Scritto e diretto
dall'esordiente Shin Dong-seok, il coreano Last Child è un film potente. In un commento
online Dario Tomasi citava Kieslowski, Lee Chang-dong e, per il
finale, Kim Ki-duk. Giusti riferimenti, fra i quali è
particolarmente azzeccato il primo: in effetti la freddezza spietata
del montaggio di Shin Dong-seok (intendo il macromontaggio fra le
scene, coi suoi passaggi freddi e oggettivi e l'uso intensivo
dell'ellissi) bene corrisponde all'inesorabile rigore geometrico di
Kieslowski.
Una
coppia di sposi, i coniugi Jin, ha perso il figlio adolescente che è
annegato da eroe per salvare un suo amico. Quest'ultimo è un ragazzo
sbandato che a poco a poco viene quasi adottato dai due - ma ha un
segreto, la verità sconvolgente sull'episodio (aggiungo che l'unica
debolezza del film è appunto una forte prevedibilità circa questo
punto). C'è un senso di tragedia in attesa di scatenarsi che è
sotteso ad ogni momento, con uno svolgimento psicologico molto
centrato. Il film si organizza, infatti, su una doppia linea: quella
romanzesca, per cui solo a poco a poco si svela il quadro di ciò che
è successo, secondo una traccia quasi poliziesca, e quella
psicologico-filosofica che è anche migliore.
Riveste
un senso metaforico importante il riferimento continuo (è il
mestiere del protagonista Mr. Jin) alla ristrutturazione (renovation)
degli appartamenti, togliendo la vecchia carta da parati stracciata e
mettendone una nuova. Questo incessante ripulire e rifare rispecchia
bene quella necessità di elaborazione del lutto, quel sentimento di
“lasciar andare” che è l'esigenza in cui si dibattono i due
protagonisti senza riuscire a farla propria. In questo senso
(paradossalmente) colpisce più la parte prima della rivelazione che
quella dopo; ma è anche vero che questo tema ritorna, implicito, nel
finale.
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