giovedì 18 agosto 2022

Nope

Jordan Peele

Grandezza di Jordan Peele! Nope ha una tessitura compatta e imprevedibile, con rimandi nascosti, che potrebbe far pensare in ambito diverso al cinema di Paul Thomas Anderson. Sotto il racconto fantahorror (caveat lector: seguono spoiler radicali) con un UFO che non è un UFO ma una belva di origine extraterrestre, una specie di grande stomaco volante, a caccia sul nostro pianeta, ritornano in modo organico e fantasioso i grandi temi soggiacenti. In un quadro molto ricco (anche politico), credo che il film si articoli intorno a due temi principali: il rapporto uomo-natura e la critica della riproduzione tecnica; mentre l’orizzonte morale che sovrintende al racconto è quello del western.

Ad apparire per primo è il rapporto uomo-natura. La natura come “materia dura”, con cui noi siamo in contatto ma con cui non riusciamo a rapportarci, se non nel tentativo di trasformarla; grande metafora di questo è l’addestramento animale, che è il modo in cui l’uomo cerca di rendere la natura parte di sé. Lo troviamo già nella bellissima apertura in flashback, la tragedia sul set di una sitcom nel 1998, con lo scimpanzé Gordy, il protagonista/attrazione, che uccide un’attrice del cast e il proprio addestratore (per inciso, queste immagini con lo scimpanzé insanguinato fanno più paura di Monkey Shines di Romero). La sua esplosione “inesplicabile” ai nostri occhi è il fallimento del tentativo ridicolo di umanizzare lo scimpanzé (il suo compleanno, il cappellino buffo).
Forse sarebbe stato possibile ripristinare un rapporto: l’attore bambino Jupe (che ritroveremo adulto nel film) si è rifugiato terrorizzato sotto un tavolo e lo scimpanzé furioso avanza in soggettiva verso di lui: ma comincia un esitante tocco pugno contro pugno fra la scimmia e il bambino, ripetendo il gesto chiave della sitcom (e riproducendo l’ottimistico incontro intergalattico di E.T. di Spielberg) – però prima che i due pugni si tocchino parte il colpo di fucile che uccide lo scimpanzé. Del resto, se quell’incontro di pugni avrebbe calmato la rabbia o se piuttosto Jupe non sarebbe stato la prossima vittima, non lo sapremo mai. Jordan Peele non brilla mai per soverchio ottimismo; in questo film ammirevole e nascostamente complesso non c’è spazio per le retoriche animaliste, dove gli animali sono l’ultima incarnazione del “buon selvaggio” di Rousseau. L’addestramento dello scimpanzé che gli fa porgere il pugno, come mostra chiaramente la scena, ha qualcosa di meccanico: un esempio di stimolo-risposta.
C’è dunque una durezza forse invalicabile della natura. Quello che i fratelli neri Otis jr. detto OJ, chiuso addestratore di cavalli per cinema e tv, ed Emerald detta Em, disinvolta aspirante sceneggiatrice-regista-cantante, si trovano di fronte è un predatore alieno che si nasconde dietro una nuvola immobile (“E’ un animale, è territoriale, e pensa che questa è casa sua”). Inevitabile che questo porti con sé all’inizio un’ombra di reminiscenza religiosa, espressa nella domanda di Emerald “Cos’è un miracolo cattivo?” – ovvero: come si può definire concettualmente una possibile malignità del Creatore? Ma se in passato il cielo, le nuvole, erano il territorio di Dio, adesso sono una giungla: l’habitat del predatore. La legge della giungla è: mangia o muori. Allusivamente, la vediamo nei vecchi filmati in b/n su cui lavora il documentarista Antlers (un polpo, un pitone: nota che sono animali che stringono e “inglobano” le prede, simili in ciò al mostro extraterrestre). L’opposizione oggettiva tra uomo e natura si spinge fino alla casualità della mantide (by the way, un altro predatore) che si piazza sulla telecamera impedendo la visione.
Ecco che torna di nuovo la metafora dell’addestramento, applicato al predatore alieno. “Certi animali non sono fatti per essere addestrati”, sentiamo; e ancora, in una sorte di epitaffio per Jupe: “Voleva domare un predatore… con un predatore non c’è accordo”. Ma sentiamo anche, in contrasto: “Ogni animale ha delle regole”; e i protagonisti giocano su questo. Non è questione di anima: non la natura benigna, non la cultura come ponte, non la retorica spielberghiana del contatto, ma la psicologia animale… siamo ancora al concetto di stimolo-risposta. Il cupo Pavlov, con i suoi crudeli esperimenti, non è tanto distante.

