Per parlare di
Suburbicon dobbiamo partire dal concetto di palinsesto. Perché
il film di George Clooney nasce da una sceneggiatura dei fratelli
Coen, scritta nel 1986 (il loro esordio Blood Simple è del
1984), passata in seguito a Clooney; la sceneggiatura del film è
firmata da George Clooney e Grant Heslov con Joel ed Ethan Coen. E
come in un palinsesto, rispunta il testo precedente sotto la
riscrittura, è possibile vedere temi e figure dei Coen sotto il film
realizzato; benché Clooney, regista dignitoso ma non brillante, non
abbia dei Coen né la pregnanza artistica né la la grandezza del
sarcasmo.
La cittadina di
Suburbicon, in cui si svolge il film (ambientato all'inizio degli
anni '60), è la concretizzazione edilizia di un sogno. Basta vedere
i titoli di testa, che appaiono sulla sua pubblicità, nelle forme
patinate e trionfaliste dei '50. Giacché la pubblicità è
l'autorappresentazione di una nazione (pensiamo a Norman Rockwell).
Suburbicon è l'enfatizzazione del concetto di suburb (le
villette della middle class: quelle che impiegavano come
giardiniere-topiario Edward Mani di Forbice) come bolla,
realtà separata, corrispondente all'autorappresentazione di una
società americana bianca senza traumi. Un posto dove l'ordo rerum
corrisponde all'ordo idearum, nella variante americana della
pubblicità: l'utopia edilizia di Suburbicon è pubblicità
concretizzata.
Di qui lo scandalo per
i nuovi inquilini neri che vi si stabiliscono: non perché sono negri
ma perché sono middle class nera: è vissuta come
un'aggressione di classe prima che di razza: la piccola e media
borghesia di Suburbicon sarebbe pronta ad accettare un colore di
pelle diverso – purché socialmente inferiore.
Questo tema sugli
scontri razziali è peraltro secondario (e presumibilmente
“clooneyano”) rispetto al tema centrale, coeniano, imperniato
sulla famiglia Lodge. Qui un'irruzione notturna di due ladri, che
immobilizzano gli inquilini, risulta nella morte della madre del
protagonista ragazzino Nicky. Il cinema dei Coen è contraddistinto
dalla pratica postmoderna del bricolage, l'impiego di
frammenti significativi, il reworking di materiali
filmico/mitici precedenti. In questo caso il materiale costitutivo è
quello del noir – la cui storia (esempio archetipico Double
Indemnity, La fiamma del peccato, di Billy Wilder) parla
di destino implacabile, rovesciamenti morali e piani falliti.
Infatti... attenzione,
seguono spoiler (ma tanto già il trailer del film svela follemente
tutto!)... quando Nicky si intrufola nel confronto all'americana dei
sospetti alla stazione di polizia, e sente il padre e la zia dire che
non riconoscono nessuno, mentre i due colpevoli sono visibilissimi
nella fila, il film ha un totale rovesciamento di prospettiva.
Potremmo dire, tagliando un po' con l'accetta, che passa dalla
suspense del thriller alla disperazione del noir. C'è una
differenza tra i due. Il thriller: il figlio vuole che gli assassini
siano scoperti e puniti; il suo valore è il successo nell'impresa.
Il noir: il figlio scopre che l'assassino è suo padre; a
parte lo shock morale, qui il valore è la salvezza personale –
giacché il bambino, elemento debole per eccellenza, sa che il lupo è
dentro la casa.
Parlando del padre e
della zia, sua amante e complice, è bellissima la caratterizzazione
di Matt Damon, il viso duro con gli occhiali, l'atteggiamento rigido
da “vero uomo” dell'epoca eisenhoweriana. la severità di
genitore fedele alle norme pedagogiche dei '50 (poi arrivò il dottor
Benjamin Spock, spinse nella direzione opposta e fece di peggio); la
precisione del ritratto arriva agli esercizi con le molle per
rafforzare le dita. Per questa durezza, di cui si indovina il fondo
nevrotico, la sua rivelazione come uxoricida non provoca sorpresa
dopo il rivolgimento iniziale, ed è credibile che continui a
presentarsi – sempre con una calma agghiacciante – come figura
righteous (“quello che è bene per la famiglia”, dice).
