Richard Linklater
Richard
Linklater, lo sappiamo bene, è il regista che ha avuto l’animo di
realizzare Boyhood fra il 2002 e il
2013, girando un segmento alla volta, per seguire la storia
dei personaggi (e i volti degli attori) man mano che crescono. O che
con Tutti vogliono qualcosa!! ha recuperato tutto un filone del
cinema giovanilistico americano per darci ancora un bellissimo
ritratto del mondo del college. Linklater è un cineasta del tempo:
del passato, della memoria, e quindi del senso agrodolce della
nostalgia. I suoi film hanno una capacità evocativa quasi ipnotica
(e una consapevolezza critica) che poche opere simili posseggono –
forse solo il seminale American Graffiti di George Lucas, o, su piani
diversi, l’opera di Woody Allen (pensiamo a Radio Days) e
quella di Paul Thomas Anderson.
Non
film dal vero ma animazione in rotoscope (quel procedimento in cui il
disegno viene ricalcato sul girato dal vivo), il bellissimo Apollo 10
e mezzo (su Netflix) è l’incantevole rievocazione di
un’adolescenza a Houston, vicino alla sede della NASA, alla fine
degli anni ‘60: “il posto migliore per essere un ragazzino”.
Era l’epoca dello sbarco sulla Luna; il titolo originale è Apollo
10½: A Space Age Childhood. E’ l’elegia di una
fanciullezza sognante, nel racconto della voce narrante di Stan
adulto (è quella di Jack Black, con le sue inflessioni alla Orson
Welles). La scuola, il tempo libero, la famiglia, le sorelle e i
fratelli, gli amici; il padre impiegato alla NASA con inspiegati
momenti di avarizia; i nonni che ricordano la grande depressione; il
cibo, e i pranzi per la scuola per tutta la settimana preparati la
domenica; i numeri di Playboy nascosti e la sorella (mai fu
identificata) che ha fatto la spia. E il cinema! Vediamo rifatti in
rotoscope brani di Tutti insieme appassionatamente e di 2001 –
Odissea nello spazio, dell’anticipatorio Destination Moon (Uomini sulla Luna, sceneggiato da Heinlein) e di It!
– nonché di trasmissioni tv, da Dark Shadows a tutta una serie di
titoli che ci fanno sobbalzare perché ancora oggi stanno alla base
della nostra nostalgia (e lo stesso vale per la musica).
Un’autobiografia americana – e questo potrebbe essere il titolo
di tutta l’opera di Linklater.
“Il
posto migliore per essere un ragazzino”! Era il momento magico
dell’ottimismo kennediano e post-kennediano di un decennio
indimenticabile. Vero che “il futuro era spesso terrificante”,
con le previsioni di un'umanità sommersa dalla spazzatura, o la
guerra fredda con le immagini dei russi in marcia sulla Piazza Rossa;
ma dall’altro lato l’inevitabile ottimismo infantile e umano
vedeva soprattutto dei “domani che cantano”. Erano i tempi di
un’irripetibile coincidenza tra i sogni fra i sogni della
fantascienza (cupole per abitare sulla Luna, viaggi su Marte) e la
realtà (apparentemente) sfavillante di un Paese in trasformazione –
dove quelli che oggi ci appaiono i non luoghi di Baudrillard
assumevano agli occhi di un ragazzino un aspetto di scintillante
modernità. C’erano anche il Vietnam e le manifestazioni di
protesta – ma nell’atmosfera placida della prima giovinezza di
Stan erano qualcosa che si vedeva in tv. Era l’epoca in cui si
poteva vedere ancora il futuro come una moderna autostrada – oggi
lo vediamo piuttosto come una marcia nella giungla.
E’
incredibile renderci conto, guardando questa “macchina del tempo”
di film, di come il tempo sia passato, al di là del conteggio degli
anni. Non può non salire alla memoria la frase di Talleyrand citata
da Bertolucci: “Chi non ha vissuto gli anni prima della rivoluzione
non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere” (non c’è
stata di mezzo una rivoluzione, ma il suo equivalente: una drammatica
crisi e trasformazione culturale). Basta pensare al pericolo assunto
come una realtà della vita. “Sembra che siamo tutti sopravvissuti
all’infanzia”, dice la voce narrante nel film. Perché un aspetto
che il film rende assai bene è quella specie di incoscienza che un
tempo apparteneva alla vita quotidiana dei ragazzini, e che oggi ci
sembra assurda (niente a che vedere con le tetre pulsioni suicide dei
giovani d’oggi, pompate dai social). In questo senso la psicologia
infantile descritta nel film è una propaggine di quella dimensione
libera e avventurosa dell’infanzia che ha il suo manifesto in un
testo centrale della cultura americana, Le avventure di Tom Sawyer di
Mark Twain.
In
Linklater c’è sempre la concezione del tempo che fugge – e qui è
il tempo della preadolescenza, che ha la prerogativa di essere
volatile e fuggevole ma di non rendersene conto. Come sull’isola di
Peter Pan, i bambini e i ragazzini preadolescenti credono che il loro
stato sia eterno – eppure oscuramente intuiscono che così non è.
Tanto più questo è toccante in quanto ci arriva attraverso il
filtro degli anni, nella voce narrante di Stan. C’è una bellissima
frase verso la conclusione del film, quando Stan si addormenta in
auto e il padre lo solleva per portarlo a casa: “Quella fu l'ultima
fase dell'infanzia in cui sperimentai quel particolare benessere che
è addormentarsi in macchina – potevi scivolare nel sonno sapendo
che sarebbe andato tutto bene, e ti saresti risvegliato il mattino
dopo nel tuo letto”.
Apollo
10 e mezzo è un triplice viaggio. E’ un viaggio nel ricordo. E’
il viaggio per eccellenza dell’era moderna: quello sulla Luna degli
astronauti dell’Apollo 11. Ed è il viaggio nella fantasia (ma
raccontato dalla voce narrante come realtà) del ragazzino Stan, che
camminò sulla Luna quattro giorni prima degli astronauti dell’Apollo
11. Infatti – apprendiamo – alla NASA avevano costruito un modulo
lunare delle dimensioni sbagliate, troppo piccolo, e così in gran
segreto scelsero e addestrarono Stan per una missione di cui nessuno
doveva sapere, né ha saputo, mai nulla. Non abbiamo tutti noi, da
bambini, sognato di essere un piccolo eroe che compie l’opera degli
adulti nonostante la sua piccolezza di statura? Così in Apollo 10 e
mezzo si fondono il viaggio nel tempo attraverso la memoria e
contemporaneamente un viaggio nella fantasia, che modella il ricordo
(a questo allude una frase della madre di Stan che sentiamo
sull’immagine del bambino addormentato). Del resto, parlandoci in
apertura, Stan ci dice già all'inizio di essere un affabulatore,
vale a dire, chiarisce, un bugiardo matricolato. E allora il film, e
in particolare la sua parte finale, incrocia le immagini della
missione dell’Apollo 11 e quelle della missione di Stan che l’aveva
preceduta, in un affascinante rispecchiamento visuale.
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