Nel difficile rapporto uomo-natura l’elemento medio sono i cavalli (come altri autori avrebbero scelto i cani), e ciò è consistente con la profonda base western del film. Non per nulla Nope è inserito, come tra due fermalibri, tra due immagini che assumono il valore di una dichiarazione. La prima: l'inquadratura dal basso del padre, Otis senior, a cavallo, prima di essere colpito da una moneta che piomba dal cielo come uno sparo silenzioso. La seconda: OJ a cavallo in un’inquadratura classicamente nobilitante, incorniciato dall’arco di legno con la scritta “Out Yonder” (l’equivalente di andare verso il tramonto) nella falsa cittadina western diventata – è il caso di dirlo – una ghost town. E nella moralità western c’è sempre un dovere da compiere: qui bisogna preoccuparsi dei cavalli. “Ho delle bocche da sfamare”, delle bestie da salvare, dice OJ.
Chi si stupisse di questo dovrebbe riflettere sul fatto che i neri, al pari degli asiatici, hanno avuto un ruolo importante nella storia del West, solo che il cinema storicamente l’ha messo in secondo piano; ma basta pensare alla recente tendenza del “western nero” per aggiustare il quadro.
Senza uscire dall’ottica del western, è indicativo che il mostro venga sconfitto da un gigantesco pallone in forma di cowboy, il quale esplodendo al suo interno lo distrugge. I palloni hanno un ruolo importante nel film, con quelli festivi gonfiabili a forma vagamente umana che si rizzano in aria e tremolano come fantasmi disegnando la pista e attirano l’attenzione del mostro; ma non dimentichiamo la scatola piena di palloncini nella sitcom, che volano verso l'alto e potrebbero essere stati l’elemento scatenante della misteriosa furia dello scimpanzé.

Visto tutto questo, non stupisce che il nume tutelare del film sia Eadweard Muybridge, ampiamente citato, con la sua serie di immagini sul cavallo in movimento. Il riferimento a Muybridge non solo replica il tema dei cavalli – e con un’inattesa torsione politica, contiene un accenno all’invisibilità dei neri nella storia (il nome dimenticato del fantino) – ma ci porta inoltre alle origini della riproduzione filmica.
Perché Nope è centrato sul concetto di riproduzione. La scena all’inizio su un set, dove OJ porta il cavallo già preparato per la CGI, introduce l'aspetto metacinematografico, altresì presente nel plot laterale sulla sitcom. Ma soprattutto stanno in primo piano i vari tentativi di filmare (riprodurre) il mostro. E’ affascinante che questi realizzino un viaggio all’indietro delle tecniche riproduttive: dal digitale (le telecamere e la videocamera) all’analogico (la macchina da presa non-elettrica di Antlers, che necessita di essere ricaricata con pellicola nel momento culminante) fino – dopo il fallimento di tutti i mezzi di riproduzione – alle foto scattate nella ghost town western, che per coerenza di messa in scena del luogo hanno una forma simile a lastre di dagherrotipo.
Nope è un film pieno di simulacri: dalla falsa vita quotidiana nella sitcom (deliziosa l’ironia nella pagina d'apertura con lo scimpanzé impazzito, dove vediamo lampeggiare sul disastro la scritta “Applause”) al cavallo rampante in legno che il mostro risucchia e risputa, alla città western ricostruita come parco divertimenti (e siccome è il West del cinema che viene ricostruito, è davvero una “mimesi di secondo grado”). Possiamo vederne un simbolo nei palloni già menzionati. Parallelamente c’è il discorso della mimica e del trucco teatrale (o da cinema di serie B) incarnato dai figli di Jupe.
Connesso a tutto questo è il tema dei media, che della riproduzione sono il terminale obbligato. Nei film di fantascienza tradizionali il problema è: come uccidere il mostro. Qui il problema è: come filmarlo, allo scopo di entrare nel circuito dei media: “E’ per Oprah”. Non è casuale la menzione di Oprah Winfrey, la più importante rappresentante della comunità afroamericana nei media.

Abbiamo accennato sopra al tema religioso, sfiorato e subito abbandonato (non c’è terrore sacro, terrore panico, nel film). “Non sappiamo un cazzo”, dice OJ – ma bisogna sapere, pensare, capire: passare dallo stupore del “miracolo cattivo” al problema pragmatico di gestire questa situazione irreale, e qui ritorna – già lo sappiamo – il concetto di addestramento: “Anche un carattere forte si può domare” (risposta di Antlers: “Tu domalo… e io lo riprendo”). Come con i doppelgänger di Us (inutile osservare come in questo film si ritrovino degli spunti che ritroviamo amplificati in Nope), quando la logica del mondo impazzisce, bisogna fabbricarsi una ragione. C’è da pensare, e certamente Jordan Peele lo pensa, che i neri – i tradizionali figli di un dio minore nella società americana – siano particolarmente adatti (addestrati dalla vita e da una sorta di coscienza razziale) a fare i conti con un mondo improvvisamente impazzito. Questo sottotesto politico è presente in tutta l’opera di Jordan Peele (che i neri facciano bene a non aspettarsi nulla, già lo mostrava  l’apologo swiftiano di Get Out). L'ottimismo provvidenzialista dell’uomo bianco (già logoro, del resto) non è per loro.

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