Steven Spielberg
Un amore star-crossed
fra i rampolli di famiglie nemiche: lo ha cantato Shakespeare e di lì
viene, tra le innumerevoli versioni di Romeo e Giulietta, West
Side Story. Ora Steven Spielberg ci dà il remake del musical di
Robert Wise e Jerome Robbins del 1961, a sua volta tratto dallo show
di Robbins a Broadway su testo di Arthur Laurents con musiche di
Leonard Bernstein e canzoni di Stephen Soundheim.
Nella storia dell'amore
contrastato (simboleggiato dalla grata che divide gli amanti,
superata solo per un attimo, nell'equivalente del West Side della
scena del balcone) fra il polacco Tony e la portoricana Maria,
all'interno della rivalità fra i bianchi Jets e i latinos
Sharks, Spielberg incrocia in modo ammirevole fedeltà all'originale
e intervento personale. Se al realismo urbano Wise e Robbins
incrociavano abilmente un riferimento al palcoscenico, Spielberg vi
mescola un riferimento metacinematografico, a partire dal modo di
ripresa dei numeri di balletto. Vedi per esempio la scena in cui Tony
canta Maria in un largo spiazzo e i riflettori che si
accendono richiamano il set. Oppure, poco prima, le classici luci
spielberghiane sparate contro la macchina da presa che attraversano
la catasta di panche nella sequenza del ballo in palestra. Com'è
noto, Rita Moreno (la Anita del film precedente) qui compare nel
ruolo di Valentina, la vedova di Doc, a segnare un omaggio alla
continuità ma altresì una differenza, incarnando un'ipotesi di
incontro fra le due etnie che sembra appartenere al passato (qui
canta lei una canzone di Tony e Maria nel film precedente).
Il West Side Story
di Spielberg è un film (ancora) più politico del suo antecedente di
sessant'anni fa – e più pessimista. E' istruttivo comparare
l'apertura dei due film. In Wise e Robbins, una ripresa
dall'elicottero mostra la New York orgogliosa degli incroci di
autostrade, anche se poi la macchina da presa scende nella zona
povera a mostrare l'altra faccia del sogno americano. In Spielberg la
macchina da presa apre su un paesaggio di macerie, con le enormi
palle di ferro dei demolitori. Il quartiere è in via di demolizione
per la gentrification che avanza, onde c'è una particolare
drammaticità nell'assunto: Jets e Sharks si battono per il dominio
su una specie di Ground Zero.
Oppure guardiamo la
famosa canzone America. Nel vecchio film è un classico
contrasto fra uomini e donne, dove all'ottimismo “pro”
delle donne si oppone (con un controcanto assai spiritoso) l'ironia
“anti” dei maschi; e diverte anche perché mantiene una sorta di
legittimità nel rappresentare i due modi unilaterali di guardare
alla situazione. Nel film di Spielberg – dove non a caso vediamo
sullo sfondo una manifestazione di portoricani contro gli sfratti –
il contrasto rimane ma quella delle donne appare piuttosto
un'illusione autoironica (e infatti poco prima del finale Anita, in
un momento un po' retorico ma efficace, lo rinnegherà gridando “Yo
no soy americana, yo soy puertorriqueña”). Nota peraltro che
proprio per questo Spielberg mette in scena America in termini
di balletto festoso in strada assolutamente da musical classico: un
geniale rovesciamento che lo sposta su un piano spettacolare cinematografico di pura fantasia.
Similmente
il “funerale” che chiude entrambi i film, quando i Jets e gli
Sharks si uniscono nel sollevare il corpo morto di Tony, contiene in
Wise e Robbins l'accenno a una possibile ricomposizione; il
superamento dell'odio nel dolore è la nota prevalente. In Spielberg
il solenne movimento in dolly finale che lo segue ha qualcosa di
amaro e definitivo: non il seme di una rinascita ma solo il
cordoglio; e la nota prevalente è la disperazione.
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