venerdì 24 settembre 2021

Dune: Part One

Denis Villeneuve

Dune, il romanzo di Frank Herbert del 1965, primo di una serie, è una pietra miliare della fantascienza per la scrittura e la vastità del disegno. Come Tolkien, Herbert costruisce un'intera civiltà nei suoi dettagli antropologici; e riflette lo spirito “antisistema” di quel decennio nella sua visione di un mondo umano crudele e tragico (vi allude anche il nome Atreides) dov'è centrale il concetto di cospirazione. Al centro sta la “spezia” del pianeta Arrakis/Dune, che dilata la coscienza – un riflesso della “cultura della droga” degli anni Sessanta – e consente i viaggi nello spazio, per cui dalla sua estrazione dipende tutta la galassia. Chiaramente Herbert ne fa una metafora del petrolio (anticipando nella minaccia di distruggere tutta la “spezia” il grande shock petrolifero del decennio seguente); ed è solo uno dei vari riferimenti alla cultura arabo-musulmana, dalla quale Herbert è molto influenzato.
Romanzo psicologico di formazione, racconto d'avventura fantastica, disegno gigantesco di una civiltà futura e di una cultura che si situa al suo opposto, cronaca della nascita di una religione, Dune ha l'ambizione tipica della fantascienza degli anni '60 di innalzare il genere a una dimensione “di pensiero” lavorando in profondità sui suoi topoi. Una parte fondamentale dell'apparato retorico della fantascienza è l'introduzione di termini futuristico/esotici d'invenzione impiegati con la stessa naturalezza di quelli usuali, dandone la spiegazione in forma indiretta. Herbert porta all'estremo questo procedimento (tanto da mettere in appendice un dizionario, anch'esso intradiegetico). Il suo romanzo ha avuto un influsso capitale sul fantastico americano: non si può concepire Guerre stellari senza Dune, e i suoi Sabbipodi sono i veri Fremen herbertiani.

Per la versione cinematografica di Dune, nacque in Francia e morì a Hollywood il progetto ambiziosissimo di Alejandro Jodorowsky, del quale ci restano affascinanti disegni e lo storyboard, visibili nel bel documentario di Frank Pavich Jodorowsky's Dune (del 2013 ma uscito in Italia sull'onda del Dune di Villeneuve). La figlia di Dino De Laurentiis, Raffaella, si rivolse a David Lynch, fresco del successo di Elephant Man. Il suo Dune (1984) estremamente innovativo fu però un flop di pubblico e di critica; Lynch stesso ne parla come un fallimento. Eppure...
Frank Herbert nel suo testo, a marcata focalizzazione interna, usa molto la “voce di pensiero”, segnalandola in carattere corsivo, pur se mantiene indicatori come “pensò”. Il Dune di Lynch è geniale nell'uso della voce interiore over: la udiamo anche nelle scene di dialogo, non solo per il protagonista Paul Atreides ma per vari personaggi (quasi mai il villain Barone Harkonnen, perché questi esprime a gran voce i propri sentimenti, secondo una sorta di impudicizia che lo caratterizza). Si può osservare che così, in un film che inizia con una prova di telepatia (la sacerdotessa imperiale), gli stessi spettatori diventano telepatici. Con le visioni di Paul, inoltre, Dune amplia perversamente i meccanismi del flash-forward e dell'anticipazione. Tutto il film possiede una specie di sospensione straniata e onirica molto lynchana.
Nel cinema di Lynch ha un ruolo centrale l'aspetto scenografico; su questo piano Dune è sontuoso e spiazzante: le sue soluzioni visuali creano quel “tempo misto” fra diverse epoche che caratterizza l'opera del regista. Il suo Undicesimo Millennio è uno strano incrocio di stili arcaici, ottocenteschi e futuristici. Basta pensare alle divise di gala – o alla navetta con cui il Duca Leto esplora per la prima volta il deserto: è più vicina a Jules Verne e al Nautilus che al modernismo della fantascienza dei Cinquanta e Sessanta.
Il difetto peggiore – come segnala Michel Chion nel suo bellissimo libro su David Lynch – è che Lynch come regista è irreparabilmente a disagio nel dirigere scene di massa, specie nei combattimenti. Anche il grande attacco finale alla capitale è deludente. E tuttavia quando ci spostiamo all'interno del Palazzo, con la grande scena finale dove l'ultima parola spetta all'inquietante bambina Alia (così aliena che sarebbe degna della Loggia Nera), ne usciamo risarciti. In ultima analisi il Dune di Lynch era un film più avanti del suo tempo.

