venerdì 17 settembre 2021

Qui rido io

Mario Martone

Meritava ben di più all'ultima Mostra di Venezia (ma le giurie, si sa...) il bellissimo Qui rido io di Mario Martone, che ci porta nella vita di Eduardo Scarpetta in un'interpretazione monumentale di Toni Servillo, tracciando il ritratto del grande attore e commediografo napoletano che si apre con l'entrata in scena fra gli applausi del suo alter ego scenico Felice Sciosciammocca in Miseria e nobiltà. Tutto il cast è di una perfezione commovente, e anche in parti secondarie abbiamo il piacere di ritrovare grandi volti del cinema napoletano come Giovanni Mauriello e Iaia Forte.
Alla fine del film, la macchina da presa scivola via allontanandosi – secondo una delle enunciazioni canoniche del finale – e così facendo inquadra la scena tra due battenti aperti a destra e sinistra; il che ci riporta immediatamente a quella dimensione che è il tema centrale del film: il palcoscenico. Il cortocircuito tra il racconto filmico e il teatro-nel-film attraversa Qui rido io.
Padre ingombrante, patriarca e padre-padrone, capocomico familiare: la vita stessa di Eduardo Scarpetta sembra una commedia di Eduardo Scarpetta, con questa “famiglia allargata” (che non conosce scuorno, vergogna, come dice con una punta amara la moglie) composta dalla moglie ufficiale Rosa, l'amante fissa quale una seconda moglie Luisa De Filippo, e una marea di figliastri, figli legittimi, figli adottivi, figli illegittimi, che lo chiamano zio: e quest'ultimi sono Titina, Eduardo e Peppino De Filippo! L'anticipazione del loro destino è iscritta nel viso severo e negli occhi intenti di Eduardo, nella serietà quieta di Titina, nelle smorfie con cui il piccolo e ribelle Peppino imita parodisticamente le foto del padre-zio. A loro tocca la scoperta dolorosa della verità sulla loro discendenza, sia in una sorta di “scena primaria” su cui cadono gli occhi di Peppino, sia nella rivelazione che il fratellastro adulto, Vincenzo Scarpetta, fa a Eduardo con rabbia trattenuta.
E' indicativo di quest'incrocio fra biografia ed arte (teatrale) che i figli si passino l'un l'altro, man mano che crescono, la parte di Peppiniello in Miseria e nobiltà. Nota che pure il personaggio di Peppiniello nella commedia scarpettiana è un orfano/non orfano, un altro bambino dalla paternità negata e celata (“Vincenzo m'è pate a me!”).

La rappresentazione è il modo in cui si organizza la realtà del racconto in tutto il film. Il pranzo collettivo a casa di Scarpetta si trasforma – mentre il patriarca è in disparte, avvolto nelle sue preoccupazioni – in un numero di varietà sulle note del suo La geisha. Il servo Mirone, tramite e informatore, si divide tra i due nuclei familiari come un Arlecchino servitore di due padroni in salsa partenopea. Nella sua gag del sentirsi male in scena Scarpetta inverte Molière. E in un geniale incrocio, Martone ci mostra Scarpetta che assiste al dannunziano La figlia di Iorio e ride architettando nella mente la propria parodia, Il figlio di Iorio – e il montaggio incrocia sulla scena, senza preavviso o distinzione, le due opere, portandoci materialmente nella mente di Scarpetta.
Di qui verrà la causa per plagio da parte di D'Annunzio – un processo che nella scena finale Scarpetta rovescia e vince trasformando la propria autodifesa in un grande pezzo di comicità verbale, che fa ridere pubblico e giudici; e quel suo monologo comico polverizza l'orrida retorica avvocatesca dell'accusatore che abbiamo sentito prima (eppure quella sua risata, che inizia gargantuesca, assume nel proseguire qualcosa di isterico e sforzato: contiene il presagio del declino).
Persino Gabriele D'Annunzio, quando in Toscana riceve con sublime ipocrisia la visita di Scarpetta (alla ricerca di un'autorizzazione scritta che non avrà), mette in scena con la sua corte una rappresentazione di vita decadente che è puro teatro (non è solo per la disposizione spaziale in alto sulla galleria che li vediamo in pura soggettiva) destinata a épater le (petit) bourgeois in visita marcando una sensualità dannunzianamente perversa – memorabile quella Marchesa Casati seminuda col suo gesto della veletta (anche in questo caso la rappresentazione si fonde con la realtà, essendo la rappresentazione il cuore stesso del personaggio D'Annunzio).

In Qui rido io Martone traccia un ritratto gustosamente vivace (senza l'ombra del meccanicismo di Capri Revolution) dell'ambiente intellettuale/teatrale napoletano d'inizio secolo; dove non fanno una gran figura Salvatore Di Giacomo, Roberto Bracco, Ferdinando Russo, Libero Bovio, invidiosi e maligni. Sono loro a costituire l'anti-claque dannunziana che interrompe e contesta la rappresentazione de Il figlio di Iorio); i primi due scrivono la perizia dell'accuisa al processo. Mentre Benedetto Croce è dalla parte di Scarpetta nella querelle (e dice cose giustissime), ma senz'accorgersene lo tratta di guitto (impagabile la faccia di Servillo nella scena). Assunta Spina, il dramma di Di Giacomo, diventa un vero manifesto anti-scarpettiano e si crea un vero accerchiamento del commediografo, il quali di lì a poco si ritirerà dalle scene.
Il film sottolinea fortemente la portata innovativa del teatro di Scarpetta, dove la sua insistenza sul copione scritto, da recitare senza saltare una battuta, concretizza la sua opposizione al canovaccio della commedia dell'arte, di cui vede il simbolo in Pulcinella (“Ma che facimmo? 'A commedia dell'arte? (…) I' l'aggio acciso, a Pulcinella”). Nondimeno, più tardi, nel mezzo della sua crisi – è l'unico, bellissimo, momento di “irrealismo martoniano” del film – Scarpetta entra di notte nel teatro vuoto è lì sul palcoscenico, con davanti un cero, sta il cadavere di Pulcinella; Scarpetta gli toglie la maschera – ed è la sua faccia.

Questo ci porta al filo rosso del film che è, inevitabilmente, la ribellione contro il padre. Schiacciati dalla personalità prorompente ed egocentrica di Scarpetta, che fra l'altro vuole incardinarli nella recitazione delle proprie opere, i figli oppongono varie forme di resistenza, dalla rivolta di Vincenzo (“Non esistete solo voi”) alla soluzione originale di superamento intuita dal giovanissimo Eduardo che dice al fratellino ribelle Peppino “Vuoi scappare? Ti vuoi liberare? E allora va – indicando il palco dove si prova Miseria e nobiltà – la nostra libertà è là sopra”. Il tramonto di Scarpetta contiene il presagio del giorno dei De Filippo, segnato dal destino nella coincidenza del nome Eduardo. Sono loro tre che in una foto autentica chiudono il film.

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