Simon Curtis
Come
la maggior parte dei film western mette in scena, in realtà, la fine
del West, così quella gigantesca epopea (ed elegia) della classe
nobiliare inglese che è la serie Downton Abbey mette in scena la
fine di quel periodo memorabile non tanto per la ricchezza quanto per
il ton. Non è casuale che il primissimo episodio della serie tv
cominciasse con l’annuncio dell’affondamento del Titanic – una
sciagura che è rimasta nella nostra cultura come metafora della
morte di un’epoca (due anni dopo seguì il “suicidio dell'Europa”
con la Prima Guerra Mondiale).
Lo
conferma fin dal titolo nel bel film di Simon Curtis Downton Abbey II
– La nuova era, sempre scritto e prodotto da Julian Fellowes. E’
il secondo capitolo in cui si sposta sul grande schermo la vita della
famiglia Crawley (famiglia nel senso antico che comprende la
servitù), di cui sono incarnazione aristocratica Lady Violet (Maggie
Smith) e Lord Grantham (Hugh Bonneville). Siamo arrivati agli inizi
degli anni ‘30, e nella nuova era culmina quello che è il gran
tema di fondo di tutta la serie: la trasformazione delle gerarchie
sociali con una diversa integrazione morale tra le classi – che non
piace all’inflessibile maggiordomo Carson (Jim Carter), massimo
esempio del principio wodehousiano per cui il subordinato può essere
più snob del padrone. C’è un valore metaforico in una scena di
autentico rovesciamento in Downton Abbey II: per contribuire alla
riuscita di un film che si sta girando al castello, tutti i servitori
– assunti in veste di comparse – compaiono, seduti al tavolo di
una cena lussuosa, vestiti degli abiti eleganti dell'aristocrazia
(però, bel tocco di humour, quando compaiono Lord e Lady Grantham,
si alzano in piedi rispettosamente come fanno sempre alla loro
semplice tavola nei quartieri della servitù).
Tutta
la serie è fondata su un’intersecazione narrativa (e un
interscambio) tra padroni e servitori, che richiama, in piccolo!, il
classico La regola del gioco di Renoir (un antecedente più prossimo
è Gosford Park di Altman). Come sempre l’intreccio è ottimamente
costruito e il dialogo è vivace, spiritoso e autentico. Se il film
precedente, per dare una dimensione “cinematografica” alla serie
tv, sviluppava un elemento di suspense con l’attentato al Re,
questo rimane più legato alla dimensione quotidiana (sebbene la
dimensione quotidiana a Downton sia più movimentata delle nostre!).
Il film si articola abilmente su due linee conduttrici: un viaggio in
Francia dove si scopre un possibile peccatuccio giovanile di Lady
Violet, che manda in crisi Lord Grantham, e l’invasione – pagante
– dei “cinematografari” a Downton Abbey per girare il loro film
(giudizio di Lady Violet sul cinema: “Preferirei mangiare ghiaia”).
Quest’entrata
del film nella storia rappresenta una divertita divagazione
metacinematografica ricca di menzioni storiche (particolarmente
apprezzabile quella di Abel Gance); e naturalmente – giacché si
parla del passaggio dal muto al sonoro – c’è un ricordo di
Cantando sotto la pioggia nel personaggio della diva cafona
dall’accento disastroso. Non è la prima volta: un episodio della
serie televisiva conteneva un omaggio verbale a Ivy Close, attrice
del muto di cui il produttore Gareth Neame è bisnipote (oltre che
nipote di Ronald Neame). E a proposito di inside jokes, il
riferimento al Pigmalione di Shaw nel presente film nasconde anche un
ammiccamento a Michelle Dockery (Lady Mary) che lo interpretò con
grande successo a teatro nel 2007.
Mentre
in molte serie tv è centrale la dimensione della peripezia (ovvero
una crisi e la sua risoluzione), nella saga di Downton Alley le
peripezie certo non mancano ma è centrale la dimensione del tempo,
il suo lento flusso maestoso, la sua inesorabile continuità. Come
sentiamo dire nel finale: “I Crawley vanno e vengono, la famiglia
resta”. Alla fine del film, tradizionalmente, una morte viene
bilanciata da una nascita. Così, personaggi amati possono prendere
congedo, ma forse non abbiamo ancora visto tutto di Downton Abbey.
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