Parimenti bellissima la
caratterizzazione di Julianne Moore, che dopo essersi introdotta nel
nido come complice dell'assassinio della sorella gemella si tinge i
capelli di biondo per somigliare a lei (ombra di Hitchcock!) come a
realizzare una sostituzione non solo affettiva ma anche fisica; e con
Nicky incarna la perfetta rappresentazione della matrigna di
Biancaneve.
Quanto ai due killer,
riconosciamo facilmente in loro la coppia classica di assassini
scemi e inquietanti dei fratelli Coen (né manca il topos
coeniano del ciccione incazzoso), anche se qui sono certamente
inquietanti – la scena dell'irruzione in casa è quasi
insopportabile col suo senso di violazione – ma non hanno
connotazioni particolari di bizzarria o stupidità.
Non dimentichiamo che
un altro topos del film noir è la figura del detective delle
assicurazioni; ed ecco che compare – a guastare definitivamente i
progetti della coppia assassina – Oscar Isaac (A proposito di
Davis) in una caratterizzazione bellissima, coi suoi baffetti
scolpiti: la pagina forse più coeniana di tutto il film nel
riprendere ironicamente pari pari, anche sul piano visuale,
l'archetipo.
E così un piano
ambizioso va a pezzi. Fedeli alla loro visione negativa dell'essere
umano (con la debole eccezione di qualche “giusto” qua e là), i
Coen fanno un cinema di losers, i cui piani gli si ritorcono
contro. La progressiva disperazione e disintegrazione che leggiamo
sul viso di Matt Damon fanno il pari con quelle di William H. Macy in
Fargo (un film del 1996 nel quale si direbbe che i fratelli
Coen abbiano riversato tutti gli umori acidi della loro sceneggiatura
di Suburbicon). Ed è, questa, la logica irrevocabile del
noir: il grande ingranaggio (The Big Clock, John
Farrow, 1948) dal quale non si riesce a sfuggire; il noir è
la cronaca di una caduta e di un destino irrevocabile (pensiamo
all'estremismo determinista, paragonabile all'ira deorum
classica, di Detour di Ulmer).
Ritroviamo in
Suburbicon perfino uno dei “Kakfa breaks” (per i
quali potremmo usare il termine classico di “buffoneria”) tipici
dei Coen quando Mark Damon dopo essersi liberato di un cadavere se ne
va pedalando grottescamente su una bicicletta da bambini. L'endiadi
coeniana di humour nero e violenza assoluta si ritrova per l'appunto
nella fuga in strada del detective inseguito, che invoca inutilmente
aiuto mentre i cittadini di Suburbicon sono impegnati ad attaccare la
famiglia negra in un riot razzista. E' un rispecchiamento,
sebbene la storia della famiglia negra sia più gracile: in entrambi
i casi è l'anima dannata di Suburbicon che emerge sotto il sogno
della pubblicità materializzata.
Alla fine, dopo il
disastro completo, totale, irreparabile, il piccolo Nicky,
protagonista superstite, sotto shock dopo il crollo del suo universo,
non trova che andare a giocare ad allenarsi a baseball, lanciandosi
la palla, col bambino negro dei vicini, anche lui reduce da una notte
di tregenda. Clooney sottolinea qui il tema antirazzista che implica
un velo di tenue speranza.
Ma dobbiamo ricordare
che Nicky nel film ha vissuto l'indicibile, e ricordando che una metà
della coppia Coen, Ethan, si è laureato in filosofia con una tesi su
Wittgenstein (cosa da tener sempre presente quando pensiamo al loro
cinema) potremmo parafrasare così la più famosa sentenza
wittgensteiniana: “Su ciò di cui non si può parlare, bisogna
giocare a baseball”.
1 commento:
Interessante recensione Giorgio, ti leggo sempre volentieri.
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