lunedì 27 settembre 2021

Drive My Car

Hamaguchi Ryusuke

Il maestro giapponese Hamaguchi Ryusuke è regista di forte impronta teatrale (i tre episodi del suo recente Il gioco del destino e della fantasia si possono definire tre atti unici): fra i classici in area giapponese come maestri del cinema parlato quali Ozu e Naruse, ma anche come Ingmar Bergman, col quale ha in comune la potenza del dialogo (parole e silenzi) accompagnato dall'uso delle fisionomie in una scansione magistrale delle inquadrature.
Tutto ciò è portato al calor bianco nell'appassionante Drive My Car, tratto da due racconti di Murakami Haruki, che approda adesso nelle sale italiane distribuito, come il film precedente, dalla Tucker Film. La fotografia è di Shinomiya Hidetoshi, con le luci di Takai Taiki, il montaggio di Yamazaki Azusa.
Questo film di tre ore è un'opera alta e straziante sul dolore umano (ma anche, tipicamente, sulla responsabilità), sulla sua persistenza e sulla sua necessaria consolazione: “Noi vivremo”. Questo è Čechov – il sublime discorso finale di Sonja in Zio Vanja – ed è appunto il capolavoro čechoviano che il regista teatrale Kafuku (Nishijima Hidetoshi) mette in scena dopo una tragedia familiare. In Drive My Car Hamaguchi (che firma la sceneggiatura con Oe Takamasa) elabora armoniosamente una pluralità di temi, dall'amore alla conoscenza, che permetterebbero mille discorsi; e se il dramma di Čechov faceva capolino pure in Murakami, Hamaguchi ne fa il fulcro del film. Le psicologie ferite del protagonista e di Misaki (Miura Toko), la ragazza che gli fa da autista sulla sua Saab rossa, si stagliano nel contesto della preparazione di una rappresentazione di Zio Vanja a Hiroshima.
L'ambientazione durante la costruzione di uno spettacolo teatrale consente a Hamaguchi di realizzare il suo personale Paradosso dell'attore. La recitazione viene dal profondo del cuore. Fuori dal palcoscenico, è recitazione (come in Murakami) pure il rapporto fra Kafuku e Takatsuki (Okada Masaki), l'amante di sua moglie morta, in una situazione ambigua in cui il secondo ignora che il primo sa. E' interessante notare che anche sul personaggio fantasmatico della bambina Sachi che conosciamo di scorcio attraverso il racconto di Misaki nel finale – una “seconda personalità” della madre violenta di lei – si stende il sospetto della recitazione.
Quella che Kafuku mette in scena a Hiroshima è una rappresentazione multilingue, con l'ausilio del solito schermo per la traduzione che si usa per le produzioni in lingua straniera. A sorpresa, fra il coreano, il mandarino e il Tagalog filippino, è compreso anche il linguaggio dei sordomuti, per l'attrice muta che interpreta Sonja (la bravissima interprete è la coreana Park Yoo-rim). Sembra un paradosso, ma nel finale del film la sua resa del già menzionato discorso finale in questo linguaggio gestuale raggiunge una potenza da brividi.
In tutto il suo cinema Hamaguchi insiste moltissimo sul potere delle parole – che viene ancora accresciuto da quelle potentissime di Čechov, che incarnano la vita stessa. “Čechov è terrificante. Quando dici le sue battute, tira fuori il vero da te”. Questa osservazione di Kafuku è la chiave per intendere il complesso rapporto fra il testo teatrale e la sceneggiatura del film.
Le parole di Čechov assumono una risonanza profonda in Drive My Car. Ma più che un rispecchiamento dell'azione, le battute che la voce della moglie morta recita nell'audiocassetta ascoltata in macchina suonano come un memento. Beninteso, non mancano delle raffinate “rime”, ma non è questo che importa a Hamaguchi, tanto che esse sembrano pertinenti piuttosto all'eleganza di montaggio che a una vera corrispondenza ideale. Ovvero, a Hamaguchi non interessa che il testo čechoviano duplichi l'azione drammatica del plot (sarebbe troppo facile), bensì, piuttosto, rispecchi il complesso della vita umana quale emerge attraverso quest'azione drammatica. Hamaguchi si unisce a Čechov per parlare, con una stessa voce, di tutti noi.

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