venerdì 6 maggio 2022

Downton Abbey II - Una nuova era

Simon Curtis

Come la maggior parte dei film western mette in scena, in realtà, la fine del West, così quella gigantesca epopea (ed elegia) della classe nobiliare inglese che è la serie Downton Abbey mette in scena la fine di quel periodo memorabile non tanto per la ricchezza quanto per il ton. Non è casuale che il primissimo episodio della serie tv cominciasse con l’annuncio dell’affondamento del Titanic – una sciagura che è rimasta nella nostra cultura come metafora della morte di un’epoca (due anni dopo seguì il “suicidio dell'Europa” con la Prima Guerra Mondiale).
Lo conferma fin dal titolo nel bel film di Simon Curtis Downton Abbey II – La nuova era, sempre scritto e prodotto da Julian Fellowes. E’ il secondo capitolo in cui si sposta sul grande schermo la vita della famiglia Crawley (famiglia nel senso antico che comprende la servitù), di cui sono incarnazione aristocratica Lady Violet (Maggie Smith) e Lord Grantham (Hugh Bonneville). Siamo arrivati agli inizi degli anni ‘30, e nella nuova era culmina quello che è il gran tema di fondo di tutta la serie: la trasformazione delle gerarchie sociali con una diversa integrazione morale tra le classi – che non piace all’inflessibile maggiordomo Carson (Jim Carter), massimo esempio del principio wodehousiano per cui il subordinato può essere più snob del padrone. C’è un valore metaforico in una scena di autentico rovesciamento in Downton Abbey II: per contribuire alla riuscita di un film che si sta girando al castello, tutti i servitori – assunti in veste di comparse – compaiono, seduti al tavolo di una cena lussuosa, vestiti degli abiti eleganti dell'aristocrazia (però, bel tocco di humour, quando compaiono Lord e Lady Grantham, si alzano in piedi rispettosamente come fanno sempre alla loro semplice tavola nei quartieri della servitù).
Tutta la serie è fondata su un’intersecazione narrativa (e un interscambio) tra padroni e servitori, che richiama, in piccolo!, il classico La regola del gioco di Renoir (un antecedente più prossimo è Gosford Park di Altman). Come sempre l’intreccio è ottimamente costruito e il dialogo è vivace, spiritoso e autentico. Se il film precedente, per dare una dimensione “cinematografica” alla serie tv, sviluppava un elemento di suspense con l’attentato al Re, questo rimane più legato alla dimensione quotidiana (sebbene la dimensione quotidiana a Downton sia più movimentata delle nostre!). Il film si articola abilmente su due linee conduttrici: un viaggio in Francia dove si scopre un possibile peccatuccio giovanile di Lady Violet, che manda in crisi Lord Grantham, e l’invasione – pagante – dei “cinematografari” a Downton Abbey per girare il loro film (giudizio di Lady Violet sul cinema: “Preferirei mangiare ghiaia”).
Quest’entrata del film nella storia rappresenta una divertita divagazione metacinematografica ricca di menzioni storiche (particolarmente apprezzabile quella di Abel Gance); e naturalmente – giacché si parla del passaggio dal muto al sonoro – c’è un ricordo di Cantando sotto la pioggia nel personaggio della diva cafona dall’accento disastroso. Non è la prima volta: un episodio della serie televisiva conteneva un omaggio verbale a Ivy Close, attrice del muto di cui il produttore Gareth Neame è bisnipote (oltre che nipote di Ronald Neame). E a proposito di inside jokes, il riferimento al Pigmalione di Shaw nel presente film nasconde anche un ammiccamento a Michelle Dockery (Lady Mary) che lo interpretò con grande successo a teatro nel 2007.
Mentre in molte serie tv è centrale la dimensione della peripezia (ovvero una crisi e la sua risoluzione), nella saga di Downton Alley le peripezie certo non mancano ma è centrale la dimensione del tempo, il suo lento flusso maestoso, la sua inesorabile continuità. Come sentiamo dire nel finale: “I Crawley vanno e vengono, la famiglia resta”. Alla fine del film, tradizionalmente, una morte viene bilanciata da una nascita. Così, personaggi amati possono prendere congedo, ma forse non abbiamo ancora visto tutto di Downton Abbey. 

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