jr. detto OJ, chiuso addestratore di cavalli per
cinema e tv, ed Emerald detta Em, disinvolta aspirante
sceneggiatrice-regista-cantante, si trovano di fronte è un predatore
alieno che si nasconde dietro una nuvola immobile (“E’ un
animale, è territoriale, e pensa che questa è casa sua”).
Inevitabile che questo porti con sé all’inizio un’ombra di
reminiscenza religiosa, espressa nella domanda di Emerald “Cos’è
un miracolo cattivo?” – ovvero: come si può definire
concettualmente una possibile malignità del Creatore? Ma se in
passato il cielo, le nuvole, erano il territorio di Dio, adesso sono
una giungla: l’habitat del predatore. La legge della giungla è:
mangia o muori. Allusivamente, la vediamo nei vecchi filmati in b/n
su cui lavora il documentarista Antlers (un polpo, un pitone: nota che
sono animali che stringono e “inglobano” le prede, simili in ciò
al mostro extraterrestre). L’opposizione oggettiva tra uomo e
natura si spinge fino alla casualità della mantide (by the way, un
altro predatore) che si piazza sulla telecamera impedendo la visione.
Ecco
che torna di nuovo la metafora dell’addestramento, applicato al
predatore alieno. “Certi animali non sono fatti per essere
addestrati”, sentiamo; e ancora, in una sorte di epitaffio per
Jupe: “Voleva domare un predatore… con un predatore non c’è
accordo”. Ma sentiamo anche, in contrasto: “Ogni animale ha delle
regole”; e i protagonisti giocano su questo. Non è questione di
anima: non la natura benigna, non la cultura come ponte, non la
retorica spielberghiana del contatto, ma la psicologia animale…
siamo ancora al concetto di stimolo-risposta. Il cupo Pavlov, con i
suoi crudeli esperimenti, non è tanto distante.
Nel
difficile rapporto uomo-natura l’elemento medio sono i cavalli
(come altri autori avrebbero scelto i cani), e ciò è consistente
con la profonda base western del film. Non per nulla Nope è
inserito, come tra due fermalibri, tra due immagini che assumono il
valore di una dichiarazione. La prima: l'inquadratura dal basso del
padre, Otis senior, a cavallo, prima di essere colpito da una moneta
che piomba dal cielo come uno sparo silenzioso. La seconda: OJ a
cavallo in un’inquadratura classicamente nobilitante, incorniciato
dall’arco di legno con la scritta “Out Yonder” (l’equivalente
di andare verso il tramonto) nella falsa cittadina western diventata
– è il caso di dirlo – una ghost town. E nella moralità
western c’è sempre un dovere da compiere: qui bisogna
preoccuparsi dei cavalli. “Ho delle bocche da sfamare”, delle
bestie da salvare, dice OJ.
Chi
si stupisse di questo dovrebbe riflettere sul fatto che i neri, al
pari degli asiatici, hanno avuto un ruolo importante nella storia del
West, solo che il cinema storicamente l’ha messo in secondo piano;
ma basta pensare alla recente tendenza del “western nero” per
aggiustare il quadro.
Senza
uscire dall’ottica del western, è indicativo che il mostro venga
sconfitto da un gigantesco pallone in forma di cowboy, il quale
esplodendo al suo interno lo distrugge. I palloni hanno un ruolo
importante nel film, con quelli festivi gonfiabili a forma vagamente
umana che si rizzano in aria e tremolano come fantasmi disegnando la
pista e attirano l’attenzione del mostro; ma non dimentichiamo la
scatola piena di palloncini nella sitcom, che volano verso l'alto e
potrebbero essere stati l’elemento scatenante della misteriosa
furia dello scimpanzé.
Visto
tutto questo, non stupisce che il nume tutelare del film sia Eadweard
Muybridge, ampiamente citato, con la sua serie di immagini sul
cavallo in movimento. Il riferimento a Muybridge non solo replica il
tema dei cavalli – e con un’inattesa torsione politica, contiene
un accenno all’invisibilità dei neri nella storia (il nome
dimenticato del fantino) – ma ci porta inoltre alle origini della
riproduzione filmica.
Perché
Nope è centrato sul concetto di riproduzione. La scena all’inizio
su un set, dove OJ porta il cavallo già preparato per la CGI,
introduce l'aspetto metacinematografico, altresì presente nel plot
laterale sulla sitcom. Ma soprattutto stanno in primo piano i vari
tentativi di filmare (riprodurre) il mostro. E’ affascinante che
questi realizzino un viaggio all’indietro delle tecniche
riproduttive: dal digitale (le telecamere e la videocamera)
all’analogico (la macchina da presa non-elettrica di Antlers, che
necessita di essere ricaricata con pellicola nel momento culminante)
fino – dopo il fallimento di tutti i mezzi di riproduzione – alle
foto scattate nella ghost town western, che per coerenza di messa in
scena del luogo hanno una forma simile a lastre di dagherrotipo.
Nope
è un film pieno di simulacri: dalla falsa vita quotidiana nella
sitcom (deliziosa l’ironia nella pagina d'apertura con lo scimpanzé
impazzito, dove vediamo lampeggiare sul disastro la scritta
“Applause”) al cavallo rampante in legno che il mostro risucchia
e risputa, alla città western ricostruita come parco divertimenti (e
siccome è il West del cinema che viene ricostruito, è davvero una
“mimesi di secondo grado”). Possiamo vederne un simbolo nei
palloni già menzionati. Parallelamente c’è il discorso della
mimica e del trucco teatrale (o da cinema di serie B) incarnato dai
figli di Jupe.
Connesso
a tutto questo è il tema dei media, che della riproduzione sono il
terminale obbligato. Nei film di fantascienza tradizionali il
problema è: come uccidere il mostro. Qui il problema è: come
filmarlo, allo scopo di entrare nel circuito dei media: “E’ per
Oprah”. Non è casuale la menzione di Oprah Winfrey, la più
importante rappresentante della comunità afroamericana nei media.
Abbiamo
accennato sopra al tema religioso, sfiorato e subito abbandonato (non
c’è terrore sacro, terrore panico, nel film). “Non sappiamo un
cazzo”, dice OJ – ma bisogna sapere, pensare, capire: passare
dallo stupore del “miracolo cattivo” al problema pragmatico di
gestire questa situazione irreale, e qui ritorna – già lo sappiamo
– il concetto di addestramento: “Anche un carattere forte si può
domare” (risposta di Antlers: “Tu domalo… e io lo riprendo”).
Come con i doppelgänger di Us (inutile osservare come in questo film
si ritrovino degli spunti che ritroviamo amplificati in Nope), quando
la logica del mondo impazzisce, bisogna fabbricarsi una ragione. C’è
da pensare, e certamente Jordan Peele lo pensa, che i neri – i
tradizionali figli di un dio minore nella società americana –
siano particolarmente adatti (addestrati dalla vita e da una sorta di
coscienza razziale) a fare i conti con un mondo improvvisamente
impazzito. Questo sottotesto politico è presente in tutta l’opera
di Jordan Peele (che i neri facciano bene a non aspettarsi nulla, già
lo mostrava l’apologo swiftiano di Get Out).
L'ottimismo provvidenzialista dell’uomo bianco (già logoro, del
resto) non è per loro.
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