Ora è arrivato sugli schermi il Dune di Denis Villeneuve, o meglio la sua Part One (mi scuso di non conoscere le miniserie tv di John Harrison e Greg Yaitanes). Tagliando un po' con l'accetta per chiarezza, nel passaggio dal letterario al filmico vi sono trasposizioni di tipo prevalentemente illustrativo, trasposizioni dove prevale un aspetto interpretativo, e vi sono “tradimenti” (spesso proficui). Questa di Villeneuve (sceneggiatura di Villeneuve, Eric Roth e John Spaihts) è una trascrizione di tipo eminentemente illustrativo – il che non va assolutamente inteso in senso negativo. L'acribia di Villeneuve nel materializzare sullo schermo il testo di Herbert si spinge ai minimi particolari (le palme in fiamme); il suo impegno in questo senso fa sì che il suo Dune possa essere interamente goduto solo da chi ha letto il romanzo (altrimenti, per esempio, il personaggio di Thufir Hawat resta poco comprensibile). Detto in margine, qui va segnalato un difetto di sceneggiatura: lo spettatore resta un po' spiazzato se ignora che nell'universo di Dune non esistono i computer, in seguito a un'antica guerra di religione contro le “macchine pensanti”; e sarebbe stato opportuno un accenno in merito nel film.
E' una partita di inganno e di violenza tra la Casa Atreides e i Fremen da un lato, gli Harkonnen e l'Imperatore dall'altro. Gli Atreides si muovono in una “selva oscura” di minaccia e tradimento (la stessa concessione imperiale del pianeta Dune, prima posseduto dagli Harkonnen, è una trappola). Anche sull'amore fra il Duca Leto e Jessica (Rebecca Ferguson), che gli ha dato Paul, si stende l'ombra dell'appartenenza di Jessica all'ordine delle Bene Gesserit, che cerca di manovrare nell'ombra i destini dell'umanità. Paul Atreides (Timothée Chalamet) è un frutto (imprevisto) del secolare programma genetico delle Bene Gesserit che mira a produrre il Kwisatz Haderach, la mente che unisce lo spazio e il tempo: è tormentato dalle visioni, incerto sul suo ruolo, tormentosamente smarrito circa se stesso (in una scena del film accusa la madre: “Voi Bene Gesserit avete fatto di me un mostro!”). Basta questo accenno per vedere come Dune sia il romanzo perfetto per Villeneuve per esprimere interessi e ossessioni che hanno attraversato tutto il suo cinema.
Nelle caratteristiche psicologiche dei personaggi viene trascritto con agilità il romanzo. Una dignità dolorosa caratterizza la famiglia degli Atreides, segnata dalla consapevolezza di camminare su un terreno minato dal tradimento. Anche il linguaggio segreto dei segni cui ricorrono Jessica e Paul rende un universo cospirativo dove l'insicurezza e la diffidenza sono la norma. Dall'altro lato dello spettro morale, Villeneuve trae buon effetto dalla capacità di levitare (grazie a sospensori antigravitazionali) del malvagio Barone Harkonnen (Stellan Skarsgard). La scena in cui, sfuggito per un pelo all'attentato col gas velenoso, viene scoperto che tossisce attaccato al soffitto come un insetto è più efficace che nel romanzo.

Villeneuve è un pittore del cinema, un maestro del paesaggio. Sul piano visuale Dune, con la fotografia di Greig Fraser, è incredibilmente spettacolare: i panorami (dalle onde di sabbie del deserto su Arrakis all'umida distesa con le tombe degli Atreides su Caladan), le architetture, le macchine, i riti (la scena dei Sardaukar su Calusa Secundus, che non esiste nel romanzo), i costumi (ottimo l'aspetto “cerimoniale”, necessario per un film che si svolge fra l'aristocrazia dell'anno 10191), inseriscono l'enfasi dell'azione in una scenografia magica e teatrale. La musica martellante di Hans Zimmer serve in alcuni punti a un vero effetto ipnotico, mentre altrove, in accordo con la dimensione colossale del racconto, non è priva di richiami wagneriani.
Star Wars è un riferimento obbligato. Se Villeneuve si autocita nelle astronavi, che ricordano Arrival, è puro Star Wars l'arrivo della navetta al castello degli Harkonnen, o lo schieramento che accoglie il Duca Leto Atreides al suo sbarco su Arrakis. Peraltro, già lo abbiamo detto, Frank Herbert sta alla base di Star Wars in generale.
A questa sua “tavolozza sensoriale” Villeneuve si accosta sul piano strettamente registico con una sorta di classicità. La sua regia si fa invisibile – e così pone in primo piano lo spettacolo (non inteso solo nel senso puramente visivo ma come una specie di dimensione walshiana dell'avventura). L'azione essendo emozionante, produce uno dei suoi film migliori in assoluto. Si può osservare che Villeneuve è un regista che “si getta” totalmente, con vero entusiasmo, nelle sue sceneggiature; questo è un pregio, ma anche un difetto quando le sceneggiature hanno dei limiti (per esempio – riconosco che questa è un'opinione di minoranza – quando scrive Taylor Sheridan), creando quell'impressione contraddittoria, “bella regia vs. sceneggiatura” che si trova a volte nei suoi film.
Anche in base a questa scelta di classicismo Villeneuve trascura, contrariamente a Lynch, l'aspetto della voce interiore così presente nel romanzo. Invece punta ancora di più sul paradosso temporale vivente che è Paul Atreides, il quale vede il futuro, o meglio le varie possibilità future: prima ancora che per le proprietà allucinogene della “spezia”, che agisce da catalizzatore, perché Paul è effettivamente il Kwisatz Haderach.

Dune (il romanzo) pone un concetto fruttuosamente ambiguo col quale i vari progetti cinematografici hanno dovuto fare i conti. L'ambiguità fra razionalismo e misticismo. L'assurgere di Paul a Messia dei Fremen: credenza impiantata dalle Bene Gesserit o profezia autentica? Paul Atreides: frutto di una lunga selezione genetica o realizzatore del disegno divino? O entrambe le cose contemporaneamente.
Lynch e specialmente Jodorowsky spingono verso il polo del misticismo, contrariamente a quello più razionalista del romanzo. Per Villeneuve, è presto per dirlo. Non dimentichiamo che il suo Dune è solo il “primo tempo” dell'opera. A questo Villeneuve fa alludere Chani (Zendaya) con una sorta di strizzata d'occhio metanarrativa: le ultime parole che sentiamo nel film, pronunciate da questa ragazza Fremen, sono “Questo è solo l'inizio”.
In conclusione, si può dire che David Lynch nella sua versione si sia maggiormente avvicinato al substrato mitico presente nel romanzo. Ma la versione di Villeneuve ne dà un'illustrazione sfarzosa che non è solo un piacere per gli occhi ma di più.

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