domenica 2 gennaio 2022

West Side Story

Steven Spielberg

Un amore star-crossed fra i rampolli di famiglie nemiche: lo ha cantato Shakespeare e di lì viene, tra le innumerevoli versioni di Romeo e Giulietta, West Side Story. Ora Steven Spielberg ci dà il remake del musical di Robert Wise e Jerome Robbins del 1961, a sua volta tratto dallo show di Robbins a Broadway su testo di Arthur Laurents con musiche di Leonard Bernstein e canzoni di Stephen Soundheim.
Nella storia dell'amore contrastato (simboleggiato dalla grata che divide gli amanti, superata solo per un attimo, nell'equivalente del West Side della scena del balcone) fra il polacco Tony e la portoricana Maria, all'interno della rivalità fra i bianchi Jets e i latinos Sharks, Spielberg incrocia in modo ammirevole fedeltà all'originale e intervento personale. Se al realismo urbano Wise e Robbins incrociavano abilmente un riferimento al palcoscenico, Spielberg vi mescola un riferimento metacinematografico, a partire dal modo di ripresa dei numeri di balletto. Vedi per esempio la scena in cui Tony canta Maria in un largo spiazzo e i riflettori che si accendono richiamano il set. Oppure, poco prima, le classici luci spielberghiane sparate contro la macchina da presa che attraversano la catasta di panche nella sequenza del ballo in palestra. Com'è noto, Rita Moreno (la Anita del film precedente) qui compare nel ruolo di Valentina, la vedova di Doc, a segnare un omaggio alla continuità ma altresì una differenza, incarnando un'ipotesi di incontro fra le due etnie che sembra appartenere al passato (qui canta lei una canzone di Tony e Maria nel film precedente).
Il West Side Story di Spielberg è un film (ancora) più politico del suo antecedente di sessant'anni fa – e più pessimista. E' istruttivo comparare l'apertura dei due film. In Wise e Robbins, una ripresa dall'elicottero mostra la New York orgogliosa degli incroci di autostrade, anche se poi la macchina da presa scende nella zona povera a mostrare l'altra faccia del sogno americano. In Spielberg la macchina da presa apre su un paesaggio di macerie, con le enormi palle di ferro dei demolitori. Il quartiere è in via di demolizione per la gentrification che avanza, onde c'è una particolare drammaticità nell'assunto: Jets e Sharks si battono per il dominio su una specie di Ground Zero.
Oppure guardiamo la famosa canzone America. Nel vecchio film è un classico contrasto fra uomini e donne, dove all'ottimismo “pro” delle donne si oppone (con un controcanto assai spiritoso) l'ironia “anti” dei maschi; e diverte anche perché mantiene una sorta di legittimità nel rappresentare i due modi unilaterali di guardare alla situazione. Nel film di Spielberg – dove non a caso vediamo sullo sfondo una manifestazione di portoricani contro gli sfratti – il contrasto rimane ma quella delle donne appare piuttosto un'illusione autoironica (e infatti poco prima del finale Anita, in un momento un po' retorico ma efficace, lo rinnegherà gridando “Yo no soy americana, yo soy puertorriqueña”). Nota peraltro che proprio per questo Spielberg mette in scena America in termini di balletto festoso in strada assolutamente da musical classico: un geniale rovesciamento che lo sposta su un piano spettacolare cinematografico di pura fantasia.
Similmente il “funerale” che chiude entrambi i film, quando i Jets e gli Sharks si uniscono nel sollevare il corpo morto di Tony, contiene in Wise e Robbins l'accenno a una possibile ricomposizione; il superamento dell'odio nel dolore è la nota prevalente. In Spielberg il solenne movimento in dolly finale che lo segue ha qualcosa di amaro e definitivo: non il seme di una rinascita ma solo il cordoglio; e la nota prevalente è la disperazione. 
 

 

Nessun commento: